A inaugurare l'edizione 73 della Mostra del Cinema di Venezia, un genere che da molti anni è reticente a manipolazioni estreme e che incontra spesso una difficoltà di aggiornamento: il musical. Sceglie di farlo il Damien Chazelle già conosciuto ai più per il suo Whiplash, che in effetti isolava il tema come ambito privilegiato del regista: la musica. In questo senso, la materia viene qui assunta non più come spazio attorno al quale orchestrare una storia di iniziazione alla vita e alla disciplina, ma come metodo e impianto narrativo e scenografico.
Perciò, Chazelle intraprende la strada verso una sua personale codifica del genere agendo, forse, nella maniera più intelligente possibile: depurandolo dalle contaminazioni più evidenti che esso aveva incontrato proprio nel momento in cui l’oro della vecchia Hollywood cedeva il passo a versioni meno disincantate e spurie. Decide, per fortuna, di imbastire una struttura narrativamente classica, riportandolo a una stesura incontaminata, quella della surrealtà di Minnelli e dello spazio armonico del ballo della Rogers e di Astaire: unico luogo ove il romantico può ancora conservare la sua natura inviolata e condurre a un incontro tra quel che ancora rimane (e deve rimanere) dei mondi interiori.
In questo contesto, prende vita l’incontro fortunato tra due outsider ambiziosi, Mia e Sebastian: la prima, non proprio memore di un’adolescenza passata a scrivere i propri drammi, tenta, scalpitando, la strada della recitazione nella Los Angeles più intransigente, mentre il lavoro nella caffetteria a ridosso degli Studios pare ingabbiarla in un destino a senso unico; il secondo, impugnando uno degli ultimi baluardi degli splendori dei locali jazz, è un pianista eccellente ma s’impegna a perdere ogni impiego che trova per onestà e passione nei confronti di un free jazz che, sembrerebbe, a più nessuno interessa.
I giochi son presto fatti: la caparbietà della prima e il tradizionalismo intatto del secondo devono incontrarsi. Ne nasce un variopinto incrocio di sogni e divagazioni fantastiche che mai abbandona, però, la realtà in favore dei primi, proseguendo verso una fusione equilibrata dei due. Memore della lezione minnelliana, Chazelle sfonda le porte del tangibile per inserire sprazzi di splendore a occhi aperti, laddove la conoscenza dei due futuri amanti viene condotta all’insegna del valzer e del tip tap e di caparbie note di pianoforte a coda, entrambi strumenti drammatici sapientemente utilizzati che fanno della musica comunicazione, scambio, linfonodo esistenziale per una tangenza dei corpi e delle aspirazioni.
L'autore, nel suo La La Land, si stringe attorno ai desideri mai vituperati, a compilare un manuale sul perseguimento dei propri orizzonti più sperati, staccando mai la spina dalla loro incorruttibilità inscindibile, insistendo sulla loro necessità d’esser integrali, mai decomposti e compromessi. Sebastian è, in questo senso, la chiave più sincera attraverso la quale osservare l’opera: di un conservatorismo mai abbandonato è essenziale nutrirsi, mai venendo meno ad esso, perché il costume è mutevole, ma niente muore e tutto si rigenera; anzi, insieme al cinema, caposaldo residuo d’un epoca in cui tutto si consuma a casa propria, la forma della musica si evolve, ma ad essa rimarrà sempre incollato uno spazio nostalgico per le costruzioni primordiali, per i primi passi di ogni genere che di moda può passare ma che non smetterà mai di piacere.
Eppure, Chazelle, in maniera eterogenea e, forse, inaspettata, è conscio di quanto una patina totalmente naif possa, all’occhio svezzato di chi guarda, stridere e poco placare i tremori delle anime turbolente; sembra ricordare un altro finale di quello che non fu di certo musical, ma che nella dolceamara fine di un amore aveva trovato il suo più legittimo compimento. Sembra finire tutto alla maniera di New York, New York, quando Scorsese, in anni più sospetti, considerava l’incontro tra anime poco gemelle e di certo non destinate a un’esistenza insieme l’unica via possibile a un compimento futuro del proprio artistico bramare: l’unione è terminale ma propedeutica a una realizzazione sincera e soddisfatta della propria condizione.
Perciò, presto si capisce, per Mia (Emma Stone) e Sebastian (Ryan Gosling) il volteggiare al Griffith Park (incantevole esempio di astrazione sospesa e del librarsi interiore verso la costellazione del proprio amore) avrà un termine, ma sarà sufficiente, fondamentale, affinché entrambi possano (perché devono) cicatrizzare le disillusioni del passato per imparare che credere (a quel che non si vede, che sta dentro) è il pegno di ogni fine e di ogni inizio.
Con Chazelle è bello poter dire nuovamente, e finalmente, che l’happy ending è tale, anche quando vi è una derivazione mancata, una distanza, una rottura; che forse, soprattutto, fare man bassa di Cinemascope e di colori, seppur con il freno a mano su qualche virtuosismo di troppo dell’opera precedente, può non essere stucchevole; che al cinema è ancora consentito sognare senza rinunciare al dolore, mentre ogni fitta è valvola per elevare il proprio finale; che la finzione censura dal tonfo letale ma deve decidere, ancora, di farcelo vedere.
Chazelle non inventa nulla. Recupera, pacato, poco resistendo al divertissement registico, immaginari variegati altrove visti riuscendo a non cadere scontato in virgole di troppo. Fa di più: ci regala un “what if” conclusivo gestito egregiamente, ancora una volta tramite un missaggio sonoro encomiabile, fiore all’occhiello dell’opera, palpebra sollevata sull’intramontabile speranza dei nostri sogni.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Festival di Venezia
Scheda tecnica
Ttolo originale: La La Land
Regia: Damien Chazelle
Sceneggiatura: Damien Chazelle
Interpreti principali: Emma Stone, Ryan Gosling, Finn Wittrock, J.K. Simmons
Musiche: Justin Hurwitz
Fotografia: Linus Sandgren
Durata: 126’
Uscita italiana: 26 gennaio 2017
Perciò, Chazelle intraprende la strada verso una sua personale codifica del genere agendo, forse, nella maniera più intelligente possibile: depurandolo dalle contaminazioni più evidenti che esso aveva incontrato proprio nel momento in cui l’oro della vecchia Hollywood cedeva il passo a versioni meno disincantate e spurie. Decide, per fortuna, di imbastire una struttura narrativamente classica, riportandolo a una stesura incontaminata, quella della surrealtà di Minnelli e dello spazio armonico del ballo della Rogers e di Astaire: unico luogo ove il romantico può ancora conservare la sua natura inviolata e condurre a un incontro tra quel che ancora rimane (e deve rimanere) dei mondi interiori.
In questo contesto, prende vita l’incontro fortunato tra due outsider ambiziosi, Mia e Sebastian: la prima, non proprio memore di un’adolescenza passata a scrivere i propri drammi, tenta, scalpitando, la strada della recitazione nella Los Angeles più intransigente, mentre il lavoro nella caffetteria a ridosso degli Studios pare ingabbiarla in un destino a senso unico; il secondo, impugnando uno degli ultimi baluardi degli splendori dei locali jazz, è un pianista eccellente ma s’impegna a perdere ogni impiego che trova per onestà e passione nei confronti di un free jazz che, sembrerebbe, a più nessuno interessa.
I giochi son presto fatti: la caparbietà della prima e il tradizionalismo intatto del secondo devono incontrarsi. Ne nasce un variopinto incrocio di sogni e divagazioni fantastiche che mai abbandona, però, la realtà in favore dei primi, proseguendo verso una fusione equilibrata dei due. Memore della lezione minnelliana, Chazelle sfonda le porte del tangibile per inserire sprazzi di splendore a occhi aperti, laddove la conoscenza dei due futuri amanti viene condotta all’insegna del valzer e del tip tap e di caparbie note di pianoforte a coda, entrambi strumenti drammatici sapientemente utilizzati che fanno della musica comunicazione, scambio, linfonodo esistenziale per una tangenza dei corpi e delle aspirazioni.
L'autore, nel suo La La Land, si stringe attorno ai desideri mai vituperati, a compilare un manuale sul perseguimento dei propri orizzonti più sperati, staccando mai la spina dalla loro incorruttibilità inscindibile, insistendo sulla loro necessità d’esser integrali, mai decomposti e compromessi. Sebastian è, in questo senso, la chiave più sincera attraverso la quale osservare l’opera: di un conservatorismo mai abbandonato è essenziale nutrirsi, mai venendo meno ad esso, perché il costume è mutevole, ma niente muore e tutto si rigenera; anzi, insieme al cinema, caposaldo residuo d’un epoca in cui tutto si consuma a casa propria, la forma della musica si evolve, ma ad essa rimarrà sempre incollato uno spazio nostalgico per le costruzioni primordiali, per i primi passi di ogni genere che di moda può passare ma che non smetterà mai di piacere.
Eppure, Chazelle, in maniera eterogenea e, forse, inaspettata, è conscio di quanto una patina totalmente naif possa, all’occhio svezzato di chi guarda, stridere e poco placare i tremori delle anime turbolente; sembra ricordare un altro finale di quello che non fu di certo musical, ma che nella dolceamara fine di un amore aveva trovato il suo più legittimo compimento. Sembra finire tutto alla maniera di New York, New York, quando Scorsese, in anni più sospetti, considerava l’incontro tra anime poco gemelle e di certo non destinate a un’esistenza insieme l’unica via possibile a un compimento futuro del proprio artistico bramare: l’unione è terminale ma propedeutica a una realizzazione sincera e soddisfatta della propria condizione.
Perciò, presto si capisce, per Mia (Emma Stone) e Sebastian (Ryan Gosling) il volteggiare al Griffith Park (incantevole esempio di astrazione sospesa e del librarsi interiore verso la costellazione del proprio amore) avrà un termine, ma sarà sufficiente, fondamentale, affinché entrambi possano (perché devono) cicatrizzare le disillusioni del passato per imparare che credere (a quel che non si vede, che sta dentro) è il pegno di ogni fine e di ogni inizio.
Con Chazelle è bello poter dire nuovamente, e finalmente, che l’happy ending è tale, anche quando vi è una derivazione mancata, una distanza, una rottura; che forse, soprattutto, fare man bassa di Cinemascope e di colori, seppur con il freno a mano su qualche virtuosismo di troppo dell’opera precedente, può non essere stucchevole; che al cinema è ancora consentito sognare senza rinunciare al dolore, mentre ogni fitta è valvola per elevare il proprio finale; che la finzione censura dal tonfo letale ma deve decidere, ancora, di farcelo vedere.
Chazelle non inventa nulla. Recupera, pacato, poco resistendo al divertissement registico, immaginari variegati altrove visti riuscendo a non cadere scontato in virgole di troppo. Fa di più: ci regala un “what if” conclusivo gestito egregiamente, ancora una volta tramite un missaggio sonoro encomiabile, fiore all’occhiello dell’opera, palpebra sollevata sull’intramontabile speranza dei nostri sogni.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Festival di Venezia
Scheda tecnica
Ttolo originale: La La Land
Regia: Damien Chazelle
Sceneggiatura: Damien Chazelle
Interpreti principali: Emma Stone, Ryan Gosling, Finn Wittrock, J.K. Simmons
Musiche: Justin Hurwitz
Fotografia: Linus Sandgren
Durata: 126’
Uscita italiana: 26 gennaio 2017