ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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AL TUO RITORNO - Bugie di Natale

22/12/2015

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Il Natale vintage americano è entrato nel nostro immaginario come un set ben attrezzato al quale non mancano mai certi oggetti di scena: da svettanti alberi agghindati che sfiorano i soffitti a ghirlande grondanti nastri e pigne, sempre approdando a tavole imbandite dove la padrona di casa dà prova del proprio talento ai fornelli fra gli schiamazzi di tutti. 
Sorrisi a profusione, in quei Natali americani. Occhi speranzosi che si alzano al cielo e parole solenni per la famiglia stretta attorno al focolare, in un elevarsi di cori gaudenti. Nulla può turbare un quadretto tradizionale così composto; dietro i vetri scorrono tempeste di neve lontanissime e le porte sono ben chiuse sul calore dell’intimità famigliare. Il Natale americano non fa brutte sorprese.
Fino all’ingresso in scena di un omicidio, a braccetto con lo spettro della follia.
Questo ansiogeno Natale ha inizio sul vagone di un treno dove la bellissima Mary Marshall (Ginger Rogers) viaggia muta e imperscrutabile scrollandosi di dosso gli sguardi dei soldati in licenza. Ragazzi rumorosi ed euforici che sfuggono alla marina o all’aviazione per tornare a casa a festeggiare il Natale. Fra loro vi è anche un ombroso sergente poco incline alla conversazione; inutile che vi descriva la bellezza sconvolgente di quel Joseph Cotten che più volte vi ho ricordato essere il mio attore preferito: biondo, riccio, lineamenti delicati e sorriso rassicurante, attira subito l’attenzione di Mary e si presenta come il sergente Jack (Zachary, nella versione in lingua originale) in licenza. Lei risponde presentandosi come una segretaria. 
Due sconosciuti finiscono per trovarsi al centro di uno scarno dialogo, entrambi sono diretti a Pine Hill e i pochi minuti di incontro sul treno lasciano ad entrambi uno sbadato sorriso sul volto. Jack è dunque libero di andare a fare visita alla sorella, Mary di recarsi a casa degli zii dove verrà ospitata per un breve periodo.
Ma Jack non è un semplice sergente in licenza e Mary non è più esattamente una segretaria.
I Marshall frattanto accolgono quella parente bella e altezzosa con un salone ingombro di luci e una buona cena che manda profumi dal forno. La cuginetta Barbara (una Shirley Temple adolescente eppure ancora così bambina nei modi e nelle espressioni del viso) sottopone la nuova venuta a un vero e proprio interrogatorio e in breve appare chiaro che tutta la famiglia Marshall stia accogliendo Mary, pur lasciandola un passetto fuori dalla propria sfera affettiva.
Per Mary il mondo è nuovo, appena scartato, freddo e impersonale: a stento trova un piccolo spazio per ricostruirsi daccapo e ogni suo sforzo pare vano. Quella dolorosa parola – “criminale” – ricade pesante su di lei e la schiaccia in una serrata persecuzione.
D’altronde Mary è da poco uscita di prigione e questo è il suo primo tentativo di riaffacciarsi alla società.
Frattanto il sergente Jack è nei paraggi di casa Marshall e combina una cena con Mary sperando di continuare la conversazione avvenuta sul treno: di lì a poco confessa di non avere alcuna sorella a Pine Hill ma di essere sceso in quella località spinto dal suo interesse verso Mary.
Osserviamo due innamorati tristi e silenziosi, entrambi bugiardi per necessità; ma sotto il grande lampadario di vetro di casa Marshall ha luogo un piccolo miracolo. Ciascuno, seduto a tavola, sposa quella incantevole atmosfera natalizia che fa del Natale americano un grande classico del romanticismo. I giorni di svago nella località innevata di Pine Hill tengono allegri il sergente e la segretaria, ma il corpo di lui è debilitato e la mente distrutta: la guerra gli ha lasciato addosso le più tremende e invisibili cicatrici e non potrà nasconderle a lungo. Mary, dal canto suo, spiega alla curiosa cugina Barbara la sua storia fatta di violenza e terrore: il motivo per cui, tempo addietro, è finita in prigione con l’accusa di omicidio.
Un equilibrio assai precario, un sottile filo di menzogne, tiene uniti i protagonisti. Belli, bellissimi, eppure sfregiati in maniera irreparabile. Il sangue versato si allarga come una palude fra gli sguardi dei due, incapaci di raccontarsi, paurosi di perdere l’occasione per vivere un amore rispettabile fra americani rispettabili. Americani che addobbano le case, intonano canti e si siedono a tavola la notte di Natale.
Un film di confessioni, dove William Dieterle affronta la difficile gestazione di una nuova vita. La Temple nel ruolo della giovanissima pin up americana incarna l’America vera e propria, con sorrisi puliti e tradizioni di ferro. Cotten e la Rogers restano volti sbiaditi in balia di una corrente fatta di dolore a malapena sopito; sono maldestri attori di una nuova esistenza, soli al mondo e imbevuti di una rassegnazione che rende amaro persino il Natale. Un film delicatissimo che inquadra i tormenti umani rendendo complice lo spettatore, un lavoro struggente di primi baci e pathos mozzafiato.
Questo Natale da passare in salotto con la radio accesa e l’albero addobbato regalerà ai Marshall una lezione inaspettata: l’arte della comprensione e della tolleranza.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: I'll Be Seeing You
Anno: 1944
Durata: 85'
Regia: William Dieterle
Sceneggiatura: Marion Personnet
Fotografia: Tony Gaudio
Musiche: Daniele Amfitheatrof
Attori: Ginger Rogers, Joseph Cotten, Shirley Temple, Spring Byington, Tom Tully

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IL RITRATTO DI JENNIE - L'ispirazione perduta

12/10/2015

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Galeotta fu la vhs che molti anni fa mi portò a spalancare i miei occhi di bambina davanti a questo film. Erroneamente indicato come un “classico dell’orrore”, mi trovai davanti un film di una tale e tenera bellezza da comprenderne poco o nulla, all’epoca. Restai folgorata da quel Joseph Cotten che sarebbe diventato il mio attore preferito fra i mostri sacri del vintage e la mia paura fu appena solleticata da Jennie, la bambina che scompare.
Guardiamo quindi questo film denso di atmosfere misteriose, drammatiche, romantiche, ma guardiamolo con occhi differenti. Quelli di oggi, più che mai sensibili alla bellezza.
1934, sullo sfondo di una New York invernale fatta di grattacieli e pattinatori: un povero pittore senza fortuna vaga per le gallerie sperando che qualcuno compri i suoi quadri. Il regista, complice, lo porta più volte a camminare dentro una tela. Stiamo guardando forse noi stessi un quadro?

​Quadri. Di fari e mari tempestosi dove tutto emerge meno che quella forza prorompente che spiana la via al pennello: l’amore. Così, senza uno spicciolo in tasca e appesantito da troppe tele rifiutate, il pittore Eben Adams (Joseph Cotten) girovaga nel parco ed è lì che incontra Jennie (Jennifer Jones) per la prima volta. Deve avermi profondamente spaventata, da bambina, la visione di quella ragazzina poco più grande di me in abiti antiquati. Il suo canto – dove vado nessuno sa, dove vado tutto va – affascina tanto il pittore quanto il pubblico. Jennie è un piccolo mistero canterino, contraddittorio, esuberante, che attraversa la vita dell’infelice artista come un piccolo arcobaleno.
Di lì a poco Eben torna alla vita di sempre, scuote la testa divertito ripensando alla bimba chiacchierona incontrata nel parco, affronta una velenosa padrona di casa con la mano tesa e uno sgradevole “I soldi dell’affitto!” incastrato fra i denti. Eppure, nel grigiore di una vita scossa da ben poche ispirazioni, la piccola Jennie è riuscita a oliare leggermente gli ingranaggi: quella notte, come in una magnifica favola newyorchese in bianco e nero, il pittore non chiude occhio per dipingere la sconosciuta e fissare i suoi tratti. 
Di lei gli rimane soltanto un ritaglio di giornale e quando l’indomani lo mostra a un amico si accorge di un sinistro dettaglio: il giornale è di molti anni prima, come se la piccola Jennie lo avesse portato da un altro tempo. 
La vita misera e sacrificata del giovane artista prosegue nonostante quel pezzetto di carta vecchia; è una vita che il regista fotografa impietoso: i sotterfugi per ricavare un boccone a pranzo, il piccolo mondo degli artisti incompresi, una taverna dove cercare ingaggio per dipingere un affresco inneggiante all’Irlanda. Per Eben la strada verso la celebrità è ancora lunga, e reagisce con genuino stupore quando alla galleria Matthews and Spinney uno dei suoi studi a matita viene giudicato buono. Non una delle solite scene di mare in tempesta, ma l’abbozzo di un volto di bambina, quella Jennie che sembra portarsi appresso una sottile e irresistibile fortuna; il viso “antico e moderno” di ogni donna, il viso che non passa di moda. La prodigiosa bambina a matita garantisce all’artista venticinque dollari, dà lui fiducia e pasti caldi.
Non rimane che uscire in quella città farinosa di neve e piena di parchi sconfinati a cercare Jennie, l’inarrivabile scintilla di spontaneità e bellezza, la musa insolita e casuale. Non mancano, nel corso della ricerca, gli spaccati sulla vita dell’artista: la sua fuga dal Maine lasciandosi alle spalle la polverosa esistenza di paese, la speranza di affrancarsi mettendo su tela le proprie idee, la vita da topo di soffitta fra pennelli e tubetti di colore.
Quando Eben incontra Jennie all’improvviso, su una pista di pattinaggio, la trova quasi cambiata. Più raffinata. Forse cresciuta. Decisamente più vicina a una donna che a una bambina. In pochi giorni la sua musa ha cambiato aspetto, e parla al passato come se fossero passati anni dal primo incontro col pittore. L’ovale grazioso di una bambina è diventato il delizioso volto di una donna e questo nuovo incontro sotto un sole incerto e nel bel mezzo della neve newyorchese è linfa per il pittore disperato.
L’ossessione dell’artista per quella visione magnifica diventa in breve la nostra. William Dieterle gioca sapientemente con luci e foschie regalandoci illusioni oniriche nel bel mezzo di una caotica città. Non manca inoltre una pista squisitamente investigativa che prende il via quando Eben decide di scoprire qualcosa in più sulla strana amica che talvolta compare fra gli alberi. Lo ritroveremo a vagare fra gli scheletri dei vecchi teatri, ficcanasando negli album di foto e ricostruendo tassello per tassello la vita di una giovane donna che non può raccontarsi.
Perché come l’ispirazione lei arriva e se ne va a suo piacimento, non appartiene e non si lascia catturare facilmente, non conosce forzature e non sempre mantiene le proprie promesse.
Dove va nessuno sa, dove va tutti vanno.
Bunuel, affascinato da questo film, lo definì “una fragile storia di fantasmi”; non esiste definizione migliore di questa.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection

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Scheda tecnica

Titolo originale: Portrait of Jennie
Anno: 1948
Durata: 88'
Regia: William Dieterle
Sceneggiatura: Peter Berneis, Ben Hecht, David O. Selznick, Robert Nathan, Paul Osborn
Fotografia: Joseph H. August
Musiche: Dimitri Tiomkin, Bernard Herrmann
Attori: Jennifer Jones, Joseph Cotten, Ethel Barrymore, Cecil Kellaway, Lillian Gish

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L'ORGOGLIO DEGLI AMBERSON - La serenata della discordia

24/4/2015

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Pensiamo all’attaccamento per una storia, al regista che punta su una trama, la perfeziona, la rende immagine e la consegna così, nel suo abito migliore, al grande pubblico. Orson Welles, giovanissimo e reduce da Citizen Kane, ha una storia fra le mani: è una magnifica incursione in un mondo ottocentesco dove le peripezie di due famiglie si intrecciano fra sentimenti mai sopiti, possessione e crudeltà. Vuole proporla al pubblico, conducendolo per mano in quella datata cartolina di cilindri in seta, boccoli, carrozze, stivali e pieghe dei calzoni. E trova il modo giusto per farlo, utilizzando la propria voce.
L’orgoglio degli Amberson si apre con una narrazione di taglio documentaristico sugli usi e i costumi del 1873: Welles, voce narrante, descrive gli abiti in velluto delle signore, le buone consuetudini, il tram a cavalli, addirittura fa considerazioni sul passaggio dei tempi. Dopo soli cinque minuti di film il giovane regista ci ha già ipnotizzati, ci ha resi parte di quel mondo dolce e antico di serenate sotto la finestra e grandi ricevimenti nel salone. Il risultato è che noi, grande pubblico, non vogliamo staccarci dallo splendore degli Amberson.
Vogliamo conoscere a fondo la solida e ammirata famiglia che fa il buono e il cattivo tempo a Indianapolis, quegli Amberson che mangiano ostriche crude e pianificano matrimoni a tavolino, quelli che danno all’invidiosa gente del luogo molto di cui sparlare. Sono proprio le chiacchiere degli abitanti locali a illustrarci l’imminente matrimonio fra la giovane e attraente Isabella (Dolores Costello) e Wilbur Minafer, un uomo meno piacente e benestante di lei. Questo matrimonio, così velocemente raccontato sin dalle prime scene, è un colpo basso per Eugene Morgan (Joseph Cotten): il giovane, da sempre innamorato di Isabella, l’ha offesa con una goffa serenata e vede sfumare la sua possibilità di sposarla. Di lì a qualche anno Isabella dà alla luce un figlio di nome George: un bambino terribile e prepotente, degno virgulto di una famiglia che ha forgiato una reputazione a suon di atteggiamenti superbi ed eccessi.
Welles ci accompagna fin qui e resta momentaneamente dietro le quinte in silenzio, per lasciare che siano gli Amberson stessi a narrare la loro storia alcuni anni dopo.
George (Tim Holt) è tornato dal collegio, ma ciò non è bastato a correggere il suo temperamento focoso. Isabella, sua madre, non ha perso la bellezza di un tempo e vive placida al fianco dell’uomo che sposato. Morgan, invitato a un ballo, la rivede e avverte il crepitio dell’antica fiamma. Ad accompagnarlo c’è la figlia Lucy, una splendida e dissacrante Anne Baxter che poco si cura delle formalità. Ed è proprio su Lucy che George mette gli occhi, dando degna prosecuzione a una saga di amori repressi e non corrisposti.
Descrivere dunque i destini intrecciati degli Amberson diventa via via più complicato; come in ogni saga che si rispetti molti sono gli animi e tante le evoluzioni. Ciò che colpisce è l’atmosfera di fasto e agiatezza che, sotto la guida di Welles, sfiorisce gradualmente. Il regista ci regala uno scenario di favola e poi si diverte a scarabocchiarlo con tante piccole, sordide e distruttive pulsioni umane. Agli Amberson rimane l’orgoglio, l’attaccamento a un nome altisonante, mentre i loro cuori vengono spinti alla deriva da una serie di nefaste circostanze.
C’è Isabella e il suo amore per Morgan, un amore mai espresso appieno che germoglia nuovamente non appena la donna rimane vedova. C’è Morgan, nobile d’animo, saggio ed elegante, perfettamente dipinto addosso a quel Joseph Cotten che sostiene ogni ruolo con mirabile maestria. C’è poi George, ed è lui a darci i veri grattacapi. Un viziato e intrattabile ragazzino, possessivo e vanitoso fino all’osso, che vuole allontanare la madre da Morgan e perseguirà il suo intento senza fermarsi nemmeno innanzi alla morte.
Di sensazionale bravura è poi Agnes Moorhead (altra grande stella di un cast già strepitoso) nel ruolo della zia Fanny, una bisbetica signorina mai sposata che sarà complice quasi involontaria di alcuni tragici avvenimenti.
Divina fra tutte, e vero stendardo del significato del film, è la scena che vede Morgan e la figlia Lucy intenti a passeggiare in giardino: colpiti da un destino spietato, i due vivono le pene delle stesse privazioni d’amore, come se gli Amberson si portassero appresso una maledizione che condanna al cuore infranto chiunque s’invaghisca di loro. Così Lucy rammenta una vecchia favola indiana e il padre, leggendo nel suo cuore, le risponde “Quindi tu resterai nel tuo giardino perché sei convinta che sia meglio affrontare la vita passeggiando fra le aiuole fino alla vecchiaia, anziché permettere al cuore di sostituire un cattivo capo?”.
A questa domanda risponderà Welles, l’uomo che ha amato questo film sino a raccontarlo a voce, per poi rinnegarlo dopo i tagli imposti dalla Rko alla pellicola (quasi 50 minuti) ma regalandolo a noi, il pubblico, quello che a distanza di anni sa ancora di avere di fronte un capolavoro.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Magnificent Ambersons
Anno: 1942
Durata: 88'
Regia: Orson Welles 
Sceneggiatura: Orson Welles (dal romanzo di Booth Tarkington)
Fotografia:  Stanley Cortez, Russell A. Cully, Jack MacKenzie, Russell Metty, Nicholas Musuraca, Orson Welles
Montaggio: Jack Moss, Mark Robson, Robert Wise
Musiche: Bernard Herrmann (non accreditato), Roy Webb
Attori: Joseph Cotten, Dolores Costello, Tim Holt, Anne Baxter, Agnes Moorehead

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LA CASA DEL CORVO - Fra le dita del poeta

26/5/2014

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Tempo fa ho scritto un romanzo che mi ha esposta a un pericolo non da poco: essere ripetutamente scambiata per la protagonista. Protagonista che ho volutamente reso subdola e maligna, con la speranza che nessuno avanzasse la sgradevole ipotesi dell’autobiografismo, cosa che invece è puntualmente avvenuta.
Voglio parlarvi di un poeta squattrinato e stravagante che vive come un topo di fogna nelle luride taverne di New York, assillato dai debiti ma abbastanza sfrontato per sorridere all’avvenire. Si fa chiamare Dupin e ha lo sguardo ipnotico di Joseph Cotten (concedetemi uno sprazzo di autobiografismo: il mio attore preferito). In quella stessa New York, immerso fra le antiche reliquie di napoleonica memoria, vive il vecchio Thevenet (Louis Calhern). Dopo la caduta dell’impero ha lasciato la Francia per rinchiudersi nella grande casa newyorchese fra bicchierini traboccanti e i versi del suo migliore amico: un grande corvo dalle piume lucenti. 
In quelle fastose stanze si aggirano anche la governante Lorna Bounty (una crudele Barbara Stanwyck, prodiga di appetiti sensuali) e il violento e irascibile maggiordomo Martin. Due veri angeli della morte, intenzionati a sbarazzarsi del vecchio Thevenet per banchettare con le sue fortune. Tenete a mente tutti questi personaggi, perché l’arrivo di una carrozza sta per scaraventarli in una spirale di orrore.
A scendere da quella carrozza è una bambolina di ceramica, una Leslie Caron ancora alle prime prove sullo schermo ma già splendente di fascino. Quest’ultima impersona Madeline Minot, arrivata dalla Francia per incontrare il vecchio Thevenet e chiedergli aiuto economico in quanto fidanzata del nipote. Il passato è tornato, parla in francese con voce flautata, indossa cappellini e ha grandi occhi azzurri che apriranno una breccia nel cuore del burbero Thevenet. Il vecchio, messa da parte la bottiglia, ha una bruciante nostalgia per il nipote (col quale ha sempre vissuto in bilico fra odio e amore) e non potrà che accogliere con l’affetto di un nonno la giovane fidanzata.
Ecco i presagi di un thriller che spesso attingerà alle fosche cromie del gotico, intarsiato dalla suggestiva fotografia di George Folsey.
La piccola Madeleine è finita dritta in un covo di vipere, fra corvi che volano di stanza in stanza, servitori animati da impulsi omicidi, porte chiuse a chiave e crescenti, angoscianti sospetti. Primo fra tutti, quello secondo il quale i servitori stiano avvelenando il vecchio Thevenet. Decisa a salvare il nonno adottivo la bella francesina muoverà mari e monti e ad aiutarla sarà il poeta Dupin, forse invaghito di lei o soltanto attratto dal brivido. Scene concitatissime ci porteranno a importunare farmacisti nel cuore della notte ed elaborare strategie incontrandosi in segreto negli angoli nebbiosi delle strade. 
Il bel Daupin, intraprendente mascalzone dalla parlantina pungente, si introdurrà in casa Thevenet entrando nelle grazie della terribile Lorna, una bellezza nostalgica ma non appassita, innamorata perdutamente del denaro e dispotica con il complice Martin. Perversa nel suo impudico flirt con il giovane poeta e vera maestra di cerimonia per feste chiassose e grottesche. Proprio le sfrenate gozzoviglie di casa Thevenet segnano alcune delle scene più efficaci del film: maschere, nani, saltimbanchi, ballerine seminude. Il vecchio scorbutico esagera con i bicchieri seduto sul suo trono, mentre gli affezionati servitori gli versano quei velenosi alcolici noncuranti delle raccomandazioni del medico. Vogliono ucciderlo con i vizi, con gli eccessi, con l’orrendo senso di festa che aleggia nella sinistra dimora del corvo. Frattanto, nei brumosi vicoli cittadini, la piccola Madeline e il poeta dal sorriso astuto si improvvisano detective, per impedire il peggio.
Un film squisitamente brillante che mette alla prova il nostro intuito, dandoci più volte l’impressione che solo il silenzioso corvo conosca a fondo ogni segreto. Attinto al genio di Dickson Carr e firmato MGM, si rivelò un fiasco che costò al regista Markle il licenziamento e la prematura fine della carriera. 
In realtà La casa del corvo è oggi una chicca incentrata su testamenti scomparsi, acuti rompicapi e la pesante minaccia di una diabolica coppia: Lorna e Martin, perfidi fino all’osso, disumani. L’atmosfera gotica incontra spesso il giallo deduttivo, e un po’ di comicità rende invitante la visione sino all’ultima scena, una vera e propria coltellata alle spalle che ci rivela la reale identità di Dupin. Chi potrà mai essere lo scanzonato e arguto poeta che alza facilmente il gomito? Quale letterato, nel tempo, entrò nel mito per merito di un corvo? E il nome Dupin non vi dice nulla?
Io vi ho dato già abbastanza indizi: ora non resta che entrare di soppiatto nella casa del corvo e lasciarsi stregare.
E ricordate che alcuni scrittori, a differenza mia, amano diventare i propri personaggi.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Man with a Cloak
Regia: Fletcher Markle
Sceneggiatura: Frank Fenton, dal racconto di John Dickson Carr
Attori: Joseph Cotten, Barbara Stanwyck, Louis Calhern, Leslie Caron
Musiche: David Raksin
Fotografia: George J. Folsey
Anno: 1951
Durata: 84'

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