Il rispetto dell’unità di tempo e di luogo, con cui Chandor scandisce il succedersi degli eventi, oltre a conferire compattezza narrativa riesce anche a esprimere compiutamente il prima e suggerire il dopo della più rovinosa débâcle del capitalismo mondiale nell’era contemporanea, senza delinearne le coordinate complessive e soprattutto gli esiti ormai noti e, già all’epoca della realizzazione (il primo ciak è del giugno 2010), al limite del cliché. Decadenza e dissoluzione istantanee di un apparato economico che, vista la propria iperbolica inconsistenza, può deragliare in un nanosecondo, può collassare nel tempo di un sorriso, nel giro di una nottata. 2008-2010: due anni che sembrano venti, tanto sono cambiati gli orizzonti complessivi dell’umanità e tanto il prima e il dopo, appunto, sembrano due universi distanti e non comunicanti; un film di oggi e sull’oggi, che a suo modo è già inevitabilmente un pezzo di antiquariato, un film-documento di (prei)storia.
Oltre a delineare in tempo reale il collasso del nostro mondo, attraverso l’indovinata sineddoche del colosso finanziario senza nome, vero protagonista della vicenda, Moloch qualsiasi di una crisi in realtà con innumerevoli epicentri, Margin Call costruisce un vigoroso affresco anche dello spazio reale in cui prendono forma i destini dell’umanità ignara. Il grattacielo, che funge da (quasi) esclusiva zona per il dipanarsi degli eventi, costituisce un non-luogo stratificato e gerarchizzato, dal quale il resto del mondo è bandito, per formare un fuoricampo persistente, che innesca lo scambio fra reale e virtuale.
Tempo reale e spazio reale, in questo contesto, esprimono l’altra faccia dello specchio, il riflesso della realtà, che diviene inquietantemente concreto, prossimo, sostituendosi a essa: un tempo senza spessore e durata, un presente in continuo ritardo rispetto a se stesso, nel quale, da un istante all’altro, muta la natura delle cose e scaturisce un futuro che è già morto, che non è altro che l’evanescente riverbero di un orizzonte di senso e di evoluzione; uno spazio disaggregato, distante, gelido e mortifero, dove simulacri di uomini agiscono e discutono attorno al nulla assoluto, un nulla che si approssima come una voragine pronta a risucchiare il mondo.
Le real people, le persone reali/normali evocate in uno dei dialoghi del film, non sono altro che casualties meramente numeriche e inevitabili, pallide ombre che si attenuano di fronte al potere incontrollabile della macchina finanziaria. Una macchina che si regge – ulteriore sconfinamento del virtuale nella realtà – su complicatissime equazioni, le quali, anziché fungere da rappresentazioni numeriche dirette della realtà medesima, ne risultano totalmente slegate; anzi, là dove essa sfugga al loro controllo, là dove l’andamento fattuale dell’economia non corrisponda ai parametri astratti della matematica, sarà quest’ultima a stabilire le regole. Non si può, però, barare con la realtà; ecco perché la finanza è costretta a barare coi numeri, la cui consolidata e irreversibile egemonia comporta l’eliminazione di tutto ciò che nella realtà stessa risulta eccedente, come l’imperfetta umanità, ad esempio. Il baudrillardiano e profetico “delitto perfetto”, vale a dire l’obliterazione del mondo da parte del virtuale, sembra trovare piena conferma anche in questo rapporto aberrante fra concretezza della vita e astrattezza del calcolo, dove quest’ultimo – caos di segni senza più alcun referente – diviene la matrice, l’archetipo, l’idea a cui la realtà deve uniformarsi o, se non ne è in grado, scomparire.
La società delle merci, vale a dire il capitalismo classico, pur nelle sue infinite storture e sperequazioni, traeva la propria forza dalla diffusione di beni reali, magari superflui, ma pur sempre concreti, tangibili; la società dello spettacolo di debordiana memoria, la società dei simulacri e della realtà virtuale (un ossimoro degno di Orwell) di Baudrillard, in tutte le loro derive e di cui la finanza neocapitalista contemporanea risulta una delle espressioni più truci e riuscite, trovano invece il proprio baricentro proprio nell’assenza, nel proliferare di segni autoreferenziali e privi di ogni contatto fattuale col mondo, che occhieggiano sornioni dai monitor dei computer troneggianti negli uffici dei nuovi decisori.
Le merci, in quanto beni e oggetti di consumo, scompaiono – o, almeno, smarriscono una parte consistente della loro importanza, del loro valore di mercato – assieme agli acquirenti, sempre più impoveriti, così come il denaro sonante trova la propria (de)realizzazione nelle impalpabili vesti di moneta elettronica inconsistente e, il più delle volte, inesistente. Non solo si assiste, quindi, in generale, a un progressivo annientamento del capitalismo tradizionale a favore di quello postmoderno e fantasmatico della finanza elettronica, ma anche al capovolgimento del rapporto fra parte e tutto, fra mondo della finanza e mondo in generale, con un ulteriore slittamento del senso e della verità dai templi del potere (le elefantiache, lussuose e ipertrofiche sedi a tenuta stagna, dalle quali l’esterno è totalmente escluso, dove i nuovi decisori svolgono le loro, letteralmente, esoteriche sedute di lavoro) al santuario scorporato dei computer, vero e proprio campo di battaglia e di sterminio, dove milioni di vite vengono spazzate da un click.
Una volta licenziato, egli trasferisce i dati di una ricerca condotta personalmente e ancora incompiuta a un giovane sottoposto, Peter Sullivan (Zachary Quinto), il quale, nel giro di una nottata, scopre la “tossicità” dei prodotti finanziari commerciati dall’azienda. Emergono qui in modo limpido alcune delle dinamiche di base del capitalismo finanziario: la gestione ottusamente meccanizzata delle risorse umane, vale a dire l’inquadramento degli esseri umani in puri automatismi statistici e collettivi, dove l’individuo atomizzato non conta più nulla, anche se il suo lavoro, come nel caso di Eric, si rivela essenziale per il funzionamento dell’intero sistema; l’incontrollabilità effettiva della macchina, il cui motore, una volta avviato, la fa viaggiare a una velocità talmente folle da farne risultare impossibile sia il controllo, sia l’arresto. Una volta lanciata, la macchina diabolica della finanza non può essere fermata, pena lo sfracellarsi di tutti coloro che le stanno a bordo, cioè del mondo intero. I cosiddetti analisti dei rischi possono soltanto constatare che i dispositivi di autoregolamentazione del sistema funzionano o al contrario – senza alcuna possibile ed efficace reazione – che stanno conducendo alla catastrofe.
Una volta diffusa, all’interno dell’edificio, la notizia che il disastro è imminente, cominciano a mobilitarsi via via, con progressione geometrica, le figure più importanti dell’azienda e così, poco alla volta, si rivelano i vari piani di cui è composto l’edificio, dove a una maggiore altezza corrisponde un maggior grado gerarchico. Non solo: mano a mano che si sale di grado si nota come cambino il linguaggio, le competenze e la visione dell’insieme di ciascuno dei personaggi coinvolti. Quando il grande capo John Tuld (1) (Jeremy Irons) presiede la riunione indetta per tentare di risolvere l’emergenza, la prima cosa che richiede agli astanti è la chiarezza espositiva: “Just speak in English”, “ditelo in parole povere”, segno che egli, pur essendo uno dei decisori supremi, non capisce alcunché di numeri, cifre e calcoli.
1) Il cui cognome riecheggia, non casualmente, quello di Fuld, CEO di Lehman Brothers dal 1994 fino al 2008 .
Tuld è infatti uno stratega, il più importante, che però non ha alcuna competenza tattica – così come i suoi secondi – mentre invece i gradi più bassi, menti fra le più eccelse nel campo matematico, precettate facilmente già fin dall’università con la promessa di lauti guadagni e magnifiche carriere, sono ottimi tattici a cui manca la visione dell’insieme.
La Torre di Babele sta per crollare anche per una questione di incomunicabilità linguistica, oltre che per una totale e letterale discrepanza fra punti di vista: chi crea i prodotti finanziari – cioè i titoli, le azioni e quant’altro – da immettere sul mercato (i tattici) non conosce nulla del mondo reale, ma capisce unicamente l’algida perfezione auto-sussistente delle formule matematiche, la cui applicazione riguarda però la concretezza di una realtà nella quale le variabili imprevedibili e le imperfezioni superano continuamente l’astratto equilibrio dei numeri; chi decide come utilizzare i prodotti finanziari (gli strateghi) conosce l’andamento dei mercati e la psicologia degli investitori, ma non la struttura e l’essenza di ciò che viene venduto e comprato.
Nella nefasta circostanza, l’unico scopo degli strateghi diviene quello di vendere, cioè di liberarsi dei mucchi di titoli tossici che l’azienda possiede e sui quali si fonda la propria ricchezza, cedendoli, a prezzi stracciati, a inavveduti acquirenti. L’amletico (ma neppure tanto) dilemma diviene, per queste venefiche figure, improvvisamente cristallino: implodere su se stessi, liberando il mondo dalla loro presenza – che pure e comunque lascerebbe tracce indelebili del loro infausto passaggio – o sopravvivere (sia pure perdendo quote importanti di ricchezza e potere), distruggendo il mondo. La fine è nota.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: America Oggi
Scheda tecnica
Anno: 2011
Durata: 109’
Regia e sceneggiatura: Jeffrey C. Chandor
Fotografia: Frank De Marco
Montaggio: Pete Beaudreau
Musiche: Nathan Larson
Interpreti principali: Jeremy Irons, Kevin Spacey, Stanley Tucci, Zachary Quinto, Demi Moore, Paul Bettany