Prendiamo questo ultimo Love & Peace, ad esempio: c'è Ryoichi, un timido impiegato vessato dai colleghi d'ufficio che diventa una superstar pop dopo aver espresso il suo dolore per la perdita dell'amata tartaruga Pikadon. Particolare da non trascurare: il nome dell'animale è lo stesso che designa le bombe atomiche e quindi crea l'equivoco della star “impegnata”. Pikadon, intanto, finisce in una sorta di rifugio degli animali e dei giocattoli dimenticati, ma continuerà a cercare la felicità del suo padrone.
Un protagonista “mutante”, dunque, che si lega a doppio filo a una tartaruga che di per sé si fa carico di una mutazione fisica e concettuale: perché, in fondo, è l'animale che nel buddhismo simbolizza la felicità e che al cinema è Guardiano dell'universo (vedi alla voce: Gamera). Ecco, il segreto dell'identità per Sion Sono è a metà strada fra la rappresentazione mitologica che chiama in causa cultura e Storia, e l'immaginario derivato dal cinema che permette la traslazione in una chiave poetica. Il messaggio di speranza e di incitamento a costruire un mondo migliore, verso la realizzazione della propria felicità, si sposa perciò a una cifra più divertita e in grado di esaltare la meraviglia.
In tal senso, Love & Peace si offre come una tenera favola natalizia sulla traccia delle memorie perdute: che sono quelle storiche (le Olimpiadi del 1964 che hanno generato il boom economico, lo sgancio delle bombe atomiche del 1945) ma anche quelle personali, del legame infantile fra l'uomo e il giocattolo o l'animale domestico, destinato a essere infranto dalle logiche voraci della società “adulta” e consumistica. La parabola di Ryoichi è in fondo questa, da personaggio introflesso e ripiegato su un mondo di sogni, a icona di massa che oggettiva il desiderio proprio e altrui, ma perde di vista il suo vero io, secondo una logica – non a caso – un po' dickensiana. La forza di Sono è il candore con cui racconta tutto questo, come una favola dimenticata e che può ancora trasmettere un messaggio di speranza; ma anche come un universo poetico che alla modernità preferisce il tocco un po' retrò dell'effetto artigianale, delle marionette, delle barbe finte, delle parrucche e della suitmation (i figuranti nelle tute di gomme per creare il mostro di turno).
L'approdo finale al kaiju eiga è così lucido e doveroso, trattandosi in fondo di uno dei generi attraverso cui il cinema di genere nipponico ha definito la propria identità, anche e soprattutto in rapporto ai modelli orientali (il film sembra quasi una sorta di versione “adulta” di Gamera the Brave, di Ryuta Tasaki): è come se, con aria divertita, il regista giapponese spingesse il suo pubblico a guardarsi allo specchio, laddove il riflesso è l'immaginario partorito da un meccanismo spettacolare che cerca di recuperare la cifra più genuina della vita. Anche per questo la storia è un continuo saliscendi, un passare repentino dalle dinamiche più “grandi” (anche in rapporto al gigantismo di Pikadon), a quelle più piccole, personali e “intime”: da cui la deriva sentimentale di un amore fra Yoichi e la collega Yuko, nascosto eppure esplicito, ma destinato a restare l'unico filo narrativo non urlato, discreto, che non trova nemmeno la più completa delle risoluzioni, affidandosi al fuoricampo e alla speranza dello spettatore.
Il doppio passo è in fondo reso esplicito dalla marcia finale di Pikadon, fra il gigantismo dei palazzi che ricreano il gioco da tavolo del rapporto iniziale con Ryoichi: si scherza, ma non troppo, e il cinema spettacolare torna a essere veicolo di pulsioni più profonde. In fondo così si faceva un tempo, giusto per restare in tema di memoria...
Davide Di Giorgio
Sezione di riferimento: Torino 33
Scheda tecnica
Titolo originale: id.
Anno: 2015
Regia: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono (ispirato all'omonimo manga)
Fotografia: Nobuya Kimura
Musica: Yasuhiko Fukuda
Durata: 103'
Attori: Hiroki Hasegawa, Kumiko Aso, Toshiyuki Nishida