Era forse questione di tempo affinché il canadese Villeneuve approcciasse il genere fantascientifico, limbo largamente esplorato e che sempre incontra ostacoli nell’aprirsi obbligato alle porte della filosofia e della para-scienza.
Denis Villeneuve, che nel 2010 approdava a Venezia con La donna che canta, presenta in concorso il suo Arrival, personale sguardo sul soggetto pluri-sfruttato dello sbarco alieno sulla terra, non rinunciando a una classe registica che pare ormai aspettativa dovuta nel guardare al suo cinema. Il pretesto di base è congeniale e saldo: lo sbarco di dodici navicelle ovali su differenti aree terrestri coinvolge i massimi sistemi del pianeta e porta l'esperta linguista Louise Banks (Amy Adams) e lo scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner) ad essere protagonisti (commissionati e volontari al contempo) dell’impresa di decifrarne le intenzioni e, di conseguenza, il linguaggio.
Quella di Villeneuve è una precisa indagine sulla natura dei rapporti tra ogni forma di vita esistente contemplando l’idea, a dir la verità per nulla originale, che “gli intrusi speciali” non giungano nemici ma che presentino, nella loro sagoma di novità “altra”, una predisposizione alla comunicazione pacifica e conciliante e, soprattutto, una modalità intrinseca aperta al dono, laddove il feedback di rimando è meta auspicata e base imprescindibile per ogni sistema di contrattazione valida.
Con lo stile che lo contraddistingue, col motore sciolto dei suoi lenti movimenti di macchina, Villeneuve divarica la prospettiva umana su esseri alieni che sopraggiungono mastodontici ed affascinanti, in un’atmosfera che ricalca volentieri funambolismi horror (non a caso il soggetto è di Eric Heisserer, già alle prese con i remake di Craven e di Carpenter): l’addentrarsi degli impavidi addetti nell’incognita navicella, abilmente sottolineata da un sonoro funzionale e mai impertinente, è essenzialmente un’encomiabile lezione su come rielaborare reminiscenze del cinema del passato con infinita eleganza.
Villeneuve tiene le redini di una narrazione lineare e spedita, intelligentemente abbracciata a dinamiche tensive che mai subiscono rovinosi cali, mentre il mondo scalpita per riconoscere l’identità degli sconosciuti, incappando in errori di diplomazia internazionale che però l'autore finisce per banalizzare eccessivamente (i cinesi guerrafondai? Ovviamente), risolvendoli con sospetta elementarità. Appare chiara l’impronta tutta esistenziale e solo marginalmente scientifica dell’esperimento cinematografico, quando a far da padrona è la rilevanza del linguaggio che esso solo può essere massima arma e strumento di vicinanza al contempo, là dove esseri a forma di polipo non desiderano altro che trasmettere la loro avanzata tecnologia e fondamenta linguistiche raffinatissime che l’uomo, di sovente, decide di interpretare come una chiamata alle armi, a ricordarci come il terrore della diversità sia leitmotif transgenerazionale (in questo caso, universale).
Il discorso fantascientifico funziona, ma risuona poco verticale, in quanto sceglie di raccontare con profondità media e privilegiando la forma al contenuto - che è, infine, solo parzialmente elaborato e sviscerato. L’eterno ritorno in versione ottimista, parrebbe, dove il tempo è, ancora una volta, ciclico (così come è circolare e filiforme ogni ideogramma della nuova esperienza linguistica) e tutto ciò che ha fine ha contemporaneamente anche inizio: a evidenziarlo i flashback che si scoprono flash forward (questo, infine, il twist di Arrival) di una madre devastata dalla perdita della figlia e che, tramite la collisione amichevole degli extra-terrestri, impara una preveggenza da interiorizzare, mentre il film si arrotola e si srotola con una limpidità di superficie apprezzabile e, al contempo, imbarazzante.
I quadri si aprono su tetti estetici calibratissimi e levigati, verniciati di una glacialità asettica che impedisce volutamente ogni impronta empatica. Piacere del racconto, quest’opera che mai denuncia una fatica di costruzione. Eppure, fa presto capolinea il dubbio, già quasi certezza, che sia lecito, per l’occhio svezzato, desiderare e pretendere di più dal gioco fantascientifico potenziale.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Festival Venezia
Scheda tecnica
Titolo originale: Arrival
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Eric Heisserer (dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang)
Interpreti principali: Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg
Musiche: Johan Johannsonn
Fotografia: Bradford Young
Anno: 2016
Durata: 116'
Denis Villeneuve, che nel 2010 approdava a Venezia con La donna che canta, presenta in concorso il suo Arrival, personale sguardo sul soggetto pluri-sfruttato dello sbarco alieno sulla terra, non rinunciando a una classe registica che pare ormai aspettativa dovuta nel guardare al suo cinema. Il pretesto di base è congeniale e saldo: lo sbarco di dodici navicelle ovali su differenti aree terrestri coinvolge i massimi sistemi del pianeta e porta l'esperta linguista Louise Banks (Amy Adams) e lo scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner) ad essere protagonisti (commissionati e volontari al contempo) dell’impresa di decifrarne le intenzioni e, di conseguenza, il linguaggio.
Quella di Villeneuve è una precisa indagine sulla natura dei rapporti tra ogni forma di vita esistente contemplando l’idea, a dir la verità per nulla originale, che “gli intrusi speciali” non giungano nemici ma che presentino, nella loro sagoma di novità “altra”, una predisposizione alla comunicazione pacifica e conciliante e, soprattutto, una modalità intrinseca aperta al dono, laddove il feedback di rimando è meta auspicata e base imprescindibile per ogni sistema di contrattazione valida.
Con lo stile che lo contraddistingue, col motore sciolto dei suoi lenti movimenti di macchina, Villeneuve divarica la prospettiva umana su esseri alieni che sopraggiungono mastodontici ed affascinanti, in un’atmosfera che ricalca volentieri funambolismi horror (non a caso il soggetto è di Eric Heisserer, già alle prese con i remake di Craven e di Carpenter): l’addentrarsi degli impavidi addetti nell’incognita navicella, abilmente sottolineata da un sonoro funzionale e mai impertinente, è essenzialmente un’encomiabile lezione su come rielaborare reminiscenze del cinema del passato con infinita eleganza.
Villeneuve tiene le redini di una narrazione lineare e spedita, intelligentemente abbracciata a dinamiche tensive che mai subiscono rovinosi cali, mentre il mondo scalpita per riconoscere l’identità degli sconosciuti, incappando in errori di diplomazia internazionale che però l'autore finisce per banalizzare eccessivamente (i cinesi guerrafondai? Ovviamente), risolvendoli con sospetta elementarità. Appare chiara l’impronta tutta esistenziale e solo marginalmente scientifica dell’esperimento cinematografico, quando a far da padrona è la rilevanza del linguaggio che esso solo può essere massima arma e strumento di vicinanza al contempo, là dove esseri a forma di polipo non desiderano altro che trasmettere la loro avanzata tecnologia e fondamenta linguistiche raffinatissime che l’uomo, di sovente, decide di interpretare come una chiamata alle armi, a ricordarci come il terrore della diversità sia leitmotif transgenerazionale (in questo caso, universale).
Il discorso fantascientifico funziona, ma risuona poco verticale, in quanto sceglie di raccontare con profondità media e privilegiando la forma al contenuto - che è, infine, solo parzialmente elaborato e sviscerato. L’eterno ritorno in versione ottimista, parrebbe, dove il tempo è, ancora una volta, ciclico (così come è circolare e filiforme ogni ideogramma della nuova esperienza linguistica) e tutto ciò che ha fine ha contemporaneamente anche inizio: a evidenziarlo i flashback che si scoprono flash forward (questo, infine, il twist di Arrival) di una madre devastata dalla perdita della figlia e che, tramite la collisione amichevole degli extra-terrestri, impara una preveggenza da interiorizzare, mentre il film si arrotola e si srotola con una limpidità di superficie apprezzabile e, al contempo, imbarazzante.
I quadri si aprono su tetti estetici calibratissimi e levigati, verniciati di una glacialità asettica che impedisce volutamente ogni impronta empatica. Piacere del racconto, quest’opera che mai denuncia una fatica di costruzione. Eppure, fa presto capolinea il dubbio, già quasi certezza, che sia lecito, per l’occhio svezzato, desiderare e pretendere di più dal gioco fantascientifico potenziale.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Festival Venezia
Scheda tecnica
Titolo originale: Arrival
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Eric Heisserer (dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang)
Interpreti principali: Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg
Musiche: Johan Johannsonn
Fotografia: Bradford Young
Anno: 2016
Durata: 116'