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VENEZIA 73 - Une Vie, di Stéphane Brizé

9/9/2016

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Foto
​Une Vie, una vita, impressionata su una giustapposizione di istantanee, cifra stilistica di Stéphane Brizé (come pure accadeva nello splendido e fortunato La loi du marché, ma ancora addietro in Quelques heures de printemps), che esplode (implode) sommessa in una silhouette a diapositiva vibrante, leggera, che accarezza e restringe nell’1:33 del formato. 
Une Vie cerca di lambire, senza pretendere l’onnicomprensività di significato, le pulsazioni, le ritrosie e l’oppressione di una giovane donna aristocratica la cui vita (sebbene si tratti di inquadrarne una parzialità) si estende nell’arco di un Ottocento trascorso in Normandia, tra fattorie, contesti campestri e bucolici che Brizé ottunde in un ovattato sonoro che desidera poter abbracciare i personaggi (il personaggio), brandendoli come fossero un (s)oggetto da indagare attraverso il riflesso della loro superficie  (epidermica, tessile, atmosferica). 
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Si dipana una vicenda sospesa, certamente cronologica ma scevra da dinamiche narrative forti, che s’incolla, insieme alla mdp, al volto soave, eppure quasi austero, della protagonista Jeanne Le Perthuis (un’impeccabile Judith Chemla). Una fanciulla il cui sguardo denuncia immediatamente una disillusione che, già sommessa e infeconda come fosse un marchio speciale di solitudine portata in grembo, sfuma dalla perduta innocenza (sessuale, come un’iniziazione al dolore) verso il ripiegamento emotivo dell’età adulta. 
Jeanne è, per Brizé, come un’emanazione: l’accoglie con rispetto e devozione come fosse un’eroina silenziosa e mai conturbante, gracile ed emotiva, che intraprende il distacco familiare tramite il matrimonio prematuro con il visconte Julien de Lamare, traditore seriale che ella sarà costretta inizialmente a perdonare, così stretta dalle pressioni religiose del prete di famiglia e dall’invito della madre a obliare la relazione extraconiugale del compagno con la fedele serva. Jeanne cova in sé un desiderio di autodeterminazione che non riesce ad espletare e forse nemmeno percepire, tant’è che, riscoprendo il marito nell’atto di amoreggiare con una vicina, si fermerà davanti a un’emancipazione che non crede di potersi permettere: “la menzogna è un peccato ancor più grande di quello della carne”, ascolterà, dichiarando di voler tacere sulla faccenda. A stigmatizzare ancor di più un’impotenza di fondo, parto di un milieu culturale, poi sentimentale, quasi atemporale. 
Un matriarcato incomunicabile quello dell’età adulta, subìta e accartocciata addosso, con l’unica, non tangibile, presenza della serva con la quale, pure, e in modo sempre più truce, non vi potrà essere legame, tanto che i pranzi antartici e silenziosi consumeranno una passività e un eremitaggio invalicabile, come se l’azione fosse occlusa dalle sue basi. 
​
Brizé dispiega micro-episodi monocromi, come allucinazioni visive mai fuori fuoco, che si riavvolgono in se stessi, scanditi dal giro di piano ipnotico, duplicandosi uguali in ottemperanza di una vita percepita identica, mentre lo sguardo non immobile, ma mai nevrotico, è una scia emozionale che rispetta e ama il personaggio con il suo minimalismo formale, presupposto per un’immagine che non sia ricattatoria, ingiuriosa o che di questo spleen faccia manifesto. 
Il romanzo di Guy De Maupassant, che l’opera insegue fedelmente è, in fondo, la parabola discendente di una giovane inghiottita dal proprio isolazionismo mentale, dalle circostanze relazionali che le si accaniscono feroci, senza ch’ella possa considerarne l’accidentalità, lasciandosi lentamente logorare dall’impotenza nei confronti di una figura maschile che la denigra (fatta esclusione per il padre, interpretato da Jean-Pierre Darroussin, che le farà da saldo compagno per gran parte dell’esistenza): il marito prima, il figlio dopo, che letteralmente l’abbandonerà nonostante un carteggio che richiede continui prestiti di denaro. 
L’umiltà della messa in scena, a distanza ridottissima dell’occhio incollato sul volto, sulle mani, sul collo, sui corpi; il pathos che percorre le vie sottili della narrazione, sempre distanti da qualsivoglia forma di spettacolarizzazione; la pellicola impressionata di vibrazioni cromatiche sempre percorse dalle diramazioni di una luce gentile, che getta un manto di umanità sulle cose e sulle persone con preciso rigore: c’è tutto, in una partitura omogenea, senza mai uscire da una mono-nota che, infine, rappresenta il pregio e (potrebbe rappresentare) il difetto insieme dell’opera. La citazione pedissequa posta a conclusione, certo, potrebbe suonare didascalica, perché in sé il film esplicita, fosse anche stato scarnificato ulteriormente di dialoghi, il suo senso universale e non soggetto a fraintendimenti, ovvero quanto une vie sia trasportata dalle correnti, dagli stravolgimenti del fato, dai lampi di luce, dal bene, una volta ogni tanto. 
Une Vie, in concorso a Venezia, conferma le doti tutte francesi di Brizé, che s’inserisce di diritto tra le voci più coerenti e interessanti del panorama cinematografico attuale. 

Laura Delle Vedove

Sezioni di riferimento: Festival Venezia, Film al cinema


Scheda tecnica
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Regia: Stephane Brizé
Sceneggiatura: Stéphane Brizé, Florence Vignon
Attori principali: Judith Chemla, Swann Arlaud, Yolande Moreau, Jean-Pierre Darroussin
Fotografia: Antoine Hébérle
Anno: 2016
Durata: 119’

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