Un titolo, una (la) materia, a devastare e schiacciare come un muro castrante il film più compatto e catartico di questa edizione della Mostra di Venezia. Un nome, Amir Naderi, e il suo film, Monte, scandalosamente inserito fuori concorso, conquistano gli occhi stanchi da accumulamento narrativo, assurgendo a soggetto una narrazione elementare, asciutta, fatta di iati e fulgidi campi impressionati, lì a dimostrare come il Cinema si faccia con gli istanti, depurando la scrittura di complessità e vezzi, nella riduzione all’osso che beneficia del suo significare tutto e nulla, divaricandosi in visioni molteplici su potenziali letture.
Qui è la natura in un panismo regressivo, che retrocede dalla comunione all’isolamento, all’impotenza nei confronti della disumanità derubante della divisione montuosa che, barriera innocente eppure presenza maledetta e scarnificante, diventa più di un luogo, di uno spazio mentale: è un pedale affinché subentri il rinnovamento umano, valvola in virtù della lotta, neppure solo per la sopravvivenza, ma per l’autodeterminazione, la purificazione da un marchio isolante di morte.
Senza determinazione spazio-temporale, in un limbo desertico, questo passo a tre estremo e teatrale nello spazio unico e asfissiante, nel verbo che retrocederà all’urlo, inquadra una comunità medievale relegata al di là di una roccia dolomitica parietale e dominante, offuscata dall’incombenza nefasta del buio. Lo sguardo si stringe attorno a una triade familiare indisposta ad abbandonare il proprio lembo di terreno e, insieme ad esso, le croci lignee degli antenati progressivamente deceduti.
Naderi consuma la sua passione che si spoglia atea localizzandola nel nucleo tripartito di madre, padre e figlio, demonizzati dal villaggio poco distante e rinchiusi nella propria impossibilità di distaccarsi dal grembo fangoso, pietroso di un costone: quello del monte, che assale lo sguardo ergendosi imponente, divorando lo schermo in un continuum di lenta esegesi che impedisce ogni tentativo accennato di vivere anche di soli stenti. Il pellegrinaggio solitario del padre assunto a lebbroso nel borgo poco più a valle, ingannato per un servigio manuale di poco conto, accusato d’aver rubato la spilla della moglie che invano tentava di vendere; infine, la scomparsa momentanea del giovane e della donna, pedana strutturale che introduce alla deriva psico-fisica (eppure non motoria) dell’uomo, ridotto a dover aggredire a sua volta una natura intransigente e spietata che, per limitazione millenaria e soggezione spirituale, non può abbandonare.
Prende inizio, nei cristalli neri e a vivo fuoco del regista, uno scontro esistenziale impari, con il ritmo alternato di urla e scalpitio dei martelli che sfrecciano sul versante roccioso, tra ferite e usure stimmatiche, impasti fangosi e saliva curativa, degenerazione fisionomica di volti usurpati dalle atrocità della fatica e dai passaggi di tempo indecisi (sottolineati da iati irrealisti, che sfregiano la coerenza temporale, lasciando il campo alla sensazione metafisica di un trascorrere immanente e atemporale).
Naderi nutre di sguardi attoniti e al contempo attraenti, marchiati da una fotografia cangiante, impegnata a virare, a farsi ora sovraesposta, ora chiaroscurale, satura e infine ferrigna, oscillando furiosamente tra un regime e l’altro, catturando(si) nella significazione cromatica che esplode sul finale solare, in diapositive di un sole-cerchio prima sbiadito, cinereo, poi fulgido, e fisso, a lentamente salire verso l’annientamento visivo, conquista di una battaglia terminata e debellamento di una maledizione pagana (e ancora emotiva e corporale) che si nutriva di assenza di luce e di scopo.
L’asciuttezza di Naderi è coincisa e calibrata, in un’opera che letteralmente s’incaglia sulla reiterazione e sull’alternanza motoria di gemiti e picconate sulla roccia, riuscendo eppure a incatenare l’attenzione, valicando la tensione per sconfinare nel sentire empatico della sofferenza, in un’escalation conscia della necessità drammatica, senza mai deviare verso una spettacolarizzazione gratuita. Si è accompagnati in un esorcismo totale e per questo aperto a qualsiasi intima e privata sentenza di senso ad esso si voglia apporre, nella vittoria eclatante della semplicità di messa in scena e discorso. Un esempio di cinema radicale e mai ammiccante o ricattatorio.
Naderi non firma il suo miglior film, ma continua a dimostrarsi baluardo contemporaneo della cinematografia iraniana, girovago e appassionato, a dividere le riprese tra Stati Uniti, Francia e Italia (soprattutto, tra l’Alto Adige e le catene dolomitiche friulane) rallentato da difficoltà produttive, senza che l’omogeneità e la pregevolezza del progetto ne venisse, infine, inficiata. Non si priva nemmeno di difetti e refusi grammaticali, Naderi: basterebbe sottolineare il doppiaggio (tutto italiano) francamente discordante e fittizio a ricordare certe postille del cinema del passato, qualche effetto ralenti affaticante ed estetismo di troppo, o il divario straniante (forse sbagliato, forse no) della frana conclusiva – che rigenera e squarcia il lembo morto sulla luce accecante della palla solare – che, volutamente o meno, sembra strappata a improvvise immagini di repertorio selezionate per necessità e limitazione dei mezzi. La battaglia ha fine con l’apparizione del sole totale, nemmeno tra gli anfratti rocciosi: assoluta, a schermo intero, senza mezzi termini.
Naderi depura l’affresco anche da un discorso religioso drastico, lasciandone un solo vago abbozzo (di rinnego, repulsione, rassegnazione dinanzi a quel “miracolo” aspettato e mai fattosi che ha visto davanti a sé un’intera genealogia deperire al di là della montagna), perché si vuole essenziale, per procedere a uno svuotamento di senso reclamato che è comunque impugnatura significante che non occlude la visione: si direbbe, al di là dell’insensatezza della lotta, della ragione perduta e degli iati troppo evidenti per non esser consapevoli, che Naderi scelga il vuoto, la rabbia illogica, la cecità ancestrale dell’ignoranza dei mezzi, della povertà sociale che contrasta con il rifiorire di quella emozionale, a stridere nell’assurdità del vuoto cosciente.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Festival Venezia
Scheda tecnica
Titolo: Monte
Regia: Amir Naderi
Sceneggiatura: Amir Naderi
Attori principali: Andrea Sartoretti, Claudia Potenza, Zac Zanghellini
Fotografia: Roberto Cimatti
Anno: 2016
Durata: 90'
Uscita italiana: 24 novembre 2016
Qui è la natura in un panismo regressivo, che retrocede dalla comunione all’isolamento, all’impotenza nei confronti della disumanità derubante della divisione montuosa che, barriera innocente eppure presenza maledetta e scarnificante, diventa più di un luogo, di uno spazio mentale: è un pedale affinché subentri il rinnovamento umano, valvola in virtù della lotta, neppure solo per la sopravvivenza, ma per l’autodeterminazione, la purificazione da un marchio isolante di morte.
Senza determinazione spazio-temporale, in un limbo desertico, questo passo a tre estremo e teatrale nello spazio unico e asfissiante, nel verbo che retrocederà all’urlo, inquadra una comunità medievale relegata al di là di una roccia dolomitica parietale e dominante, offuscata dall’incombenza nefasta del buio. Lo sguardo si stringe attorno a una triade familiare indisposta ad abbandonare il proprio lembo di terreno e, insieme ad esso, le croci lignee degli antenati progressivamente deceduti.
Naderi consuma la sua passione che si spoglia atea localizzandola nel nucleo tripartito di madre, padre e figlio, demonizzati dal villaggio poco distante e rinchiusi nella propria impossibilità di distaccarsi dal grembo fangoso, pietroso di un costone: quello del monte, che assale lo sguardo ergendosi imponente, divorando lo schermo in un continuum di lenta esegesi che impedisce ogni tentativo accennato di vivere anche di soli stenti. Il pellegrinaggio solitario del padre assunto a lebbroso nel borgo poco più a valle, ingannato per un servigio manuale di poco conto, accusato d’aver rubato la spilla della moglie che invano tentava di vendere; infine, la scomparsa momentanea del giovane e della donna, pedana strutturale che introduce alla deriva psico-fisica (eppure non motoria) dell’uomo, ridotto a dover aggredire a sua volta una natura intransigente e spietata che, per limitazione millenaria e soggezione spirituale, non può abbandonare.
Prende inizio, nei cristalli neri e a vivo fuoco del regista, uno scontro esistenziale impari, con il ritmo alternato di urla e scalpitio dei martelli che sfrecciano sul versante roccioso, tra ferite e usure stimmatiche, impasti fangosi e saliva curativa, degenerazione fisionomica di volti usurpati dalle atrocità della fatica e dai passaggi di tempo indecisi (sottolineati da iati irrealisti, che sfregiano la coerenza temporale, lasciando il campo alla sensazione metafisica di un trascorrere immanente e atemporale).
Naderi nutre di sguardi attoniti e al contempo attraenti, marchiati da una fotografia cangiante, impegnata a virare, a farsi ora sovraesposta, ora chiaroscurale, satura e infine ferrigna, oscillando furiosamente tra un regime e l’altro, catturando(si) nella significazione cromatica che esplode sul finale solare, in diapositive di un sole-cerchio prima sbiadito, cinereo, poi fulgido, e fisso, a lentamente salire verso l’annientamento visivo, conquista di una battaglia terminata e debellamento di una maledizione pagana (e ancora emotiva e corporale) che si nutriva di assenza di luce e di scopo.
L’asciuttezza di Naderi è coincisa e calibrata, in un’opera che letteralmente s’incaglia sulla reiterazione e sull’alternanza motoria di gemiti e picconate sulla roccia, riuscendo eppure a incatenare l’attenzione, valicando la tensione per sconfinare nel sentire empatico della sofferenza, in un’escalation conscia della necessità drammatica, senza mai deviare verso una spettacolarizzazione gratuita. Si è accompagnati in un esorcismo totale e per questo aperto a qualsiasi intima e privata sentenza di senso ad esso si voglia apporre, nella vittoria eclatante della semplicità di messa in scena e discorso. Un esempio di cinema radicale e mai ammiccante o ricattatorio.
Naderi non firma il suo miglior film, ma continua a dimostrarsi baluardo contemporaneo della cinematografia iraniana, girovago e appassionato, a dividere le riprese tra Stati Uniti, Francia e Italia (soprattutto, tra l’Alto Adige e le catene dolomitiche friulane) rallentato da difficoltà produttive, senza che l’omogeneità e la pregevolezza del progetto ne venisse, infine, inficiata. Non si priva nemmeno di difetti e refusi grammaticali, Naderi: basterebbe sottolineare il doppiaggio (tutto italiano) francamente discordante e fittizio a ricordare certe postille del cinema del passato, qualche effetto ralenti affaticante ed estetismo di troppo, o il divario straniante (forse sbagliato, forse no) della frana conclusiva – che rigenera e squarcia il lembo morto sulla luce accecante della palla solare – che, volutamente o meno, sembra strappata a improvvise immagini di repertorio selezionate per necessità e limitazione dei mezzi. La battaglia ha fine con l’apparizione del sole totale, nemmeno tra gli anfratti rocciosi: assoluta, a schermo intero, senza mezzi termini.
Naderi depura l’affresco anche da un discorso religioso drastico, lasciandone un solo vago abbozzo (di rinnego, repulsione, rassegnazione dinanzi a quel “miracolo” aspettato e mai fattosi che ha visto davanti a sé un’intera genealogia deperire al di là della montagna), perché si vuole essenziale, per procedere a uno svuotamento di senso reclamato che è comunque impugnatura significante che non occlude la visione: si direbbe, al di là dell’insensatezza della lotta, della ragione perduta e degli iati troppo evidenti per non esser consapevoli, che Naderi scelga il vuoto, la rabbia illogica, la cecità ancestrale dell’ignoranza dei mezzi, della povertà sociale che contrasta con il rifiorire di quella emozionale, a stridere nell’assurdità del vuoto cosciente.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Festival Venezia
Scheda tecnica
Titolo: Monte
Regia: Amir Naderi
Sceneggiatura: Amir Naderi
Attori principali: Andrea Sartoretti, Claudia Potenza, Zac Zanghellini
Fotografia: Roberto Cimatti
Anno: 2016
Durata: 90'
Uscita italiana: 24 novembre 2016