La solitudine non è solo il titolo del prologo, ma la dimensione all’interno della quale il personaggio di Anne e quello di Martin finiranno con l’incontrarsi, trovarsi e capirsi: anime ferite, disilluse e al tempo stesso desiderose di avvicinarsi nuovamente a qualcuno. Urszula Antoniak dirige il film come un racconto in immagini, suddiviso in capitoli ideali da ricondurre a un tema che, dalla distanza, traccia la linea circolare della vita: solitudine – la fine di una relazione – matrimonio – l’inizio di una relazione – solitudine.
L’accordo stretto tra Anne e Martin è di non porre domande l’uno sul passato dell’altra, ma di accettarsi reciprocamente per ciò che sono, nel bene e nel male. Anne si difende chiudendosi in se stessa quando si sente attaccata, mentre Martin è già immerso in un’esistenza volutamente solitaria, consapevolmente accettata, ma non per questo meno dolorosa. È proprio l’empatia a creare tra i personaggi un’intesa fatta di sguardi, attenzioni, brevi, delicati e intensi contatti, mentre la comunicazione verbale è quasi superflua in questo rapporto muto, così malinconicamente romantico, animato di riverenza e devozione.
L’esplorazione che la Antoniak fa della solitudine è come di una caratteristica quasi genetica dell’essere umano, palpitante e dolorosa, difficile da scalfire. Eppure, l’atto di essere soli insieme, per Anne e Martin, vuole dire introspezione, silenzio, abitudine a sé, e la contraddizione di essere a un tempo sociali e anti-sociali, bisognosi dell’altro per potersi completare, per dare un senso alla vita. Per il tempo che rimane.
Il paesaggio irlandese, più della sua gente (solo sporadicamente mostrata, e comunque avvolta in colori caldi, risate e musiche tradizionali), accompagna l’anatomia della solitudine. Piogge, vento, il freddo umido alternato a pallide, bianche schiarite sulla campagna che solo i passi di Anne e Martin sembrano toccare. Dove il paesaggio si fa protagonista, Urszula Antoniak toglie qualsiasi commento musicale, seppur minimo, e aumenta la percezione dei rumori, della natura, dei pensieri che si fanno voce solo raramente.
Nella casa con vista sul mare cresce la storia d’amore ideale, in cui due persone imparano il piacere del farsi del bene, del dare e ricevere, e affrontano la peggiore paura, amare e lasciarsi andare, perdere il controllo di sé, farsi sfiorare dal desiderio. Guarire dalla solitudine. Tutto diventa personale, quando apri la porta.
Nothing personal ha raccolto un certo successo ai festival internazionali in cui è stato presentato, e ha vinto sei premi a Locarno. Si è sottolineata la prova registica di Urszula Antoniak, regista e sceneggiatrice di questa storia limpida eppure frastagliata di ombre, costantemente sospesa tra paesaggi e interni, spazio teatrale della scena e più ampio respiro cinematografico. Sarebbe però ingiusto non sottolineare la prova dei protagonisti. Stephen Rea, che non ha certo bisogno di presentazioni, è il popolare attore irlandese che, da La moglie del soldato (sua interpretazione più famosa), si è sempre diviso tra produzioni commerciali e opere piccole, addirittura minimali, in cui dare il meglio di sé. Ed è proprio questo il caso. La vera sorpresa, tuttavia, è Lotte Verbeek (ora protagonista dell’ultimo film di Mike Figgis, Suspension of disbelief), che vince la sfida del grande schermo, rinunciando totalmente alla mostra del corpo e presentandosi così com’è: la bellezza è un richiamo sottile, mentre traspare in lei solo la ribellione, la pena, l’attrazione e il terrore di essere amata.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Eurocinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Nothing Personal
Regia: Urszula Antoniak
Sceneggiatura: Urszula Antoniak
Attori: Stephen Rea, Lotte Verbeek
Durata: 85 min.
Fotografia Daniël Bouquet
Musica Ethan Rose
Anno: 2009
Durata: 85'
Uscita in Italia: inedito