Critico, dissacrante della sacralità pagana dell’America post-moderna, Compliance costruisce una acuta – seppur diseguale – metafora attorno ai simboli dell’economia, ai valori capovolti della non-cultura, della vita più periferica e banale a stelle e strisce. Zobel trasforma gli stereotipi in dati di fatto, in oggetto di indagine, quasi elevandoli a cinico archetipo di una società deviata e deviante.
Un giorno qualsiasi del calendario, in uno dei tanti fast food di una piccola cittadina dell’Ohio giunge la telefonata di un poliziotto alla dirigente del locale, Sandra (Ann Dowd). La giovane cameriera Becky (Dreama Walker) avrebbe rubato alcuni dollari a un cliente. Ora bisogna indagare per verificare la versione di Becky, recuperare il denaro ed eventualmente valutare se procedere legalmente contro la ragazza. Trattenuta in magazzino mentre nel fast food il lavoro prosegue come nulla fosse, Becky viene sottoposta da Sandra a un interrogatorio surreale e inquietante, comandato a distanza dal poliziotto all’altro capo del telefono.
Se il denaro non si trova, forse Becky l’avrà nascosto. Magari addirittura nel proprio corpo. E magari la ragazzina si può spogliare, perquisire, violare. Forse si può spostare più in là l’asticella che misura la follia dell’ignoranza. Il gusto dell’aberrazione. Dove finisce l’assurdità del male, inizia la banalità. Così i guardiani di Becky, dal giovane collega alla manager fino ai clienti stessi, si alternano nel ruolo di sorveglianti-aguzzini, automi mossi come pedine dall’autorità, insinuante e invisibile, che fa della stupidità umana il terreno su cui radicarsi. Mentre Becky subisce con sconvolgente indifferenza le torture psicologiche e fisiche di colleghi, conoscenti e perfino degli amici, il dramma diventa un gioco sadico cui tutti i personaggi partecipano, in un insopportabile climax di scene disturbanti. Fino allo svelamento del mistero. La realtà più disturbante di tutte.
Ambientato in un fast food qualunque, in una città qualunque, con una manciata di personaggi di sconcertante grigiore, Compliance fa proprio dell’assenza di originalità e carattere il suo punto di forza. Allegoria del conformismo? Certo. Metafora della società dai tratti vagamente fascisti? Anche. La critica alla realtà americana è evidente ed è feroce, addirittura spietata. Sarà la banalità del male, come sosteneva Hannah Arendt, che soggiace ai reati più efferati e crudeli, quando compiuti da persone poco intelligenti, ignoranti, prive di un pensiero autonomo e critico, totalmente rapite da una realtà, cioè da una società, che soggioga le menti deboli, assenti, che appiattisce e conforma, ordina e semina il proprio germe malato in esecutori intenzionalmente inconsapevoli delle proprie azioni. Il perché è la dimensione profonda attorno alla quale Craig Zobel finge soltanto di interrogarsi.
La verità è forse che non c’è da indagare, da chiedere; non c’è da capire altro che la deriva di una società assuefatta a se stessa, anestetizzata, arrendevole e compiacente. Compliance come conformità, cioè secondo la norma, secondo l’autorità. Cioè secondo tutti, e nella responsabilità di nessuno. E chi si sottomette a chi, in questa frazione di America senza sogno americano, senza luce, senza speranza?
Craig Zobel gioca con i personaggi, ma anche con lo spettatore, ed è forse qui che si avverte una crepa nella pur efficace e asciutta costruzione narrativa. Laddove cresce il senso di incredulità e disgusto, il regista avverte che “questa è una storia vera”, costringendo le emozioni degli spettatori in un vicolo cieco, forzando la mano fino a portare il racconto oltre il confine del verosimile. Se abbiamo bisogno di credere nella veridicità dei fatti per poter accettare Compliance, ciò che chiediamo a Zobel è che il film si mantenga credibile, possibile, che non tradisca le sue intenzioni con le forzature della finzione narrativa. È proprio qui, nell’indecisione del regista rispetto alla natura del suo film, che Compliance, presentato in anteprima italiana allo scorso Torino Film Festival, mostra qualche esitazione, qualche incertezza, nonché un certo autocompiacimento – e dubbio piacere - nel suggerire (pur senza mai mostrare veramente) il grado di umiliazione e degrado mentale che gli uomini possono raggiungere.
Nel mortificante ritratto di queste patetiche, umane incoscienze, spicca l’interpretazione (vincitrice del National Board of Review) della caratterista Ann Dowd, sul cui viso e sulle cui azioni è intessuta l’intera forma visiva del film. Una figura grottesca e a tratti penosa, resa con impeccabile realismo. Una lezione di stile.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: America Oggi
Scheda tecnica
Titolo originale: Compliance
Regia: Craig Zobel
Sceneggiatura: Craig Zobel
Durata: 90'
Anno: 2012
Interpreti: Ann Dowd, Dreama Walker, Bill Camp
Musiche: Heather McIntosh
Fotografia: Adam Stone