Questa previsione sulla carta, a distanza di una settimana di riflessione e di irreprimibile hype, si dispiega, al solito, in tutta la sua bella potenzialità, con un’ampia e disparata gamma di titoli provenienti dalle cinematografie internazionali e mettendo a lucido monumenti del passato. Tra quest’ultimi si scomodano, nella sezione “Cose che verranno” e sotto il denominatore dello sci-fi distopico, un manipolo di nomi delle cui visioni ci si bea sempre gli occhi, a partire dall’Alphaville godardiano al mai abbastanza goduto “Stalker” di Tarkovskij, ai classici di Miller e di Scott, fino ai dissotterramenti più che dovuti di Fleischer e Watkins.
Pur non archiviando con fretta, ma obbligatoriamente proseguendo dall’esterno al cuore pulsante di questa parata torinese, e sedando (per ora) l’immancabile frenesia quando si lambisce l’asiatico e determinate zone di culto, svettano, rimbombano in tutta la loro caratteriale e inquieta marca autoriale, i tre (!) titoli in lista del poliedricissimo Sion Sono. Costretto a distribuire tra i festival del mondo uscite cinematografiche polpose e numerose e schizofrenicamente diversissime l’una dall’altra (si ricordano sempre ben volentieri le sue sei opere pronte al rilascio), Torino, già memore della rassegna interamente dedicata al regista nel 2011, propone “Tag”, a metà tra horror e fantascienza, possibilmente sanguinolento e impazzito; “Love & Peace” che cambia registro, probabilmente dissolvendosi in una comedy/musical dispersa in una polvere (mai troppo) zuccherosa; “Shinjuku Swan”, che come prima Tokyo Tribe tenta l’adattamento da un manga, assimilandone forse la tenuta ritmica e l’impianto coloristico (auspicando, noi, in risultati dissimili). Basterebbe già, in sé, a dichiararne la non fortunata (perché ormai abituale) superiorità in campo di alchimia filmica. Citiamo, però, e in modalità del tutto obbligata, “The Assassin” del taiwanese Hou Hsiao-hsien, premiato quest’anno a Cannes con il Prix de la mise en scène, per la cui misurata e liquida regia è lecita una fiduciosa aspettativa. A lui s’aggiunge Apichatpong Weerasethakul (polimorfo autore che spazia dalla regia alla video arte) con il suo “Cemetery of Splendour”, che si promette lavoro umbratile, riflessivo e stratificato nell’affrontare fantasmi autobiografici e antichi spiriti.
In prossimità inglese (e, a seguire, americana), invece, scorgiamo un numero quasi imbarazzante per orizzontalità di titoli, tra i quali si fatica a sbrogliare e districare per assoggettarsi a un qualsivoglia orientamento. La vastità è tale che a isolare i nomi arbitrariamente o con selettività si compierebbe dell’eguale torto, perciò ci limitiamo a segnalare le sovraesposizioni, le appetibilità, gli echi più lunghi. Quasi a campione, a ruota libera, estraendo: Sarah Gavron (che esordì nel 2007 sempre in loco piemontese con “Brick Lane”) e il suo “Suffraggette”, fresco della triade di un cast felicemente ultra-femminile (Mulligan, Bonham-Carter e Streep); John Crowley, giovane regista di cui si ricorda il più che discreto “Boy A”, 2007, con “Brooklyn”, tormentata love story imbastita in scenari 50s; “High-rise” di Ben Wheatley, dal suo canto, oltre a un cast a fuoco (la Miller e Hiddleston), assicura una degenerazione paranoide in odore di algidità e perfezionismo della mise en scène; in sentore già statunitense, “Burnt” di John Welles, produttore d’una infinità di pellicole di successo, scardinato da un cast impazzito e diseguale (Bradley Cooper, Sienna Miller, Uma Thurman, Alicia Vikander, Lily James), a narrare l’autoaffermazione esistenziale e lavorativa di uno chef impantanato nelle sue galere mentali; trionfante al Sundance di quest’anno, “Me and Earl and the Dying Girl” di Alfonso Gomez-Rejon, che s’evince già godibile indie-teen-movie scapestrato e disfunzionale; ancora una donna a dirigere un’altra (meravigliosa) donna, nonché una Kate Winslet rossa e incattivita sotto le fila dell’australiana Jocelyn Moorhouse, con “The Dressmaker”.
Pregne anche le file dall’impronta orrifica e i lidi strettamente documentaristi, tra i quali indichiamo, per la prima delle categorie, Sean Byrne e il suo “The Devil’s Candy”, già autore del notevolissimo “The Loved Ones”, 2009, e “The Girl in the Photographs” di Nick Simon, nonché ultima fatica in qualità di produttore esecutivo per Wes Craven; nella sezione documentaria isoliamo il canto d’amore per la gente honkonghese di Cristopher Doyle, idolatrato direttore della fotografia per Wong Kar-wai, Jim Jarmusch e Gus Van Sant, e una lista davvero eterogenea di autori francesi, italiani, spagnoli, e ancora.
Si fa un gran parlare, d’altronde, della colossale trilogia-fiume del portoghese Miguel Gomes, sorta di rielaborazione storico-sociale in chiave satirica de “Le Mille e una Notte”, mitologie innescate dalle angosciose sorti di un regista che si vede costretto a introdurre un narratore, dal quale si dipanerà poi un excursus nella terra portoghese, teatro di visionarietà drammatica.
Ridotte, invece, le presenze francesi e dense quelle italiane, anche se ricolme, per entrambi le nazioni, di scie documentarie. Da una parte, l’opera prima dello sceneggiatore di Jacques Audiard (“Sulle mie labbra” e il recentissimo Dheepan), Frédéric Grivois, un film d’animazione e, per l’appunto, numerosi documentari; dall’altra, “La felicità è un sistema complesso” di Gianni Zanasi, immaginabile commedia nera, insieme al film di pre-apertura “Bella e perduta” di Pietro Marcello (e, comunque, moltissimi altri).
Come sempre, si destina grande affidamento agli esordi, alle promesse, agli autori nascosti da ammirare per la prima volta.
Davvero, buon (gran) Torino.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Torino 33
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