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RUBY, FIORE SELVAGGIO - La palude dell'erotismo

8/5/2015

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Noi amanti del bianco e nero gli dobbiamo molto. Atmosfere, spiragli, spaccati luminosi, paura, romanticismo, orrore: nel bianco e nero tutto ciò che immaginiamo prende forma e l’occhio si fa assetato di dettagli. Ma Ruby, fiore selvaggio di Vidor si ambienta nel North Carolina, ed è tanto l’attaccamento dei protagonisti verso la propria terra che vale la pena di vederla, in tutti i suoi colori.
Il consiglio è di andare su Google, digitare North Carolina Landscapes e poi restare senza fiato, presi a schiaffi da quella tavolozza di rosso, giallo e arancione che si stempera nel fitto dei boschi. Questo è il paesaggio di Ruby Corey: la terra dura dei grandi boschi, i tramonti sui campi sterminati, la plumbea veste nebbiosa delle paludi. 
Ruby (Jennifer Jones) conosce bene la sua terra; la calpesta senza paura imbracciando un fucile e sparando ai daini. Mascolina, grezza, spiccia nei modi: Ruby viene da una famiglia povera pur avendo passato un periodo sotto l’ala della signora Gentry, sua mamma adottiva, decisa a fare di lei una composta signorina. Ma la natura chiama forte e Ruby preferisce i calzoni stretti, le larghe camicie che lasciano intuire il seno e la parlantina sfrontata; il tutto usando il fucile con la destrezza di un uomo. Eppure quello spirito libero si è innamorato dell’ingegnere Boake Tackman, ed è a lui che vuole darsi completamente.
Così il film si tinge subito di tinte fosche: c’è un senso di umidità, passioni soffocanti e irrespirabili, momenti di tensione erotica portata all’estremo. Come il ritorno di Boake dopo essere stato per qualche anno in Sudamerica, quando il giovane avanza nel buio chiamando Ruby e lei lo acceca con la torcia, restando dietro il fascio di luce per non mostrargli le sue forme. Lui vuole vederla, la immagina cresciuta, le parla camminando piano nell’oscurità e spera di approdare con le mani al suo giovane corpo. Una ricerca bestiale, quella che spinge Ruby verso Boake e viceversa. Un pericoloso gioco fatto di baci prepotenti che nascono e muoiono nel grembo del bosco, abbracci audaci, momenti di incontenibile desiderio mentre in paese si diffondono mormorii scandalizzati. Eppure Boake (Charlton Heston), deciso a lavorare la terra e costruire un impero agricolo, corre dritto verso il futuro e in quel futuro non c’è spazio per la selvatica Ruby che offre il proprio corpo senza troppo tentennare. A Boake interessa una ricca figlia di papà, disposta a sovvenzionare i progetti e sorridere in pubblico nel ruolo di moglie della buona società.
Torna nel fango, Ruby. Questo sembra dirle puntualmente il destino. Schiacciata come un verme in quella palude che conosce come le sue tasche eppure agitata da spiriti sempre più bollenti.
Alla notizia del matrimonio di Boake le speranze di Ruby vanno in fumo e il suo appetito dei sensi si trasforma in un fiume di rabbia. Corre dunque fra le braccia del proprietario terriero Jim Gentry (Karl Malden), vedovo di quella signora Gentry che un tempo cercò di educarla: un uomo più vecchio di lei, di buon cuore, ricco. Non è ciò che Ruby desidera, ma è un modo per staccarsi di dosso il fango delle sue umili origini ed esigere il rispetto di quella piccola comunità che bisbiglia al suo passaggio. Ma una storia rovente come quella fra Boake e Ruby non teme gli ostacoli di un matrimonio e lei, sotto nuovi cappellini e fasciata da abiti di alta sartoria, nutre ancora l’istinto animalesco di sempre e – più ancora – il logorante bisogno di sentirsi accettata. Nell’amore. Nella società. Da un uomo. Fra le altre donne. Sentirsi accettata per quello che è: Ruby Corey, la ragazza che spara nel bosco e diventa incandescente quando fa l’amore sulla spiaggia, quella che lotta con le unghie e graffia come una gatta selvatica, ma si sbriciola innanzi a una carezza.
Un’armonica a bocca detta il ritmo di queste scene, accompagnata dal segnale pattuito fra Ruby e Boake, un motivetto fischiettato che appartiene al loro dialogo segreto. Il film è gravido di boschi fitti, capanne di legno, stivali e fucili, tutta la durezza del North Carolina e della sua gente. Nessuna vernice di eleganza per coprire questo scenario, nessun tentativo di limare gli spigoli di Ruby; tutto è restituito da King Vidor in modo esplicito e crudo. Forse mancano solo i colori, eppure a un tratto ci sembra di vederli affiorare nel pallore del bianco, nel nero imperscrutabile. I colori dei boschi dove Ruby rincorre l’amore e quelli più freddi e confusi della grande palude stagnante che resta immobile sullo sfondo, come un cattivo presagio. 
La storia ci rapirà con scandali, omicidi e notti di passione. Infine ci sarà chiaro che a una vicenda così ruvida, estrema e disperata non occorre realmente il colore. Occorre piuttosto quel lieto fine che il regista ha preferito farci sospirare fino all’ultimo, per poi abbandonarci così.
Increduli e sgomenti, al centro della palude.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Ruby Gentry
Anno: 1952
Regia: King Vidor
Sceneggiatura: Sylvia Richards
Attori: James Anderson, Phyllis Avery, Herbert Heyes, Jennifer Jones, Karl Malden, Charlton Heston
Fotografia: Russell Harlan
Musiche: Heinz Roemheld, David Chudnow
Durata: 82'

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L'ODIO COLPISCE DUE VOLTE - Sangue e fulmini

27/8/2014

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“Film della mano sinistra del regista”: questo mi è capitato di leggere qua e là in corrispondenza ad alcuni film. Convinta a scovare con crescente interesse i giudizi degli autori (e le loro confesse simpatie o antipatie in merito ai loro lavori) mi sono imbattuta in questa pellicola e nell’opinione che ne aveva King Vidor. Svelarvelo ora sarebbe prematuro: facciamo prima una rapida ispezione nella cella di un condannato a morte.
Trevelyan ha i minuti contati: occhi azzurri sbarrati, atteggiamento strafottente, l’aria instabile e vulnerabile di Richard Todd. Così è l'uomo che lo stato del Texas sta per spedire alla sedia elettrica, dietro accusa di uxoricidio. Ma la buona stella di Trevelyan compie il suo dovere: il telefono squilla per salvarlo e l’uomo viene rilasciato.
Ora spostiamoci a bordo di un pullman che viaggia spedito nella notte verso la località di El Llano. Shelley Carnes (Ruth Roman) scende nella piccola oasi abitata al centro di un deserto caldo e polveroso e cerca una pensione dove pernottare. Attrice teatrale di poca fama, convalescente dopo un periodo di malattia eppure energica e disinvolta, Shelley è diretta al ranch di Tumble Moon. Pregusta la sua breve vacanza, ha voglia di sole, lunghe dormite e pasti sostanziosi. Ma Tumble Moon dista parecchio da El Llano, e Shelley si sistema in una modesta pensione di proprietà dei signori Nolan: coppia anziana e misteriosa, invadente e indiscreta, pronta a farle mille e inspiegabili domande non appena dichiara di essere diretta a Tumble Moon.
A questo punto la curiosità ci divora: qualsiasi cosa si nasconda in quel ranch, deve proprio meritare una visita. Per nostra fortuna, dopo una notte di sonno ristoratore, la bella Shelley è svegliata dalla signora Nolan; le viene data una macchina, una mappa e qualche dritta per raggiungere il ranch. Shelley non perde tempo e si mette in viaggio, ma all’imbrunire un violento temporale irrompe sulla scena e l’auto stenta a risalire la strada fangosa. Meglio fermarsi, meglio attendere l’alba; l’occasione di un giaciglio è data da una vecchia casa all’apparenza abbandonata.
Vi ricordate il nostro buon Trevelyan accusato di uxoricidio e poi rilasciato? Superfluo a dirsi, il giovane vive in quella casa, alla luce incerta delle candele, e si nasconde dalle chiacchiere del paese, fuggendo alla persecuzione dei curiosi. La nostra sprovveduta Shelley farà la sua conoscenza e passerà una strana notte di fiammelle tremanti, paure sottintese, porte da chiudere a chiave e sguardi insistenti, languidi.
Un noir che parte ingranando ogni marcia, veloce e diretto, consegnandoci intatti nelle braccia della paura. La notte in quella casa è solo un assaggio della grande sciagura in arrivo. Tumble Moon non è ancora stato raggiunto. Quando finalmente Shelley vi arriva alla luce del giorno, rinfrancata da un pasto frugale offerto dal sinistro Trevelyan, ha la testa invasa dai dubbi e qualche residua, malconcia speranza di riuscire a vivere una vacanza riposante. 
Ma anche il sospirato ranch conficcato nel nulla con la sua solida struttura di legno ha in serbo brutte sorprese. Ad abitarlo ci sono solo due persone dai modi schivi: la mascolina Lisa (una Mercedes McCambridge nevrotica) e il fratello storpio di lei (Darryl Hickman, qui nuovamente nei panni dell’adolescente handicappato dopo la suprema prova sostenuta in Femmina Folle di John M. Stahl nel 1945). I due non aspettavano ospiti, il ranch è chiuso ed entrambi hanno un’aria furtiva e sfuggente. Shelley, nella sua freschezza di turista di città venuta a caccia di pace in un deserto rovente, li convince a lasciarla pernottare presso di loro.
I fili della matassa stanno per annodarsi pericolosamente, perché ci sono scheletri nell’armadio per tutti e la caccia a Trevelyan infiamma gli abitanti della cittadina. Tutti vogliono scoprire quale sia il suo rifugio e ognuno, incluso il pastore del posto, avrà molto da svelare sul conto di quell’uomo. Ora Shelley è sola, nel deserto, dopo il suo incontro fatale con un tenebroso omicida: deve decidere se salvare lui o se stessa.
Il fulmine colpisce due volte nello stesso punto? Questo è il dubbio riservato al pubblico. In un caotico susseguirsi di vicende, lo scenario sbiancato ed essenziale del deserto lancia una luce nitida e irritante sui luoghi della tragedia. La bella casa abbandonata al vento dove Trevelyan ha ucciso la moglie è un santuario del sospetto; la stessa splendida moglie morta assume sembianze di dea ammaliatrice nei racconti dei conoscenti, è una Rebecca del deserto.
Come promesso in principio vi svelo il parere di Vidor circa questo film: “un’insalata di cose senza interesse”.
Ho il piacere di trovarmi in disaccordo col grande regista. Un lavoro frenetico, ma capace di buone atmosfere; sorretto da personaggi femminili carismatici e pieni di passione; inquietante al punto giusto, mai scontato e fedele all’anima del Texas, ai suoi riti. Un enigma che tocca con prepotenza il cuore.
Nessuna insalata; solo temporali e seducenti assassini.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Lightning Strikes Twice
Regia: King Vidor
Sceneggiatura: Lenore Coffee (dal romanzo A Man Without Friends di Margaret Echard)
Musiche: Max Steiner
Anno: 1951
Durata: 91'
Attori: Richard Todd, Ruth Roman, Mercedes McCambridge, Zachary Scott

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