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TRAGICA INCERTEZZA - Parigi e la sua crudeltà

8/5/2013

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Tutte le volte che metto piede in un ospedale rischio di ritrovarmi all’obitorio. Vedete, io ho una calamita per la morte: seguo le scale fin sottoterra ogni volta che le vedo. Non lo faccio apposta, ci vado a sbattere contro. Oltre a irrompere tranquillamente nelle stanze di scandalizzati pazienti in mutande, tendo a ritrovarmi sempre “da tutt’altra parte rispetto a dove credevo di essere”. Sono il tipico personaggio che resta a fissare il muro disegnando traiettorie per aria col dito e dicendo a voce alta cose come “ma qui non c’era una porta?”. A volte vengo recuperata da qualche misericordioso, altre volte resto da sola e valutare la fuga tramite le scale antincendio. Un corridoio vale l’altro, per una come me, e l’obitorio è sempre troppo vicino. Non vi dico che piacere l’aria fresca dell’esterno quando, dopo cinquanta minuti di vane peregrinazioni, trovo l’uscita.
Ma scrollatevi di dosso l’ospedale (e l’obitorio) e trovate il corridoio che porta a una Parigi fine ottocentesca da schizzo a carboncino. Avvertite il fremito che s’addensa in aria. Il clima ridanciano e festoso della grande Expo. Attendete nervosi il volo della mongolfiera dal Campo di Marte. Avete un programma cartaceo da consultare. Vi siete fatti tentare dalle leccornie dei venditori ambulanti mentre la banda si lanciava in una marcia trionfale. Potete scivolare lungo il boulevard in carrozza. E dove pernotterete stanotte?
Vicky (Jean Simmons) e il fratello Gianni (David Tomlinson) hanno trovato due stanze all’Halicorn e stanno per approdare alle meraviglie di questa Francia tirata a lucido, grande e congestionato budello dell’arte e circo rutilante della mondanità, meta irrinunciabile per folle ben nutrite, un bonbon ripieno di splendore. Se potessimo entrare in punta di piedi nelle scene e odorarle, rivelerebbero tutte un aroma di vaniglia, anice e violetta. Dolce culla è la Francia; dolce è Vicky nell’attendere la terraferma dal battello; dolce è la voglia di lasciare la noiosa Inghilterra e il brivido di una grande avventura elegante; dolce e rigoroso è quell’hotel Halicorn pieno di turisti, che ha destinato a Vicky e Gianni due belle stanze ossigenate da un panorama mozzafiato su quella torre Eiffel nuova di zecca.
Mettetevi comodi in questa cornice suggestiva e preparatevi a scendere in picchiata all’obitorio. È solo questione di minuti o di scale sbagliate. Tutto appare troppo semplice e stucchevole, tutto fila troppo liscio per i palati noir: locali di tendenza e diari di viaggio romantici, cenette sfiziose e serate tiepide per passeggiare. Poi la notte cala sovrana sulle belle stanze dell’Halicorn e il mattino seguente, giorno dell’Esposizione, viene a chiedere il conto. Perché lì, dove c’era la porta della stanza di Gianni, adesso c’è un muro. La stanza è scomparsa e con lei il rassicurante fratello maggiore dell’ingenua Vicky. Cancellato dalla memoria di tutti, dai registri, dagli occhi dei passanti, da Parigi stessa: Gianni non c’è più e nessuno vuole credere alla sua angosciata sorellina minore.
Ecco che Parigi si sciacqua il sorriso dal volto e rivela il suo ghigno più vile: difficile farsi comprendere in un maldestro francese, difficile fare la guerra a un rispettabile hotel parigino quando si è giovani e inglesi, viso pulito e aria un po’ svampita, quando si è solo la piccola Vicky che sognava la grande avventura da adulta e ha ricevuto in cambio un grande incubo per bambini abbandonati.
I proprietari dell’Halicorn, una coppia di anziani fratelli di poche parole, si fanno via via più schivi nei confronti della ragazza, e si mostrano riluttanti di fronte alle sue teorie. C’è inoltre un altro problema: Gianni teneva i cordoni della borsa, ed è sparito nel nulla. Per l’Halicorn è un dato sufficiente a sbattere Vicky in mezzo alla strada.
Dopo un inizio in sordina, qualche evoluzione che risente del falsetto lezioso e manieristico dato dall’ambientazione stessa, il film ci trascina verso il nostro personale obitorio tirandoci per i capelli. Costretti a rifugiarci all’ambasciata britannica, a questionare coi passanti e farci additare come pazzi furibondi, iniziamo a correre per la città tenendo il passo di quella disperata Vicky. Nemmeno l’arrivo dell'affascinante pittore scanzonato (Dirk Bogarde), piccolo eroe romantico della situazione, sembra placare le nostre ansie: abbiamo visto coi nostri occhi il muro che ha rimpiazzato la porta della camera di Gianni, e adesso ci preme sapere che fine abbia fatto, quel fratello maggiore paterno e un po’ severo.
Senza accorgercene precipitiamo dritti nella stretta finale, in certe scomode e gigantesche rivelazioni che non potevano rimanere a lungo dietro il muro dell’omertà, della forzata rispettabilità tutta parigina.
Un consiglio? Non cercate questo film digitando su Google: tre quarti dei portali - inclusi i più autorevoli - si sono premurati di rivelarvi (sommariamente) il finale alla terza riga.
Un ammonimento? Non fate gli eroi, e seguite la direzione che prendono gli altri per uscire dall’ospedale. Perché l’obitorio è freddino e avrete modo di vederlo un’altra volta. 
Avrete sicuramente modo di vederlo un’altra volta.
Avrete sicuramente modo di vederlo.
Almeno una volta.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: So Long at the Fair
Anno: 1950
Durata: 86 min
Regia: Antony Darnborough, Terence Fisher
Sceneggiatura: Hugh Mills, Anthony Thorne
Fotografia: Reginald H. Wyer
Musiche: Benjamin Frankel
Attori principali: Jean Simmons, Dirk Bogarde, David Tomlinson, Honor Blackman

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