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PICNIC - L’America alla fiera

6/2/2017

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​Siamo in un grazioso paesino del Kansas, dove oggi la vita, fra le casette bianche dai piccoli giardini scompigliati, è ferma per un giorno di riposo. Il Labor Day, un unico lungo giorno che vivremo con gli occhi scanzonati di Hal Carter, spiantato e affascinante ragazzone (William Holden, più energico che mai), giunto in paese su un treno merci senza nemmeno una camicia addosso.
​Povero in canna ma disposto a rimboccarsi le maniche, Hal spera di ripescare il suo antico compagno di studi Alan Benson. Alan è figlio di un ricco industriale e ha ereditato senza troppi sforzi l’impero di cereali paterno: potrebbe facilmente rimediare un impiego per il vecchio amico Hal, figlio di un ubriacone e più volte capitato al centro di qualche grattacapo con la legge. Ma l’arrivo di Hal, in questo giorno di festa, sembra portarsi appresso aria di burrasca.
Accolto dalla signora Potts, una brava abitante del luogo ansiosa di preparare ghiotte merende per il forestiero, l’occhio di Hal non potrà fare a meno di cadere sul giardinetto attiguo: in quel fazzoletto d’erba e fiori si muovono inquiete alcune donne perfettamente intonate a quel quadro campagnolo a tinte vivaci. Flo Owens (Betty Field) rimasta sola ad allevare due figlie pestifere, la piccola Millie, impenitente maschiaccio e topo di biblioteca, e la superba Madge. Quest’ultima compare alla finestra intenta ad asciugare al vento una cascata di capelli biondo ramato: per lo spettatore, trovare il viso di Kim Novak fra le ciocche è una squisita sorpresa. 
In quella casa semplice dove si avvicendano liti fra signorine e cicalecci di macchine da cucire per confezionare abiti da ballo, vive anche una “rispettabile zitella”, la professoressa Sydney, interpretata da una caustica Rosalind Russell. Hal è piovuto dal cielo e quattro donne incredule spalancano gli occhi sul ragazzone a torso nudo, scuro di sole, arrivato chissà come il giorno della festa del lavoro. Festa che prevede, per tradizione, un grande picnic serale e l’elezione della più bella del paese.
Se da un lato cresce l’atmosfera di festa, dall’altro la tensione fa voce grossa: Hal, schietto e solare, sembra gettare benzina sul fuoco mai sopito dei vecchi rancori di paese; il suo fascino genuino e il suo rabbioso bisogno di essere sincero di fronte al prossimo aprono un solco nella vernice immacolata di una intera comunità.
Ogni maschera di rispettabilità crolla. Alan (Cliff Robertson) sembra propenso ad accogliere il vecchio amico, ma è cauto nel concedergli spazio e segretamente invidioso di quella forza fisica che ha fruttato ad Hal buoni risultati sportivi. L’industriale integerrimo e studioso si confronta con l’animale da soma sorridente e spensierato; fra i due si crea una netta frattura quando la bella Madge sembra preferire il secondo al primo. Sua madre Flo, frattanto, la frastorna con discorsi matrimoniali nella speranza che si conceda ad Alan a costo di perdere l’onore e diventi una vera signora agli occhi dei compaesani. La professoressa Sydney rivela una frustrazione bestiale, annidata fra le viscere, un disperato desiderio di maritarsi e un’instabilità ben dissimulata che talvolta dilaga spingendola troppo vicina alla bottiglia.
La lunga sequenza dedicata al Picnic è un vero e proprio affresco di impeccabile borghesia americana: angurie, balli, giochi e quadriglie, torte di mele fumanti, coretti e canti sguaiati, inni gloriosi, corsa nei sacchi e alberi della cuccagna. Tutto sorride, in questa cartolina azzurra di un Kansas rurale e industriale, dove un buon matrimonio organizzato pende sulla testa di ogni fanciulla come una spada di Damocle. Hal, senza smussare nemmeno un angolo del suo carattere e senza rinnegare un passato pieno di disgrazie, conquista il cuore di Madge e tenta di strapparla a un matrimonio conveniente quanto infelice. 
I due attori – qui illuminati da una bellezza raramente sfiorata in altri film – ci lasceranno attoniti a seguire i disegni ipnotici e quasi immobili delle loro danze notturne sulle rive del fiume. Un dramma di un giorno che capovolge le vite già decise di un gruppo di giovani, un Picnic che accende lanterne colorate e sentimenti scomodi.
Tratto dal testo teatrale di William Inge e vincitore di un Premio Oscar nel 1956, Picnic è un film che si potrebbe guardare all’infinito per lasciare che l’ordine venga scompigliato ancora una volta, per bearsi di una bella notizia, per respirare la ventata di freschezza di un uomo semplice in un piccolo mondo costruito a regola d’arte. Ci si emoziona sulle parole risolute della piccola Millie quando giura alla sorella “Finirò l’università e andrò a New York, scriverò romanzi che faranno uscire di sentimento la gente e non andrò a vivere in qualche città di provincia per sposare un uomo qualsiasi e allevare una nidiata di marmocchi”. Si sospira alla vista di queste donnine stanche di imposizioni e piene di amore doloroso, irresponsabile, autentico.
Con la certezza che non si possa amare una persona “perché è perfetta”, il film semina speranza nel cuore di chi sa guardarlo. Una seconda prova per il regista Joshua Logan (dopo il debutto nel 1938 con I Met My Love Again) magistrale ed eterna, che ancora oggi sembra sussurrare al nostro orecchio un buon consiglio.
Va a prendere la vita che desideri finché sei in tempo.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Picnic
Anno: 1955
Durata: 113'
Regia: Joshua Logan
Soggetto: William Inge (opera teatrale)
Sceneggiatura: Daniel Taradash
Fotografia: James Wong Howe
Musiche: George Duning
Attori: William Holden, Kim Novak, Betty Field, Rosalind Russell, Susan Strasberg, Cliff Robertson

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SABRINA - Abiti eleganti

22/8/2016

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Non posso certo parlare di delusione, forse soltanto di un timido disincanto. Di un sorriso per me stessa. Di un senso di cambiamento che ha sempre l’ultima parola.
Sabrina, fra tutti i film vintage visti in questi anni, è quello che più mi ricorda la magica eccitazione di una vita fa: ero una bambina quando vedevo la splendida Audrey Hepburn scivolare nel giardino e spiare il suo amato, fra le siepi, inarcando il collo da cigno. Una scena magica che subito rimanda all’atmosfera dell’intero film, a quel senso di purezza e candore che appartiene a Sabrina – povera, innocente, sognante Sabrina – e la consacra a eterno splendore.
A quei tempi ero rapita dalla favola ed è una sensazione che rammento molto bene. Anni dopo, capitando davanti alla stessa favola, sorrido di me stessa. E non posso certo parlare di delusione, forse è solo un timido disincanto per davvero.
Romanticismo senza compromessi in questa vicenda eccessiva, parigina e americana, dolcissima, in effetti un po’ stucchevole che Wilder regala a un pubblico chiaramente più femminile che maschile.
Sabrina ha un cruccio ed è quello a emozionare le bambine di ogni epoca: si è invaghita del giovane Larrabee, ma lui ha per le mani qualche bionda mozzafiato e non la considera nemmeno per errore. Per questa giovane e già molto intensa Audrey Hepburn, castigata in abiti sempliciotti, ogni scusa è buona per scivolare in giardino durante le feste dei padroni di casa. Lei, figlia dell’autista dei Larrabee, può vedere le meraviglie solo da lontano: le va a cercare con i grandi occhi lucenti fra le foglie, nel buio, godendo della musica che arriva a ondate e sognando ad occhi aperti mentre altri – quegli adulti, eleganti, sconosciuti altri – festeggiano dietro una vetrata. 
Sabrina non è invitata al ballo e ci sono poche possibilità che il rampollo David Larrabee (un affascinante William Holden, perfetto nel ruolo del cascamorto) si accorga della testolina arruffata che lo spia giorno e notte. Una Cenerentola con il cuore stretto e piccino, così infelice da arrivare persino a tentare il suicidio per amore, con drammaticità vera e risultati fallimentari. A sventare la sua teatrale uscita di scena è il fratello maggiore di David, Larry, interpretato da un tenebroso Humphrey Bogart, a suo agio nella parte dell'uomo d’affari di poche parole. È radicalmente diverso e ben contrapposto alla disarmante leggerezza del fratello minore; i due personaggi maschili denotano indubbio talento e sanno palleggiare con sapienza dialoghi vivaci. Così c’è David, figliol prodigo tutto sorrisi e galanterie. E Larry, imbronciato e tutto preso dagli impegni di lavoro.
Al centro c’è l’incompresa Sabrina e il suo bisogno di lasciare i panni di bambinetta goffa per sbocciare in una splendida donna: un viaggio a Parigi per frequentare una scuola di cucina sembra offrirle l’occasione per mutare in farfalla.
La parentesi parigina mi piacque molto anni fa e riconfermo massima preferenza per quel passaggio del film dove un eccentrico cuoco, con tanto di torre Eiffel che ammicca alla finestra e baffetti impomatati, dà istruzioni agli aspiranti chef della scuola d’alta cucina. Scuola che Sabrina frequenta con passi falsi e incertezze, con piccoli pasticci e soufflé che si sgonfiano all’improvviso. Tuttavia, consigliata saggiamente da un anziano gentiluomo divenuto suo amico, la sfortunata figlia di autista cambia pelle.
Genesi di una favola: un brutto anatroccolo capita nella città più chic del mondo e rivoluziona la propria immagine. Quando l’insipida Sabrina torna a Long Island è una signorina di classe e David, puntualissimo, cade nella tenera trappola del suo fascino studiato. Sarà lui ad aggiudicarsi il suo cuore? O forse l’ombroso fratello Larry, sotto la maschera corrucciata di Bogart, è il vero principe azzurro?
Una commedia romantica che delizia per la leggerezza della trama, che si riguarda a distanza di anni senza smettere di sorridere per l’abilità di Billy Wilder nell’accostare personaggi diversi e dare spazio alle loro speranze. Saranno gli abiti eleganti comprati a Parigi a garantire a Sabrina l’ambito titolo di “donna”? Sarà il taglio di capelli alla moda ad assicurarle l’amore?
Il disincanto scalcia per rispondere.
Wilder incaricò la Hepburn di cercare abiti adeguati al film, previe dritte di Edith Head. L’attrice comprò i modelli suggeriti nelle boutique parigine, da Balenciaga ad Hubert de Givenchy, una carrellata di magnifici abiti che hanno emozionato generazioni di ragazze “figlie di autista”. Anche oggi, vedendo la Hepburn fasciata dal vestito bianco di organza ricamata, sfugge alle labbra un sospiro. “Che bello, come le dona”. Nel 1955 un Premio Oscar per i migliori vestiti ricompensa la Hepburn (e Wilder) per la scelta azzeccata del guardaroba.
Così, davanti a Sabrina, tanti anni dopo, si chiede al disincanto di tenere la bocca chiusa ancora per un po’. Quel tanto che basta a credere alla strana, zuccherosa, spiritosa vicenda della figlia d’autista vestita di organza.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Sabrina
Anno: 1954
Durata: 113'
Regia: Billy Wilder
Soggetto: dal lavoro teatrale “Sabrina Fair” di Samuel A. Taylor
Sceneggiatura: Samuel A. Taylor, Billy Wilder, Ernest Lehman
Fotografia: Charles Lang
Musiche: Frederick Hollander
Costumi: Edith Head e (non accreditato) Hubert de Givenchy
Attori:: Audrey Hepburn, Humphrey Bogart, William Holden, Walter Hampden, Martha Hyer

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