Dal punto di vista produttivo, Jackie rappresenta un’atipicità all’interno della densa attività registica dell’autore: non soltanto costituisce l’approdo di Pablo Larraín a un cast internazionale dalla conseguente distribuzione massiccia (nonostante la collaborazione da produzione indipendente), ma notifica quanto le necessità autoriali si siano qui fuse a un soggetto preesistente (dalla mano di Aronofsky, a comparire tra i produttori del progetto).
La premessa pare fondamentale, perché se Jackie conferma e rinnova, rigenerando e svecchiando lo sguardo tramite un comparto estetico imponente e abbagliante per estrema potenza visiva, le qualità superbe del regista, contemporaneamente denuncia una sostanziale elementarità di verticalizzazione in sede di scrittura (per la quale egli non risulta accreditato).
In fondo, questo Jackie, è un film di Larraín perché ogni corpo diegetico è essenzialmente sigillato dalla sua fortissima natura personale, ove si ritrovano marche e predisposizioni formali, dettagli di reiterazione prettamente tecnica (a partire dai 16 mm e il formato europeo 1:66 che riescono a non esser sterile feticcio), ossessioni storiciste, solennità drammatica quasi mozartiana che palesano una qualificazione del tutto estranea al bio-pic da scaffale al quale la sceneggiatura si sarebbe volentieri piegata. Ma Larraín pare regista d’un altro mondo, a dinamizzare uno spartito narrativo estremamente canonico e avulso dalle quote storico-sociali che si rilevano nei lavori precedenti, non certo lavorando per sottrazione stilistica ma enfatizzando ogni membrana a sua disposizione, inondando la figura tragica dell’indimenticata First Lady americana di laconico pathos.
La consapevolezza di non poter intervenire sul mito, la sostanziale impossibilità di spogliare Jackie dalla sua statura cultural-popolare (intaccando, poi, un ambito nazionale che gli è lontano) classificano il racconto in un tentativo educato di raccontare l’indecifrabilità di una figura che ha smesso d’essere donna per farsi modello di una forma inconsueta, allora nuova, di divismo; come stessimo anche noi, imbrigliati alle sue redini, osservando oggi a distanza di più di cinquanta anni immagini di repertorio (non a caso, accuratamente riprodotte, come nel bianco e nero della visita televisiva alla Casa Bianca) che ora angosciano ora paiono nostalgiche.
Intelligentemente Larraín non pretende una rilettura contenutista di una storia non sua (diverso l’atteggiamento nel precedente Neruda, dove il sarcasmo miscela il paradosso a riverberare, nuovamente, quanta surrealtà e finzione intrinseca devii la storia ufficiale da una sua aderenza ideale), ma rielabora per sommità attimi di sovraesposizione mediatica, coraggiosamente bypassando il rischio di un piatto verismo o di una più vaga cronografia, intrecciando le linee temporali per pervenire a un trattamento che sia primariamente introspettivo ed emozionale, solcando la superficie rigata di lacrime e rovente di sangue del volto, in primo piano, di Natalie Portman.
È come, ancora, se fosse possibile guardare alla storia nella misura in cui è distorta, e nella coscienza intatta e indispensabile del suo carattere fittizio. Non rimane che orchestrarla, al cinema come pure nella realtà: Larraín mette in scena una versione crudissima e per niente patinata dell’attentato al presidente più amato della storia americana ad oggi, mentre assume a climax discorsivo la marcia funebre di Jacqueline, entrambe stemperate da un montaggio che alterna l’interezza dell’afflizione per l’incidente al ritrarla, ambigua e scissa tra un atteggiamento perentorio e fragile, nell’atto di rilasciare un’intervista postuma.
Kennedy scompare: rimangono, obbligatoriamente, impressioni di luce e forma su un’esistenza stravolta dalla mondanità improvvisa che Jackie mai condanna, proteggendo saldamente lo splendore di quanto vissuto, conscia d’esser stata vittima della storia, inciampando in eventi che solo di striscio potevano incriminarla. Jackie è un prisma sfaccettato rifrangente gli istanti che processano il dolore, nell’assunto che esso possa esser riparato. È irrisolta e mutevole, tridimensionale, nascosta nelle innumerevoli fessure della sua mente, incalcolabile e spaesata tra proiezione di sé e indole genuina, mentre tutto è miscelato e confuso, ad abbozzare quesiti sulla morte e sull’esistenza nella consapevolezza della loro irrecuperabile risoluzione.
Larraín, come di consueto, sfrutta la malleabilità dei mezzi nella manipolazione fotografica della pellicola, dove la saturazione cromatica appositamente contestualizzata nei ‘60 non vuol essere oggettivismo, bensì fare rappresentazione iperrealista, alterata, più devastante e iconica dell’immaginazione della realtà stessa.
Jackie non è forse il suo film più equilibrato, né la raggiunta totalità su quanto già dato dal 2006 ad oggi, ma la capacità espressiva è tale che il minutaggio, a termine proiezione, pare poco, scivolato troppo in fretta: si desiderano ancora immagini, catene dei suoi sguardi, come fosse un flusso ora tiepido ora convulso incapace di stancare.
Laura Delle Vedove
Sezioni di riferimento: Festival Venezia, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Noah Oppenheim
Attori principali: Natalie Portman, Greta Gerwig, Peter Sarsgaard, Billy Crudup, John Hurt
Fotografia: Stéphane Fontaine
Musiche: Mica Levi
Anno: 2016
Durata: 95’
Uscita italiana: 23 febbraio 2017
La premessa pare fondamentale, perché se Jackie conferma e rinnova, rigenerando e svecchiando lo sguardo tramite un comparto estetico imponente e abbagliante per estrema potenza visiva, le qualità superbe del regista, contemporaneamente denuncia una sostanziale elementarità di verticalizzazione in sede di scrittura (per la quale egli non risulta accreditato).
In fondo, questo Jackie, è un film di Larraín perché ogni corpo diegetico è essenzialmente sigillato dalla sua fortissima natura personale, ove si ritrovano marche e predisposizioni formali, dettagli di reiterazione prettamente tecnica (a partire dai 16 mm e il formato europeo 1:66 che riescono a non esser sterile feticcio), ossessioni storiciste, solennità drammatica quasi mozartiana che palesano una qualificazione del tutto estranea al bio-pic da scaffale al quale la sceneggiatura si sarebbe volentieri piegata. Ma Larraín pare regista d’un altro mondo, a dinamizzare uno spartito narrativo estremamente canonico e avulso dalle quote storico-sociali che si rilevano nei lavori precedenti, non certo lavorando per sottrazione stilistica ma enfatizzando ogni membrana a sua disposizione, inondando la figura tragica dell’indimenticata First Lady americana di laconico pathos.
La consapevolezza di non poter intervenire sul mito, la sostanziale impossibilità di spogliare Jackie dalla sua statura cultural-popolare (intaccando, poi, un ambito nazionale che gli è lontano) classificano il racconto in un tentativo educato di raccontare l’indecifrabilità di una figura che ha smesso d’essere donna per farsi modello di una forma inconsueta, allora nuova, di divismo; come stessimo anche noi, imbrigliati alle sue redini, osservando oggi a distanza di più di cinquanta anni immagini di repertorio (non a caso, accuratamente riprodotte, come nel bianco e nero della visita televisiva alla Casa Bianca) che ora angosciano ora paiono nostalgiche.
Intelligentemente Larraín non pretende una rilettura contenutista di una storia non sua (diverso l’atteggiamento nel precedente Neruda, dove il sarcasmo miscela il paradosso a riverberare, nuovamente, quanta surrealtà e finzione intrinseca devii la storia ufficiale da una sua aderenza ideale), ma rielabora per sommità attimi di sovraesposizione mediatica, coraggiosamente bypassando il rischio di un piatto verismo o di una più vaga cronografia, intrecciando le linee temporali per pervenire a un trattamento che sia primariamente introspettivo ed emozionale, solcando la superficie rigata di lacrime e rovente di sangue del volto, in primo piano, di Natalie Portman.
È come, ancora, se fosse possibile guardare alla storia nella misura in cui è distorta, e nella coscienza intatta e indispensabile del suo carattere fittizio. Non rimane che orchestrarla, al cinema come pure nella realtà: Larraín mette in scena una versione crudissima e per niente patinata dell’attentato al presidente più amato della storia americana ad oggi, mentre assume a climax discorsivo la marcia funebre di Jacqueline, entrambe stemperate da un montaggio che alterna l’interezza dell’afflizione per l’incidente al ritrarla, ambigua e scissa tra un atteggiamento perentorio e fragile, nell’atto di rilasciare un’intervista postuma.
Kennedy scompare: rimangono, obbligatoriamente, impressioni di luce e forma su un’esistenza stravolta dalla mondanità improvvisa che Jackie mai condanna, proteggendo saldamente lo splendore di quanto vissuto, conscia d’esser stata vittima della storia, inciampando in eventi che solo di striscio potevano incriminarla. Jackie è un prisma sfaccettato rifrangente gli istanti che processano il dolore, nell’assunto che esso possa esser riparato. È irrisolta e mutevole, tridimensionale, nascosta nelle innumerevoli fessure della sua mente, incalcolabile e spaesata tra proiezione di sé e indole genuina, mentre tutto è miscelato e confuso, ad abbozzare quesiti sulla morte e sull’esistenza nella consapevolezza della loro irrecuperabile risoluzione.
Larraín, come di consueto, sfrutta la malleabilità dei mezzi nella manipolazione fotografica della pellicola, dove la saturazione cromatica appositamente contestualizzata nei ‘60 non vuol essere oggettivismo, bensì fare rappresentazione iperrealista, alterata, più devastante e iconica dell’immaginazione della realtà stessa.
Jackie non è forse il suo film più equilibrato, né la raggiunta totalità su quanto già dato dal 2006 ad oggi, ma la capacità espressiva è tale che il minutaggio, a termine proiezione, pare poco, scivolato troppo in fretta: si desiderano ancora immagini, catene dei suoi sguardi, come fosse un flusso ora tiepido ora convulso incapace di stancare.
Laura Delle Vedove
Sezioni di riferimento: Festival Venezia, Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Noah Oppenheim
Attori principali: Natalie Portman, Greta Gerwig, Peter Sarsgaard, Billy Crudup, John Hurt
Fotografia: Stéphane Fontaine
Musiche: Mica Levi
Anno: 2016
Durata: 95’
Uscita italiana: 23 febbraio 2017