In questi chiaroscuri si svolge la vicenda personale della protagonista Marie, un’adolescente che come tante e tanti affronta cambiamenti e si confronta con le aspettative e i sogni. Il futuro non è roseo, però. La comunità in cui vive è dura e chiusa in se stessa, e, soprattutto, estremamente inospitale nei confronti suoi e della sua famiglia. Il luogo di lavoro in cui viene accolta, noioso e ripetitivo, diventa un vero e proprio inferno. Da sfondo a questa routine la scoperta di uno sfogo sulla pelle che preoccupa il medico di famiglia e sembra crescere e modificarsi di giorno in giorno.
Marie, nell’azienda in cui sfiletta il pesce, è un oggetto alieno; è osservata, derisa, ma in qualche modo temuta. I solchi che sulla sua pelle continuano a crescere e a lasciare segni più profondi la portano a mettere in relazione il suo stato con quello della madre, costretta in condizioni semi-vegetative su una sedia a rotelle e regolarmente sottoposta a visite e cure mediche.
Gli esasperanti scontri con i colleghi, ormai vissuti come nemici, provocano in Marie una rottura che porta in superficie la sua licantropia, condizione/strumento che Arnby utilizza per dare forma a un impianto narrativo che ha come fine ultimo l’analisi degli equilibri sociali della piccola cittadina dello Jutland. In When animals dream, infatti, regia e sceneggiatura – a cura di Rasmus Birch – costruiscono un universo in cui l’uomo lupo del cinema horror (qui declinato al femminile nella trinità madre, compagna e figlia) funziona come metafora. Dopotutto, la licantropia si può ascrivere a qualcosa di estremamente umano: il lato oscuro e animale del sesso e della morte, la necessità di attaccare per sopravvivere. Durante la vicenda mostrata sullo schermo, Marie è portata – o meglio spinta – dalle sue pulsioni a prendere coscienza di sé e ad elevarsi al di sopra delle leggi e delle usanze della sua comunità.
Ontologizzare la diversità attraverso la propria protagonista permette al regista danese di sviluppare un discorso chiaro che si fonda su basi semplici e profondamente pessimiste: le società non si sarebbero formate grazie alla concezione comune del bisogno, al reciproco interesse e all’amore; al contrario, il fondamento della civiltà si basa sulla paura dell’altro e della sopraffazione – esplosiva, umana e bestiale –, e quindi sul suo relativo controllo, poiché l’essere umano è un lupo per i suoi simili.
Madre e figlia si rivelano progressivamente allo spettatore per quello che sono: donne forti che al di là della propria mutazione sanno cosa vogliono e che desideri hanno. Ma se la comunità ha avuto la meglio sulla prima, ristabilendo l’arcaico ordine maschile e patriarcale, Marie non sembra poter accettare la stessa inesorabile sorte.
Il film di Jonas Alexander Arnby, nonostante un interessante e riuscito sottotesto narrativo, non appare mai appesantito dalla componente allegorica che lo forgia, ma, al contrario, si muove leggero tra il genere horror e il realismo sociale che caratterizza gran parte della produzione del cinema nordico.
Opera prima si, ma di grande spessore, che conferma – se ce ne fosse ancora bisogno – l’estrema vitalità e libertà artistica che vive tutta la cinematografia scandinava.
Emanuel Carlo Micali
Sezione di riferimento: Eurocinema, Into the Pit
Scheda tecnica
Titolo originale: Når dyrene drømmer
Anno: 2014
Regia: Jonas Alexander Arnby
Sceneggiatura: Rasmus Birch, Christoffer Boe, Jonas Alexander Arnby
Musica: Mikkel Hess
Fotografia: Niels Thastum
Durata: 84’
Attori principali: Sonia Suhl, Lars Mikkelsen, Sonja Richter