Laurence Anyways, a pensarci bene, potrebbe però già essere l’opus magnum di Dolan. Più coeso e torrenziale dei suoi film precedenti (quasi 160 minuti di emozioni travolgenti), è l’opera consapevole di chi ha deciso di regalare una nuova veste alle tematiche che gli sono care senza però rinnegare quanto fatto in precedenza. Ed è così che l’omosessualità, nel film del regista dichiaratamente gay premiato con la Queer Palm a Cannes, diventa stavolta oggetto non solo di racconto ma anche di profonda riflessione, fatta dialogare con l’ipocrisia di un paese finto-progressista (il Canada), con gli sguardi sprezzanti dei passanti riversati violentemente sullo spettatore attraverso delle soggettive di notevole impatto. Il Canada sarà anche un paese più nuovo e giovane di altri, ma ciò non lo salva dall’onta, dal dover bollare a tutti i costi i disturbi della personalità legati alla sessualità come “malattia mentale”. Un’impietosa presa di posizione, specie se da parte degli psichiatri. E siamo in pieni anni ’90, tutt’altro che nella preistoria dell’immediato dopoguerra.
Il protagonista del film, Laurence Alia, è un uomo che solo in un’età già matura si rende conto di aver vissuto tutta la vita in un corpo che non lo rappresentava minimamente. Decide allora di cambiare sesso, di diventare donna, nonostante sia tutt’altro che attratto dal suo stesso sesso (le cose insomma sono lontane dall’essere semplici e didascaliche come spesso si vuole far credere). Laurence ha infatti una compagna ormai decennale, Frederique, che decide di stargli vicino nonostante lo shock per la scoperta fatta e la decisione che Laurence intende portare avanti. Ne derivano momenti di tensione esplosiva, con i livelli di guardia oltrepassati in più di un’occasione: magistrale la scena in cui Fred (Suzanne Clément) fa una scenata colossale in un ristorante prendendosela furiosamente con una cameriera un po’ troppo impicciona. Segue una corsa verso un taxi, uno dei tanti momenti incredibili in cui questa storia d’amore così particolare e sofferta prende vita dinanzi ai nostri occhi in tutto il suo coacervo di difficoltà, contraddizioni, sbalzi.
Quello di Dolan è un mélo di fattura raffinatissima e sfavillante, innestato su quella che Richard Brody ha definito sul New York Post una “opera libretto”. Ed estremamente liriche sono anche l’uso della grammatica cinematografica, la carica scenografica, la recitazione: senza mai sfociare nell’enfasi parossistica, Dolan ricorre molto spesso a didascalie e titoli in sovrimpressione, sublima e congela i momenti più toccanti in ralenti dentro i quali la poesia scorre tangibile e fluida; stringe non di rado su primi piani gravidi di passione e significato, fa esplodere i fuochi, regala uno scoppio pirotecnico di pathos e in definitiva fa sue delle scelte formali mai gratuite e sempre coerenti, supportate dalla necessità generosa di un approccio alla storia che suoni il più sentito possibile.
Un proposito, quest’ultimo, rispetto al quale Dolan non arretra in nessuna occasione: facendosi architetto della magnificenza glam, il giovane autore riempie il suo film di ottima musica anni ’80 e ’90 (Kim Carnes, The Cure, Depeche Mode, Duran Duran, Céline Dion, Visage) mischiandola senza timore alla Classica, in una sontuosa mescolanza che insegue la dimensione imperiosa e magniloquente del videoclip e in più di una sequenza la raggiunge con esiti abbaglianti. Tutto merito di un regista rapace, affamato di vita e selvaggiamente libero, qui come non mai.
Il respiro arioso arriva fin dentro gli abitacoli di un’auto, dove tutto va esorcizzato riparandosi dalla pioggia esterna, perché in fin dei conti: “death is just a breath away”. Primi piani convulsi, campo-controcampo classico in molte scene eppure nessun convenzionalismo all’orizzonte, ed in quei casi è anche merito di un uso quanto mai accorto della camera a mano. Lo stile sgranato di Dolan è un miracolo al servizio di un arazzo in cui i colori pop non sono mai saturi ma mantengono le loro zone d’ombra, affogando la pienezza in un’oscurità che non troverà via d’uscita se non nel finale, di bellezza stritolante e commozione impareggiabile. Quando Fred e Laurence si rincontrano anni dopo, il film ha ormai fatto breccia anche nello spettatore dal cuore più marmoreo.
Melvil Poupaud, feticcio di Ozon, è di una bravura non comune nei panni di Laurence, ma ancora più gigantesca è la Clement, che gestisce come meglio non si potrebbe la fragilità sensuale, sboccata e iraconda di un personaggio magnifico e tribolato, tridimensionale come di rado accade.
Vogliono rimanere insieme, Frederique e Laurence. Non importano i come, i perché, i se e i quando. Si abbandonano al peso dei ricordi che cade sulle loro teste come una carezzevole ma spietata cascata di foglie autunnali, vada come vada. Fred e Laurence comunque insieme, qualsiasi cosa succeda. Fred e soprattutto Laurence, in ogni caso. Anyways.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Eurocinema
Scheda tecnica
Regia: Xavier Dolan
Attori: Melvin Poupaud, Nathalie Baye, Suzanne Clément, Yves Jacques
Fotografia: Yves Bélanger
Montaggio: Xavier Dolan
Sceneggiatura: Xavier Dolan
Anno: 2012
Durata: 159'