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MI CHIAMO GIULIA ROSS - Trappola in Cornovaglia

13/1/2014

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Ricordo un periodo nel quale mia nonna si mise in testa di presentarmi un probabile, eventuale, futuro marito, nipote di una sua cara amica. La scena che ne derivò fu piuttosto imbarazzante. L’inamidato rampollo si guardava i piedi senza nemmeno curarsi di me, io ero una marmocchia. Mi chiedo sempre quale lettura eccessivamente Regency avesse portato mia nonna a trasformarsi, per un’estate, nella signora Bennet.
Addentriamoci in una Londra rigida e appena tratteggiata, dove l’ingenua Giulia Ross vive una vita quasi in sordina. Aggraziata, inesperta e bisognosa di trovare al più presto lavoro, ha gli occhi a mandorla luccicanti di Nina Foch. Giulia conosce di Londra gli angusti alloggi in affitto e una vita di poche pretese. Nemmeno il suo cuore ha pace dopo aver rotto un fidanzamento, dunque non resta che rimboccarsi le maniche e cercare un impiego. Impiego che sembra caderle fra le braccia per un dono del destino: gli Hughes cercano una segretaria rigorosamente “senza fidanzato” e Giulia ha le carte in regola.
Assai velocemente la storia prende forma e fluttuiamo davanti a una bizzarra galleria di personaggi: la responsabile dell’ufficio impiego, lineamenti appuntiti e modi severi; la signora Hughes, impareggiabile May Whitty tutta cerimoniali e cappellini eleganti; il suo giovane figlio, lo sfregiato e poco raccomandabile Ralph (George Macready). Saranno loro i nuovi datori di lavoro Giulia, con la loro bella casa antica, la paga promettente e i modi affettati da vecchia e buona borghesia britannica. Per Giulia la nuova camera da letto a casa dei padroni è una manna dal cielo, così si sistema comoda e prende sonno beatamente fra i soffici guanciali.
Guardatela bene, questa Giulia dai lineamenti d’angelo che si addormenta come una bambina. Guardatela perché di Giulia non rimarrà nulla, da qui all’alba.
Ha inizio una notte di passi felpati e mormorii, di fiamme nel caminetto, borsette svuotate e documenti che prendono fuoco. A cancellare l’identità di Giulia sono proprio la garbata e anziana padrona di casa aiutata dal figlio, un allarmante psicopatico che si diletta a maneggiare coltelli riducendo in brandelli tutto ciò che gli capiti a tiro. Addio, Giulia, e benvenuta Marion.
Al risveglio la ragazza si trova in una sfarzosa dimora in Cornovaglia, appollaiata in cima a uno sperone roccioso. Si accorge di aver dormito in una lussuosa stanza ed è assediata da iniziali ricamate in ogni angolo: M. H., un altro nome. Poco dopo una cameriera la chiama “signora Marion”. Questo gustoso tranello ci terrà col fiato sospeso per sessantacinque minuti di cinema minore tutto da riscoprire e impareremo a odiare questa grande villa così vicina ai liberi fluttui del mare e così simile a una prigione. La padrona di casa e il suo inquietante figlio hanno un preciso piano: vogliono spacciare Giulia per Marion, la moglie di Ralph. Intendono presentarla a tutti come la povera moglie debole e nevrotica che ha bisogno di riposo e infilzare con abilissimi colpi di spillo la mente della loro malcapitata preda. 
Questa sfortunata Giulia Ross non si perde d’animo e ha una mente vigile, gambe leste che la spingono ai margini del grande giardino fino al cancello chiuso che segna il confine della libertà. Mentre la perversa complicità fra la vecchia Hughes e il suo implacabile figlio dalle tendenze omicide cresce nei bisbigli del salone, Giulia brilla per la sua arguzia e la sua volontà di difendersi. Nella fredda Londra, risvegliato dal sonno magico dell’incoscienza, il suo perduto amante si mette sulle sue tracce deciso a ritrovarla. Frattanto, in Cornovaglia, il museo delle cere di cameriere e servitori prosegue nella propria subdola recita e Giulia impara a muoversi nel buio, a tenere gli occhi aperti e scucire piccoli traguardi alla ferrea vigilanza dei suoi carcerieri.
Giocando sul tema mai banale delle identità in trappola, Joseph H. Lewis si mette alla prova con un film diligente che percorre il sentiero della pazzia senza perdere di vista l’amore, creando sequenze tenere e allucinate (toccante il passaggio nel quale Giulia cerca complicità in un micino intrappolato come lei). Il suicidio pende sulla testa della protagonista come una spada di Damocle, mentre il raggiro dei persecutori assume un profilo logico e spietato agli occhi del pubblico. 
Freddo e selvaggio come il paesaggio di Cornovaglia, stagnante e asfissiante negli interni, un insidioso bouquet di scene gothic fiction abbellito da uno splendente bianco e nero, ingentilito dalla buona prova recitativa di Nina Foch. Un film che punta tutto sulle porte socchiuse, i coni di luce e le ombre: cassetti aperti lentamente, passettini discreti, cigolii e finestre richiuse in fretta.
Finale a effetto con un prevedibile trionfo del romanticismo, rigorosamente rosa, dedicato alla protagonista. Una chiusura stucchevole e tuttavia perfetta, per una pellicola semplice e ben fatta che tiene la paura al guinzaglio.
Ideale per chi proprio non vuole trovare un marito scelto a tavolino.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: My Name is Julia Ross
Regia: Joseph H. Lewis
Sceneggiatura: Muriel Roy Bolton (dal romanzo The Woman in Red di Anthony Gilbert)
Attori: Nina Foch, May Whitty, George Macready
Musiche: Mischa Bakaleinikoff
Fotografia: Burnett Guffey
Anno: 1945
Durata: 65'

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