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VENEZIA 73 - The Woman Who Left, di Lav Diaz

12/9/2016

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​Al di là dei sensazionalismi da copertina, dei giudizi di parte o delle accuse di elitarismo che hanno gravitato attorno alla vittoria del Leone d’Oro da parte del regista filippino - il cui minutaggio è stato sottoposto a una riduzione affinché l’opera potesse rientrare nel concorso ufficiale della Mostra; ancor più al di là dei riconoscimenti ricevuti dai festival europei e dai supposti marchi di intellettualismo e dall’idea di cinema che inevitabilmente le sue opere declamano in maniera totale, per nulla facili ai mezzi termini e alla compromissioni. Al di là di tutto questo si colloca l’oggetto-film di Lav Diaz, giunto a culmine di una cinematografia quasi ventennale e insieme fluviale, per monumentalità costitutiva e verbosità e urgenza che qui neppur si avvicinano a sembrare accezioni paradossali e divergenti. 
Per Diaz il tempo, e l’insubordinata libertà a cui gli si avvicina, è il presupposto più che accettabile attraverso il quale il metaforismo sull’esistenza deve poter dilagare in un modello di cinema che è diventato tale grazie all’impugnatura di uno stile da subito decodificabile e conclamato, all’interno di un paradigma più largo in cui i modelli venivano scalzati uno ad uno dallo stesso autore. Ed è un po’ come dire, sempre fermandosi a una delucidazione della superficie, che si sa cosa aspettarsi da Lav Diaz, che certe necessità stilistiche impellenti lo sanno inquadrare all’interno di una predisposizione all’arte che è unicamente sua, mentre, allo stesso tempo, questa aspettativa cullante che si abbarbica al suo essere piacevolmente iterativo (eppure coraggioso) da un punto di vista autoriale diventa semplicemente il prerequisito per avvicinarglisi. 
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In quest’ottica, The woman who left parrebbe un’opera minore, e non solo per compattezza di durata (nemmeno quattro ore rispetto alle sette del precedente, A lullaby to the sorrowful mistery),  ma anche per il suo non aver incontrato, inaspettatamente, la consueta destrutturazione narrativa che un comparto più dilatato e rarefatto imponeva di sfruttare, fornendo da sostanziale supporto (laddove il solito inganno della lentezza discorsiva, della contemplazione estatica che molte cinematografie denunciano, e lo smussamento dei nodi narrativi portano a confondere l’estensione/contemplazione per vuoti di narrazione o scardinamento della stessa). 
In sostanza, The Woman who left, pur contestualizzandosi storicamente all’interno di un anno, il 1997, che per le isole filippine corrisponde a un subbuglio sociale e politico di sequestri e rapimenti, si assume la responsabilità, qui genuina e naturale, d’esser universale, spogliandosi di storicismi o datazioni insistenti per riconsegnare la sua storia di presenze e fragilità umane al cospetto delle loro miserie. Laddove è ancora possibile pensare di superarle, Diaz si dimentica di fare un film sull’indigenza, abbracciando le emanazioni interiori e facendone principi nobili, riverberi anti-retorici nel loro essere invocazioni alla giustizia, all’affiliazione, all’empatico rispecchiarsi tra due donne che hanno conosciuto la disperazione, ma che istintivamente declamano il loro richiamo alla sopravvivenza. 
Ed è qui che l’atteggiamento ottimista di Diaz nei confronti di un discorso para-sociale ha senso, con la protagonista Horacia che, dopo aver trascorso più di trent’anni in carcere da innocente, viene rilasciata, decisa a vendicarsi del suo ex-marito, Rodrigo, per averla ingannata e consegnata alle sbarre. Il suo ritorno la spinge a intraprendere un vagabondaggio notturno, detection noir, vero fulcro emozionale e lirico dell’opera, dove incontrerà il venditore di balut con il quale s’instaurerà una confortante vicinanza, e la transessuale Hollanda, anima persa e distrutta che troverà conforto nella casa di Horacia dopo esser stata violentata. 
Si dipana quindi una toccante, intensa elegia, nemmeno a dirlo afona eppure risuonante più di qualsivoglia intermissione musicale d’accompagnamento, a gridare ogni emozione pur nella sordità e nella concisione d’aspetto. Non escludendo che un mutismo ancor più estremo non avrebbe di certo recato danno alla potenza esagerata del lavoro. Soltanto il suggellarsi di un contatto fraterno, che valichi la compassione per farsi ascolto e comprensione reciproca, gratitudine e rispecchiamento, viene traslato seguendo le due donne che insieme cantano Somewhere di Tom Waits, a parlare di loro (di noi), della rigenerazione e della speranza pur nella malattia e nella rabbia, che “somewhere, we’ll find a way of living, somewhere, we’ll find a way of forgiving”. E l’atto d’amore finale di Horacia, per se stessa e per l’amica, la porterà a partire (sottolineato dall’unico vero e proprio movimento di macchina dell’opera) e sarà lo stesso a renderla la “la donna che parte”, ultima e definitiva prova d’autoaffermazione di una identità dispersa che solo tramite il gesto volontario di inseguire per ricercare (Hollanda, ma non solo) può trovare più che un restauro: una nascita. 

Diaz abbraccia il reale come fosse un’impressione fugace la cui fenomenologia non è deducibile tramite lo sguardo interrotto di un’inquadratura, ed è per questo che deve farsi contemplativo, statico e paziente, nell’attesa che il tangibile comunichi quanto possiede di vibrante e vero, conscio di come i flussi della mente debbano e possano perdersi nel riposo della fruizione, unica valvola a permettere una comprensione del tangibile il più possibile massima e autentica. E questo si conserva intatto anche quando il tentativo di un sincretismo tra le due spinte radicali, l’aderenza onnicomprensiva e il messaggio che cerca il suo veicolo, conduce a un risultato che è sintesi encomiabile tra il range autoriale che non rinuncia a parte del suo volto, prassi inscindibile per avvicinarsi all’esperibile, e coscienza di una narrazione necessaria, a suo modo lineare e fruibile.
Il tutto per giungere a un oggetto certamente meno radicabile e percettivo – laddove, in otto o nove ore di proiezione, era impossibile non pervenire a una mozione meta-cinematografica di senso (lato), esperienza spettatoriale che più largamente coinvolgeva un rapporto uomo-schermo che sfrangiava la più elementare godibilità della messa in scena per diventare stimolante condizione psico-sensoriale. Eppure l’immersione non viene meno, allarga soltanto i suoi lacci emostatici per convogliare tramite una devozione non parzializzata, solo condensata, i propri cardini, le proprie visioni viscerali sul mondo e sulla cultura.
Diaz, qui, mutila i suoi torrenziali long take in inquadrature meno estese, ma altrettanto osservative, ove l’encomiabile estetica di un bianco e nero lucente, dalla forte sovraesposizione, fatica a manifestare l’opera tutta concettuale e low budget dell’autore, a declamare a gran voce ancora una volta quanto non siano propriamente i mezzi a fare il Cinema. In costante evoluzione, l'autore percorre un percorso di mutazione e arrotondamento, a capacitarsi di come sia possibile inseguire la propria concezione artistica rendendola perfettamente assimilabile, giustamente cangiante, senza che essa perda valore.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Festival Venezia


Scheda tecnica

Titolo originale: Ang babaeng humayo
Regia: Lav Diaz
Sceneggiatura: Lav Diaz
Attori principali: Charos Santos-Concio, John Lloyd Cruz, Michael De Mesa, Nonie Buencamino
Fotografia: Lav Diaz
Anno: 2016
Durata: 226’

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VENEZIA 73 - Il palmarès: Leone d'Oro a Lav Diaz

12/9/2016

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​La settantatreesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia è giunta al termine. Si chiudono le porte delle sale cinematografiche che nei giorni scorsi hanno ospitato le visioni del festival, ma anche emozioni, palpiti e in qualche caso delusioni cocenti. Come ogni anno il festival ha regalato tanti sogni; si lascia Venezia, i sospiri restano sospesi in attesa di Venezia 74 e, come recitava Haracourt, partire è un po’ morire.
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Tra i regali di Venezia 73 c’è uno splendido leoncino; il ruggito più atteso del festival è volato tra le braccia di colui che al momento rappresenta il cinema in tutta la sua purezza, in tutta la sua essenza, un regista che da anni entusiasma gli occhi del pubblico che vive di cinema, anzi, che sogna di cinema, i cui occhi si lasciano affascinare dalla magia di schermi ipnotici: Lav Diaz, con The Woman Who Left (Ang Babaeng Humayo).
​Il regista ha dedicato il premio al popolo filippino, quel popolo cui dà voce nelle sue opere, confezionando poemi visivi incentrati spesso sui rapporti umani, cantando di un’umanità divorata dalla provincia rurale tra storie di miseria, compassione e solitudini, in bianchi e neri eleganti, onirici e suggestivi, con inquadrature fisse in cui il tempo è quasi sospeso. Diaz è il poeta del cinema contemporaneo, basti pensare ad opere come Melancholia, miglior film di finzione in Orizzonti a Venezia 65, Century of Birthing (Siglo ng pagluluwal), del 2011, o al più recente From What Is Before (Mula sa kung ano ang noon), Pardo d’Oro a Locarno nel 2014. 
Qualche polemica, inevitabile, è sorta sull’assegnazione degli altri premi, come il Leone d’Argento a Tom Ford, per Nocturnal Animals, che durante la proiezione dedicata alla stampa è stato anche fischiato, dividendo i pareri della critica, fortemente contrastanti tra loro. Tanti dubbi anche per l’ex aequo alla miglior regia, diviso tra Amat Escalante, con il contestato La región salvaje, e Andrei Konchalovsky, autore di Paradise, che ha pure suscitato qualche perplessità. Colpevolmente escluso dal palmarès l'apprezzatissimo Une Vie di Stéphane Brizé. 
Sono state molto lodate, dalla critica e dal pubblico, le opere presentate nel corso della trentunesima Settimana Internazionale della Critica, tra cui Drum di Keywan Karimi, Are We Not Cats, di Xander Robin (fuori concorso), Singing in Graveyards, di Bradley, Liew e Last of us, di Ala Eddine Slim, che vince il Premio Mario Serandrei - Hotel Saturnia, per il Miglior contributo tecnico, e soprattutto il Leone del Futuro. 
L’ultima edizione nel complesso non ha deluso le aspettative, assegnando un Leone d’Oro mai così ampiamente condiviso e offrendo un’ampia varietà di generi a chi il cinema lo ama sul serio, perché in fondo, come dice Juan Sebastián Mesa, riferendosi ai suoi personaggi di Los Nadie, il film vincitore della trentunesima edizione SIC, siamo tutti sognatori disperati.

Qui di seguito, per avere una visione più dettagliata, il palmarès completo di Venezia 73.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Festival Venezia
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Leone d’oro: The Woman Who Left, Lav Diaz
Leone d’argento - Gran Premio della Giuria: Nocturnal Animals, Tom Ford
Leone d’argento per la miglior regia: Amat Escalante, La región salvajee e Andrei Konchalovsky, Paradise
Leone del futuro: Liew e Last of  us, di Ala Eddine Slim
Premio trentunesima edizione della Settimana Internazionale della Critica il Premio del Pubblico - Circolo del Cinema di Verona: Los Nadie, Juan Sebastián Mesa 
Premio Speciale della Giuria: The Bad Batch, Ana Lily Amirpour
Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: Oscar Martinez, El ciudadano ilustre
Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile: Emma Stone, La La Land
Premio Osella per la miglior sceneggiatura: Noah Oppenheim, Jackie
Premio Marcello Mastroianni: Paula Beer, Frantz
Miglior film - Sezione Orizzonti: Liberami, Federica Di Giacomo
Miglior regia - Sezione Orizzonti: Fien Troch, Home
Miglior sceneggiatura - Sezione Orizzonti: Wang Bing, Ku qian
Miglior interpretazione maschile - Sezione Orizzonti: Nuno Lopes, Sao Jorge
Miglior interpretazione femminile - Sezione Orizzonti: Ruth Díaz, Tarde para la ira
Miglior film restaurato - Venezia Classici: Break-up – L’uomo dei cinque palloni, Marco Ferreri 

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    ​VENEZIA 73

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