Qui è l’Armenia. Un luogo ai confini del mondo, paesaggio naturale e sfrontato che fa da sfondo e silenzioso coprotagonista alla vicenda. Will (Ben Foster, The Messenger, Quel treno per Yuma) è un ingegnere americano impegnato nella mappatura del territorio armeno. Gadarine (Lubna Azabal, vista in Paradise Now e Nessuna verità) è una fotografa armena, tornata da poco nella terra di origine dopo un lungo e volontario esilio. I due compiranno un lungo, poetico e struggente viaggio nel territorio, alla ricerca di qualcosa di più della corrispondenza tra una mappa e la realtà circostante.
Sembra riduttivo, ma questo è tutto. Eppure, il regista Braden King riesce a trasformare una storia semplice e senza scosse in un avvincente racconto interiore. C’è una affascinante interrelazione tra stati d’animo, desideri e conflitti dei due protagonisti e paesaggio. L’Armenia non è solo la location ideale del film, ma quasi diventa il film stesso. Will e Gadarine seguono la propria ricerca vivendo come in una mappa esistenziale: le strade deserte, inesplorate, e i paesaggi naturali, incontaminati, sporchi del passato che la storia armena porta dolorosamente con sé, eppure vividi di una bellezza quasi insopportabile.
Will è un personaggio complesso. È animato dall’unico desiderio di spingersi oltre, ai confini, fin dove il viaggio potrà condurlo. Arroccato dentro le sicurezze del suo computer, che gli fornisce le mappe di tutto il mondo senza nemmeno bisogno che sollevi la testa a osservare, Will fatica invece a trovare se stesso dentro una delle zone che ha sempre studiato, ma mai vissuto. Entrare fisicamente nella realtà dei luoghi, fino a quel momento esplorati soltanto dalla distanza, lo mette nella condizione di sapere e ignorare al tempo stesso, conoscere senza avere mai provato alcuna esperienza, percepire senza toccare. La vita di Will si smaterializza mentre lui si allontana dalle sue false certezze. L’unico punto di riferimento, allora, diventa una occasionale compagna di viaggio, Gadarine, anche lei in qualche modo in cerca di qualcosa, esiliata eppure legata alla memoria, al passato, alle radici che si allentano ma non si lasciano mai.
La cartografia dell’esistenza è come l’Armenia. Tortuosa, dilaniata, spinosa come il cielo che cambia continuamente colore, come gli eventi naturali che sorprendono i viaggiatori costringendoli a deviare il percorso, a cambiare, ad affrontare altri pericoli, strade, destini. L’Armenia è un paese come tanti, un luogo scarsamente abitato da persone che lottano per sopravvivere. Eppure, è unica: l’immaginario viene subito calato in una dimensione ‘altra’, che si percepisce come diversa eppure simile. Le dinamiche dei personaggi si sposano con le atmosfere, e la carismatica ambientazione diventa parte attiva nella storia, come se in essa si riflettessero i conflitti, i dubbi, le emozioni, le contraddizioni e le passioni di Will e Gadarine, caratteri opposti che si incontrano in una terra sconsacrata dalla guerra eppure ancora spirituale, una terra che non richiede altra comunicazione che lo specchiarsi in essa, e leggervi le insondabili trame dell’essere.
Braden King, documentarista e fotografo, utilizza proprio il paesaggio reale come espressione più diretta delle emozioni, mentre la sceneggiatura (scritta a quattro mani con la giornalista australiana Dani Valent) sposta il discorso su un diverso livello, grazie ai brevi monologhi pseudo-filosofici (con la voce fuori campo dell’attore Peter Coyote) sullo scorrere di fotogrammi da avanguardia post-moderna. È forse questa la scelta meno convincente in un film (visto in Italia al Milano Film Festival e mai uscito nelle sale) che non ha bisogno di dialoghi intensi per farsi capire, ma solo di immagini che respirino sensazioni, e attori non convenzionali capaci di recitare con il corpo e gli sguardi, mentre la natura circostante parla in loro vece.
C’è una significativa corrispondenza tra le evoluzioni psicologiche dei personaggi, e il viaggio all’interno della geografia armena, aperta anche all’occhio dello spettatore come è aperta a Will, l’estraneo, lo straniero senza lingua, contatti, strumenti per comunicare. Lo spaesamento è suo come nostro, e l’attrazione per i luoghi - che si fa sempre più stretta e diretta, profonda e malinconica man mano che il viaggio sia avvia a conclusione – viene restituita nella sua interezza.
Sapori, fumi, colori bagnati e vivi, tratti selvaggi e cascate naturali nascoste come pietre preziose. Nel realistico incanto della fine del mondo, la libertà di esistere, buttarsi, amare, significa riappropriarsi di sé e imparare a tracciare se stessi nella spesso indefinibile geografia delle emozioni umane.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: America Oggi
Scheda tecnica
Titolo originale: Here
Regia: Braden King
Sceneggiatura: Braden King, Dani Valent
Attori: Ben Foster, Lubna Azabal
Durata: 127 min.
Fotografia: Lol Crowley
Musica: Boxhead Ensemble
Uscita italiana: --