ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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VENEZIA 73 - The Woman Who Left, di Lav Diaz

12/9/2016

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​Al di là dei sensazionalismi da copertina, dei giudizi di parte o delle accuse di elitarismo che hanno gravitato attorno alla vittoria del Leone d’Oro da parte del regista filippino - il cui minutaggio è stato sottoposto a una riduzione affinché l’opera potesse rientrare nel concorso ufficiale della Mostra; ancor più al di là dei riconoscimenti ricevuti dai festival europei e dai supposti marchi di intellettualismo e dall’idea di cinema che inevitabilmente le sue opere declamano in maniera totale, per nulla facili ai mezzi termini e alla compromissioni. Al di là di tutto questo si colloca l’oggetto-film di Lav Diaz, giunto a culmine di una cinematografia quasi ventennale e insieme fluviale, per monumentalità costitutiva e verbosità e urgenza che qui neppur si avvicinano a sembrare accezioni paradossali e divergenti. 
Per Diaz il tempo, e l’insubordinata libertà a cui gli si avvicina, è il presupposto più che accettabile attraverso il quale il metaforismo sull’esistenza deve poter dilagare in un modello di cinema che è diventato tale grazie all’impugnatura di uno stile da subito decodificabile e conclamato, all’interno di un paradigma più largo in cui i modelli venivano scalzati uno ad uno dallo stesso autore. Ed è un po’ come dire, sempre fermandosi a una delucidazione della superficie, che si sa cosa aspettarsi da Lav Diaz, che certe necessità stilistiche impellenti lo sanno inquadrare all’interno di una predisposizione all’arte che è unicamente sua, mentre, allo stesso tempo, questa aspettativa cullante che si abbarbica al suo essere piacevolmente iterativo (eppure coraggioso) da un punto di vista autoriale diventa semplicemente il prerequisito per avvicinarglisi. 
​
In quest’ottica, The woman who left parrebbe un’opera minore, e non solo per compattezza di durata (nemmeno quattro ore rispetto alle sette del precedente, A lullaby to the sorrowful mistery),  ma anche per il suo non aver incontrato, inaspettatamente, la consueta destrutturazione narrativa che un comparto più dilatato e rarefatto imponeva di sfruttare, fornendo da sostanziale supporto (laddove il solito inganno della lentezza discorsiva, della contemplazione estatica che molte cinematografie denunciano, e lo smussamento dei nodi narrativi portano a confondere l’estensione/contemplazione per vuoti di narrazione o scardinamento della stessa). 
In sostanza, The Woman who left, pur contestualizzandosi storicamente all’interno di un anno, il 1997, che per le isole filippine corrisponde a un subbuglio sociale e politico di sequestri e rapimenti, si assume la responsabilità, qui genuina e naturale, d’esser universale, spogliandosi di storicismi o datazioni insistenti per riconsegnare la sua storia di presenze e fragilità umane al cospetto delle loro miserie. Laddove è ancora possibile pensare di superarle, Diaz si dimentica di fare un film sull’indigenza, abbracciando le emanazioni interiori e facendone principi nobili, riverberi anti-retorici nel loro essere invocazioni alla giustizia, all’affiliazione, all’empatico rispecchiarsi tra due donne che hanno conosciuto la disperazione, ma che istintivamente declamano il loro richiamo alla sopravvivenza. 
Ed è qui che l’atteggiamento ottimista di Diaz nei confronti di un discorso para-sociale ha senso, con la protagonista Horacia che, dopo aver trascorso più di trent’anni in carcere da innocente, viene rilasciata, decisa a vendicarsi del suo ex-marito, Rodrigo, per averla ingannata e consegnata alle sbarre. Il suo ritorno la spinge a intraprendere un vagabondaggio notturno, detection noir, vero fulcro emozionale e lirico dell’opera, dove incontrerà il venditore di balut con il quale s’instaurerà una confortante vicinanza, e la transessuale Hollanda, anima persa e distrutta che troverà conforto nella casa di Horacia dopo esser stata violentata. 
Si dipana quindi una toccante, intensa elegia, nemmeno a dirlo afona eppure risuonante più di qualsivoglia intermissione musicale d’accompagnamento, a gridare ogni emozione pur nella sordità e nella concisione d’aspetto. Non escludendo che un mutismo ancor più estremo non avrebbe di certo recato danno alla potenza esagerata del lavoro. Soltanto il suggellarsi di un contatto fraterno, che valichi la compassione per farsi ascolto e comprensione reciproca, gratitudine e rispecchiamento, viene traslato seguendo le due donne che insieme cantano Somewhere di Tom Waits, a parlare di loro (di noi), della rigenerazione e della speranza pur nella malattia e nella rabbia, che “somewhere, we’ll find a way of living, somewhere, we’ll find a way of forgiving”. E l’atto d’amore finale di Horacia, per se stessa e per l’amica, la porterà a partire (sottolineato dall’unico vero e proprio movimento di macchina dell’opera) e sarà lo stesso a renderla la “la donna che parte”, ultima e definitiva prova d’autoaffermazione di una identità dispersa che solo tramite il gesto volontario di inseguire per ricercare (Hollanda, ma non solo) può trovare più che un restauro: una nascita. 

Diaz abbraccia il reale come fosse un’impressione fugace la cui fenomenologia non è deducibile tramite lo sguardo interrotto di un’inquadratura, ed è per questo che deve farsi contemplativo, statico e paziente, nell’attesa che il tangibile comunichi quanto possiede di vibrante e vero, conscio di come i flussi della mente debbano e possano perdersi nel riposo della fruizione, unica valvola a permettere una comprensione del tangibile il più possibile massima e autentica. E questo si conserva intatto anche quando il tentativo di un sincretismo tra le due spinte radicali, l’aderenza onnicomprensiva e il messaggio che cerca il suo veicolo, conduce a un risultato che è sintesi encomiabile tra il range autoriale che non rinuncia a parte del suo volto, prassi inscindibile per avvicinarsi all’esperibile, e coscienza di una narrazione necessaria, a suo modo lineare e fruibile.
Il tutto per giungere a un oggetto certamente meno radicabile e percettivo – laddove, in otto o nove ore di proiezione, era impossibile non pervenire a una mozione meta-cinematografica di senso (lato), esperienza spettatoriale che più largamente coinvolgeva un rapporto uomo-schermo che sfrangiava la più elementare godibilità della messa in scena per diventare stimolante condizione psico-sensoriale. Eppure l’immersione non viene meno, allarga soltanto i suoi lacci emostatici per convogliare tramite una devozione non parzializzata, solo condensata, i propri cardini, le proprie visioni viscerali sul mondo e sulla cultura.
Diaz, qui, mutila i suoi torrenziali long take in inquadrature meno estese, ma altrettanto osservative, ove l’encomiabile estetica di un bianco e nero lucente, dalla forte sovraesposizione, fatica a manifestare l’opera tutta concettuale e low budget dell’autore, a declamare a gran voce ancora una volta quanto non siano propriamente i mezzi a fare il Cinema. In costante evoluzione, l'autore percorre un percorso di mutazione e arrotondamento, a capacitarsi di come sia possibile inseguire la propria concezione artistica rendendola perfettamente assimilabile, giustamente cangiante, senza che essa perda valore.

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Festival Venezia


Scheda tecnica

Titolo originale: Ang babaeng humayo
Regia: Lav Diaz
Sceneggiatura: Lav Diaz
Attori principali: Charos Santos-Concio, John Lloyd Cruz, Michael De Mesa, Nonie Buencamino
Fotografia: Lav Diaz
Anno: 2016
Durata: 226’

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VENEZIA 73 - Il palmarès: Leone d'Oro a Lav Diaz

12/9/2016

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​La settantatreesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia è giunta al termine. Si chiudono le porte delle sale cinematografiche che nei giorni scorsi hanno ospitato le visioni del festival, ma anche emozioni, palpiti e in qualche caso delusioni cocenti. Come ogni anno il festival ha regalato tanti sogni; si lascia Venezia, i sospiri restano sospesi in attesa di Venezia 74 e, come recitava Haracourt, partire è un po’ morire.
​
Tra i regali di Venezia 73 c’è uno splendido leoncino; il ruggito più atteso del festival è volato tra le braccia di colui che al momento rappresenta il cinema in tutta la sua purezza, in tutta la sua essenza, un regista che da anni entusiasma gli occhi del pubblico che vive di cinema, anzi, che sogna di cinema, i cui occhi si lasciano affascinare dalla magia di schermi ipnotici: Lav Diaz, con The Woman Who Left (Ang Babaeng Humayo).
​Il regista ha dedicato il premio al popolo filippino, quel popolo cui dà voce nelle sue opere, confezionando poemi visivi incentrati spesso sui rapporti umani, cantando di un’umanità divorata dalla provincia rurale tra storie di miseria, compassione e solitudini, in bianchi e neri eleganti, onirici e suggestivi, con inquadrature fisse in cui il tempo è quasi sospeso. Diaz è il poeta del cinema contemporaneo, basti pensare ad opere come Melancholia, miglior film di finzione in Orizzonti a Venezia 65, Century of Birthing (Siglo ng pagluluwal), del 2011, o al più recente From What Is Before (Mula sa kung ano ang noon), Pardo d’Oro a Locarno nel 2014. 
Qualche polemica, inevitabile, è sorta sull’assegnazione degli altri premi, come il Leone d’Argento a Tom Ford, per Nocturnal Animals, che durante la proiezione dedicata alla stampa è stato anche fischiato, dividendo i pareri della critica, fortemente contrastanti tra loro. Tanti dubbi anche per l’ex aequo alla miglior regia, diviso tra Amat Escalante, con il contestato La región salvaje, e Andrei Konchalovsky, autore di Paradise, che ha pure suscitato qualche perplessità. Colpevolmente escluso dal palmarès l'apprezzatissimo Une Vie di Stéphane Brizé. 
Sono state molto lodate, dalla critica e dal pubblico, le opere presentate nel corso della trentunesima Settimana Internazionale della Critica, tra cui Drum di Keywan Karimi, Are We Not Cats, di Xander Robin (fuori concorso), Singing in Graveyards, di Bradley, Liew e Last of us, di Ala Eddine Slim, che vince il Premio Mario Serandrei - Hotel Saturnia, per il Miglior contributo tecnico, e soprattutto il Leone del Futuro. 
L’ultima edizione nel complesso non ha deluso le aspettative, assegnando un Leone d’Oro mai così ampiamente condiviso e offrendo un’ampia varietà di generi a chi il cinema lo ama sul serio, perché in fondo, come dice Juan Sebastián Mesa, riferendosi ai suoi personaggi di Los Nadie, il film vincitore della trentunesima edizione SIC, siamo tutti sognatori disperati.

Qui di seguito, per avere una visione più dettagliata, il palmarès completo di Venezia 73.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Festival Venezia
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Leone d’oro: The Woman Who Left, Lav Diaz
Leone d’argento - Gran Premio della Giuria: Nocturnal Animals, Tom Ford
Leone d’argento per la miglior regia: Amat Escalante, La región salvajee e Andrei Konchalovsky, Paradise
Leone del futuro: Liew e Last of  us, di Ala Eddine Slim
Premio trentunesima edizione della Settimana Internazionale della Critica il Premio del Pubblico - Circolo del Cinema di Verona: Los Nadie, Juan Sebastián Mesa 
Premio Speciale della Giuria: The Bad Batch, Ana Lily Amirpour
Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile: Oscar Martinez, El ciudadano ilustre
Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile: Emma Stone, La La Land
Premio Osella per la miglior sceneggiatura: Noah Oppenheim, Jackie
Premio Marcello Mastroianni: Paula Beer, Frantz
Miglior film - Sezione Orizzonti: Liberami, Federica Di Giacomo
Miglior regia - Sezione Orizzonti: Fien Troch, Home
Miglior sceneggiatura - Sezione Orizzonti: Wang Bing, Ku qian
Miglior interpretazione maschile - Sezione Orizzonti: Nuno Lopes, Sao Jorge
Miglior interpretazione femminile - Sezione Orizzonti: Ruth Díaz, Tarde para la ira
Miglior film restaurato - Venezia Classici: Break-up – L’uomo dei cinque palloni, Marco Ferreri 

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VENEZIA 73 - Los Nadie (The Nobodies), di Juan Sebastian Mesa

11/9/2016

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Lentamente muore
chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare
chi passa i giorni a lamentarsi
della propria sfortuna o della pioggia incessante.

(Pablo Neruda)

Tu llegaste justo cuando menos lo esperaba y te fuiste sin decirme ni siquisiera adios me di cuenta que sin ti no podia ser yo nadie si me faltas tu mi amor para que vivir, que te pasa corazon que cosas tiene el amor. (Leo Dan)

Si cerca di mantenersi vivi, di rincorrere il pur minimo barlume di vita, nonostante non sia poi così facile. Si muore lentamente tra le strade strette di Medellín. Si lotta per sopravvivere, con i pugni chiusi e il cuore gonfio, con la vitalità dell’adolescenza, con l’energia e il dolore di chi vuole cambiare il proprio destino, percorrere strade diverse da quelle già percorse da chi si ritrova sconfitto e disperato, come i ragazzi di Los Nadie. 
Il film, diretto dal giovane regista colombiano Juan Sebastián Mesa, ha vinto alla trentunesima edizione della Settimana Internazionale della Critica il Premio del Pubblico - Circolo del Cinema di Verona, nel corso della Mostra del Cinema di Venezia 2016. Dopo diciassette anni dalla vittoria di Mondo Grùa, dell’argentino Pablo Trapero, l’America Latina torna a conquistare il premio SIC.
La doom generation di Medellín confonde i fuochi d’artificio con gli spari di pistola; in quella città così ostile è più facile imbattersi nei colpi d’arma da fuoco che in una festa, e le esplosioni che risuonano in lontananza ricordano costantemente che la minaccia della guerriglia urbana non è mai troppo distante. I cinque ragazzi, alle prese con giochi da strada, musica, fumetti, graffiti, sono alla ricerca di un sé unico, forte e rivoltoso, che segni il margine tra l’adolescenza e l’età adulta e indichi loro la strada giusta per abbandonare un luogo in cui è facile smarrirsi per inseguire un sogno, che li conduca lontano da quella città. 
Lo sguardo di Mesa opta per un bianco e nero nebbioso, a tratti lattiginoso, che rende i contorni di quei luoghi sfocati e distanti, per prenderne le distanze, per regalare una sfumatura onirica a quella realtà così difficile e dalla quale quella gioventù vorrebbe tenersi alla larga. Tracciando i contorni metropolitani con un montaggio veloce e frenetico, affidandosi a uno stile quasi documentaristico, il regista porta in scena lo spaccato di uno spazio urbano dai contorni netti e definiti, ma la sua mdp rimane sempre vicina al corpo dei soggetti tratteggiati, mostrando un’affinità di sentimenti che li accomuna, una similarità in cui Mesa si rispecchia raccontandosi. 
Ana, Pipa, Manu, Mechas e Camilo sognano di partire, lasciarsi tutto alle spalle, scivolare via da quella realtà inospitale; spronati dalla guerrillera Acción Directa e cullati dal romanticismo di Leo Dan e della sua Tu llegastes cuando menos te esperaba, i cuori tumultuosi di questa gioventù ribelle sussultano per amore e disperazione tra le lacrime, i piercing e la necessità di essere diversi. I tatuaggi, i peluche, gli orsacchiotti di pezza e i poster dei luoghi dove si vorrebbe fuggire, sono tutti simboli di un’età sospesa tra la fanciullezza e l’età adulta, di una tensione tra una solida volontà di cambiamento e i sussulti dell’adolescenza. I cinque si destreggiano tra gli affanni di quella che è forse la stagione più ardua della vita, il momento di transizione in cui non si sa bene “cosa” si è e si vive sospesi tra ambizioni e paure. Los nadie, letteralmente “I nessuno”, sconosciuti a se stessi e alla società, privi ancora di un’identità che con dolore si cerca di acquisire attraverso le passioni, assecondando la propria indole e la propria personalità. 
In una quotidianità nervosa, bruciata tra alcool, hashish e marjuana, inveendo contro il cielo e tormentati dagli inevitabili scontri generazionali, questi “sognatori disincantati”, come li definisce Mesa, raccolgono il fardello ingombrante di una disperata adolescenza e cercano di sfuggire alla violenza del loro tempo e del loro spazio metropolitano, in cerca di riscatto, in cerca del proprio sé, perché “lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno”. (Pablo Neruda)

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Festival Venezia


Scheda tecnica

Titolo originale: Los nadie
Regia: Juan Sebastián Mesa
Sceneggiatura: Juan Sebastián Mesa
Fotografia: David Correa Franco
Montaggio: Isabel Otálvaro
Musiche: O.D.I.O.
Interpreti: Maria Angélica Puerta, Maria Camila Castrillón, Diego Perez Ceferino, Esteban Alcaráz, Felipe Alzate
Anno: 2016
Durata: 84'

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VENEZIA 73 - Jackie, di Pablo Larrain

10/9/2016

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​Dal punto di vista produttivo, Jackie rappresenta un’atipicità all’interno della densa attività registica dell’autore: non soltanto costituisce l’approdo di Pablo Larraín a un cast internazionale dalla conseguente distribuzione massiccia (nonostante la collaborazione da produzione indipendente), ma notifica quanto le necessità autoriali si siano qui fuse a un soggetto preesistente (dalla mano di Aronofsky, a comparire tra i produttori del progetto). 
La premessa pare fondamentale, perché se Jackie conferma e rinnova, rigenerando e svecchiando lo sguardo tramite un comparto estetico imponente e abbagliante per estrema potenza visiva, le qualità superbe del regista, contemporaneamente denuncia una sostanziale elementarità di verticalizzazione in sede di scrittura (per la quale egli non risulta accreditato). 
In fondo, questo Jackie, è un film di Larraín perché ogni corpo diegetico è essenzialmente sigillato dalla sua fortissima natura personale, ove si ritrovano marche e predisposizioni formali, dettagli di reiterazione prettamente tecnica (a partire dai 16 mm e il formato europeo 1:66 che riescono a non esser sterile feticcio), ossessioni storiciste, solennità drammatica quasi mozartiana che palesano una qualificazione del tutto estranea al bio-pic da scaffale al quale la sceneggiatura si sarebbe volentieri piegata. Ma Larraín pare regista d’un altro mondo, a dinamizzare uno spartito narrativo estremamente canonico e avulso dalle quote storico-sociali che si rilevano nei lavori precedenti, non certo lavorando per sottrazione stilistica ma enfatizzando ogni membrana a sua disposizione, inondando la figura tragica dell’indimenticata First Lady americana di laconico pathos. 
​
La consapevolezza di non poter intervenire sul mito, la sostanziale impossibilità di spogliare Jackie dalla sua statura cultural-popolare (intaccando, poi, un ambito nazionale che gli è lontano) classificano il racconto in un tentativo educato di raccontare l’indecifrabilità di una figura che ha smesso d’essere donna per farsi modello di una forma inconsueta, allora nuova, di divismo; come stessimo anche noi, imbrigliati alle sue redini, osservando oggi a distanza di più di cinquanta anni immagini di repertorio (non a caso, accuratamente riprodotte, come nel bianco e nero della visita televisiva alla Casa Bianca) che ora angosciano ora paiono nostalgiche. 
Intelligentemente Larraín non pretende una rilettura contenutista di una storia non sua (diverso l’atteggiamento nel precedente Neruda, dove il sarcasmo miscela il paradosso a riverberare, nuovamente, quanta surrealtà e finzione intrinseca devii la storia ufficiale da una sua aderenza ideale), ma rielabora per sommità attimi di sovraesposizione mediatica, coraggiosamente bypassando il rischio di un piatto verismo o di una più vaga cronografia, intrecciando le linee temporali per pervenire a un trattamento che sia primariamente introspettivo ed emozionale, solcando la superficie rigata di lacrime e rovente di sangue del volto, in primo piano, di Natalie Portman. 
È come, ancora, se fosse possibile guardare alla storia nella misura in cui è distorta, e nella coscienza intatta e indispensabile del suo carattere fittizio. Non rimane che orchestrarla, al cinema come pure nella realtà: Larraín mette in scena una versione crudissima e per niente patinata dell’attentato al presidente più amato della storia americana ad oggi, mentre assume a climax discorsivo la marcia funebre di Jacqueline, entrambe stemperate da un montaggio che alterna l’interezza dell’afflizione per l’incidente al ritrarla, ambigua e scissa tra un atteggiamento perentorio e fragile, nell’atto di rilasciare un’intervista postuma. 
​
Kennedy scompare: rimangono, obbligatoriamente, impressioni di luce e forma su un’esistenza stravolta dalla mondanità improvvisa che Jackie mai condanna, proteggendo saldamente lo splendore di quanto vissuto, conscia d’esser stata vittima della storia, inciampando in eventi che solo di striscio potevano incriminarla. Jackie è un prisma sfaccettato rifrangente gli istanti che processano il dolore, nell’assunto che esso possa esser riparato. È irrisolta e mutevole, tridimensionale, nascosta nelle innumerevoli fessure della sua mente, incalcolabile e spaesata tra proiezione di sé e indole genuina, mentre tutto è miscelato e confuso, ad abbozzare quesiti sulla morte e sull’esistenza nella consapevolezza della loro irrecuperabile risoluzione. 
Larraín, come di consueto, sfrutta la malleabilità dei mezzi nella manipolazione fotografica della pellicola, dove la saturazione cromatica appositamente contestualizzata nei ‘60 non vuol essere oggettivismo, bensì fare rappresentazione iperrealista, alterata, più devastante e iconica dell’immaginazione della realtà stessa.
Jackie non è forse il suo film più equilibrato, né la raggiunta totalità su quanto già dato dal 2006 ad oggi, ma la capacità espressiva è tale che il minutaggio, a termine proiezione, pare poco, scivolato troppo in fretta: si desiderano ancora immagini, catene dei suoi sguardi, come fosse un flusso ora tiepido ora convulso incapace di stancare.  

Laura Delle Vedove

Sezioni di riferimento: Festival Venezia, Film al cinema


Scheda tecnica
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Regia: Pablo Larraín
Sceneggiatura: Noah Oppenheim
Attori principali: Natalie Portman, Greta Gerwig, Peter Sarsgaard, Billy Crudup, John Hurt
Fotografia: Stéphane Fontaine
Musiche: Mica Levi
​Anno: 2016
Durata: 95’
Uscita italiana: 23 febbraio 2017

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TARDE PARA LA IRA - La vendetta di un uomo tranquillo

9/9/2016

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“L’ira: un acido che può provocare più danni al recipiente che lo contiene che a qualsiasi cosa su cui venga versato.” Lucio Anneo Seneca

2007. A Madrid una rapina in una gioielleria si conclude con una carneficina. Una banda di ladri massacra a furia di botte il proprietario e una ragazza dandosi poi alla fuga mentre la polizia, dopo uno spettacolare inseguimento lungo le strade della capitale spagnola, riesce ad arrestare Curro (Luis Callejo), l'autista. 
L'uomo si ostina a non collaborare con le forze dell'ordine, scontando una condanna a otto anni di prigione senza mai rivelare i nomi dei complici. La compagna Ana (Ruth Díaz), dalla quale ha avuto un figlio, lo aspetta e nel frattempo gestisce un bar con il fratello in un rione popolare. Passano i giorni e il rilascio di Curro è imminente, quando un nuovo cliente inizia a frequentare il locale dove lavora la donna. José (Antonio de la Torre), tipo solitario, taciturno, quasi goffo, dimostra da subito un interesse nei confronti della barista. I suoi tentativi impacciati fanno sorridere, però non lasciano indifferente Ana, che si trova coinvolta in una relazione passionale. 
Curro, una volta uscito dal carcere, intuisce all'istante che la situazione dev'essere cambiata, perché la fidanzata lo tratta con fare freddo e distaccato. Lo scontro tra i rivali sembra inevitabile, quando un colpo di scena sconvolge l'intera narrazione. Il timido José ha in mente ben altri progetti: l'avvicinamento ad Ana non è fortuito, ma fa invece parte di un piano studiato per vendicare il padre (il gioielliere pestato durante la rapina, costretto in un letto di ospedale a causa dei traumi riportati) e la compagna Carmen (Alicia Rubio), che purtroppo non è sopravvissuta alle percosse. 

Presentato nella sezione Orizzonti della 73esima Mostra del Cinema di Venezia, Tarde para la ira (La vendetta di un uomo tranquillo), opera prima dell'attore spagnolo Raúl Arévalo (La isla mínima, Gli amanti passeggeri), è un'opera di genere, un revenge-movie scarno e senza fronzoli, intriso di una tensione palpabile fin dalle prime scene, costruito attorno al rapporto che si instaura tra José e Curro. Non a caso la sceneggiatura, frutto di un lavoro a quattro mani, si avvale della collaborazione dell'amico e psicologo David Pulido, che ha aiutato il regista a delineare il profilo psicologico delle figure chiave della vicenda (anche per merito di scambi di battute asciutti ed essenziali, davvero ben interpretati). 
La vendetta, spietata e brutale, condanna senza appello il boia a percorrere un vicolo cieco. E la pazienza (azzeccato il titolo inglese The Fury of a Patient Man), che accompagna per lunghi anni José nell'attesa di placare la sua sete di giustizia, non fa che alimentare un'ira sorda, che non avrà fine giunto il momento del regolamento di conti tanto agognato. José non troverà quindi la pace, ma dovrà piuttosto scontare un castigo perenne (non è appunto l'ira uno dei sette peccati capitali?), poiché la violenza non dona sollievo, non lascia spazio a false speranze, mentre (forse) Curro, che in realtà nella dinamica della rapina ha meno colpe dei suoi complici, potrà rifarsi una vita. 
Il pubblico si cala allora nella parte dei due protagonisti e non può che provare pietà per entrambi. Chi è dunque la vittima? E chi il carnefice? Se, infatti, il tema della vendetta al cinema è ormai talvolta perfino abusato, l'approccio di Tarde para la ira non risulta banale, perché tenta di analizzare le “ragioni” di José e Curro, non per concedere facili giustificazioni, ma almeno per non giudicare senza indugio le loro azioni. 

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Festival Venezia, Film al cinema


Scheda tecnica 
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Titolo originale: Tarde para la ira
Anno: Spagna 2016
Regia: Raúl Arévalo
Sceneggiatura: Raúl Arévalo, David Pulido.
Fotografia: Arnau Valls Colomer
Montaggio: Ángel Hernández Zoido
Durata: 92'
Interpreti principali: Antonio de la Torre, Luis Callejo, Alicia Rubio, Manolo Solo, Ruth Díaz, Raúl Jiménez. 
Uscita italiana: 30 marzo 2017

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VENEZIA 73 - Une Vie, di Stéphane Brizé

9/9/2016

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​Une Vie, una vita, impressionata su una giustapposizione di istantanee, cifra stilistica di Stéphane Brizé (come pure accadeva nello splendido e fortunato La loi du marché, ma ancora addietro in Quelques heures de printemps), che esplode (implode) sommessa in una silhouette a diapositiva vibrante, leggera, che accarezza e restringe nell’1:33 del formato. 
Une Vie cerca di lambire, senza pretendere l’onnicomprensività di significato, le pulsazioni, le ritrosie e l’oppressione di una giovane donna aristocratica la cui vita (sebbene si tratti di inquadrarne una parzialità) si estende nell’arco di un Ottocento trascorso in Normandia, tra fattorie, contesti campestri e bucolici che Brizé ottunde in un ovattato sonoro che desidera poter abbracciare i personaggi (il personaggio), brandendoli come fossero un (s)oggetto da indagare attraverso il riflesso della loro superficie  (epidermica, tessile, atmosferica). 
​
Si dipana una vicenda sospesa, certamente cronologica ma scevra da dinamiche narrative forti, che s’incolla, insieme alla mdp, al volto soave, eppure quasi austero, della protagonista Jeanne Le Perthuis (un’impeccabile Judith Chemla). Una fanciulla il cui sguardo denuncia immediatamente una disillusione che, già sommessa e infeconda come fosse un marchio speciale di solitudine portata in grembo, sfuma dalla perduta innocenza (sessuale, come un’iniziazione al dolore) verso il ripiegamento emotivo dell’età adulta. 
Jeanne è, per Brizé, come un’emanazione: l’accoglie con rispetto e devozione come fosse un’eroina silenziosa e mai conturbante, gracile ed emotiva, che intraprende il distacco familiare tramite il matrimonio prematuro con il visconte Julien de Lamare, traditore seriale che ella sarà costretta inizialmente a perdonare, così stretta dalle pressioni religiose del prete di famiglia e dall’invito della madre a obliare la relazione extraconiugale del compagno con la fedele serva. Jeanne cova in sé un desiderio di autodeterminazione che non riesce ad espletare e forse nemmeno percepire, tant’è che, riscoprendo il marito nell’atto di amoreggiare con una vicina, si fermerà davanti a un’emancipazione che non crede di potersi permettere: “la menzogna è un peccato ancor più grande di quello della carne”, ascolterà, dichiarando di voler tacere sulla faccenda. A stigmatizzare ancor di più un’impotenza di fondo, parto di un milieu culturale, poi sentimentale, quasi atemporale. 
Un matriarcato incomunicabile quello dell’età adulta, subìta e accartocciata addosso, con l’unica, non tangibile, presenza della serva con la quale, pure, e in modo sempre più truce, non vi potrà essere legame, tanto che i pranzi antartici e silenziosi consumeranno una passività e un eremitaggio invalicabile, come se l’azione fosse occlusa dalle sue basi. 
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Brizé dispiega micro-episodi monocromi, come allucinazioni visive mai fuori fuoco, che si riavvolgono in se stessi, scanditi dal giro di piano ipnotico, duplicandosi uguali in ottemperanza di una vita percepita identica, mentre lo sguardo non immobile, ma mai nevrotico, è una scia emozionale che rispetta e ama il personaggio con il suo minimalismo formale, presupposto per un’immagine che non sia ricattatoria, ingiuriosa o che di questo spleen faccia manifesto. 
Il romanzo di Guy De Maupassant, che l’opera insegue fedelmente è, in fondo, la parabola discendente di una giovane inghiottita dal proprio isolazionismo mentale, dalle circostanze relazionali che le si accaniscono feroci, senza ch’ella possa considerarne l’accidentalità, lasciandosi lentamente logorare dall’impotenza nei confronti di una figura maschile che la denigra (fatta esclusione per il padre, interpretato da Jean-Pierre Darroussin, che le farà da saldo compagno per gran parte dell’esistenza): il marito prima, il figlio dopo, che letteralmente l’abbandonerà nonostante un carteggio che richiede continui prestiti di denaro. 
L’umiltà della messa in scena, a distanza ridottissima dell’occhio incollato sul volto, sulle mani, sul collo, sui corpi; il pathos che percorre le vie sottili della narrazione, sempre distanti da qualsivoglia forma di spettacolarizzazione; la pellicola impressionata di vibrazioni cromatiche sempre percorse dalle diramazioni di una luce gentile, che getta un manto di umanità sulle cose e sulle persone con preciso rigore: c’è tutto, in una partitura omogenea, senza mai uscire da una mono-nota che, infine, rappresenta il pregio e (potrebbe rappresentare) il difetto insieme dell’opera. La citazione pedissequa posta a conclusione, certo, potrebbe suonare didascalica, perché in sé il film esplicita, fosse anche stato scarnificato ulteriormente di dialoghi, il suo senso universale e non soggetto a fraintendimenti, ovvero quanto une vie sia trasportata dalle correnti, dagli stravolgimenti del fato, dai lampi di luce, dal bene, una volta ogni tanto. 
Une Vie, in concorso a Venezia, conferma le doti tutte francesi di Brizé, che s’inserisce di diritto tra le voci più coerenti e interessanti del panorama cinematografico attuale. 

Laura Delle Vedove

Sezioni di riferimento: Festival Venezia, Film al cinema


Scheda tecnica
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Regia: Stephane Brizé
Sceneggiatura: Stéphane Brizé, Florence Vignon
Attori principali: Judith Chemla, Swann Arlaud, Yolande Moreau, Jean-Pierre Darroussin
Fotografia: Antoine Hébérle
Anno: 2016
Durata: 119’

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VENEZIA 73 - Spira Mirabilis, di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti

6/9/2016

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Essere immortale è cosa da poco: tranne l’uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte; la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali.

(L’immortale, Jorge Luis Borges)

L’eterna meraviglia del creato, l’innocenza delle sue creature, che vivono nell’inconsapevolezza della mortalità della vita, della sua finitezza, e per questo, forse, hanno un’esistenza più serena. Al contrario, l’uomo ha il dono della ragione, sin dalla sua nascita ha coscienza della morte, probabilmente unica certezza. Eppure, l’affanno e lo spasmo della ricerca verso l’immortalità è una tensione che l’umanità rincorre, sin dai suoi albori, in un modo o nell’altro; la spinta ad andare oltre la compiutezza di un percorso segnato è il sogno dell’uomo. Una spirale che, con movimenti elicoidali, gira su stessa alla ricerca di un centro senza mai trovarlo; eppure continua il suo movimento, ora lento, ora più frenetico; così la vita segna il ritmo di questa ossessione verso l’immortalità. 
Spira Mirabilis, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, è stato presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, giunta alla sua settantatreesima edizione. Lo spazio filmico è quello della spirale e prende ispirazione per il suo titolo dalla spirale meravigliosa del matematico Jakob Bernoulli, una curva logaritmica che, seppur crescendo, non cambia mai la propria forma e non raggiunge mai il suo polo, rimanendo, pertanto, senza fine e senza origine. 
La natura è piena di curve spiraliformi, basti pensare alle galassie o ad alcune conchiglie, curve in continua evoluzione ma senza contrasti, che scorrono fluide nel loro divenire, nel loro prendere forma. La struttura narrativa di quest’ultima opera del duo D’Anolfi/Parenti è suddivisa in quattro capitoli, ognuno dei quali rappresenta uno degli elementi naturali, terra, acqua, fuoco e aria, che si sovrappongono, in una lenta evoluzione della materia e della sua creazione. Sullo sfondo il lavoro dell’uomo, che assembla, costruisce, crea, forgia la materia e ad essa unisce la spiritualità. 
Dalle rocce di marmo prendono forma le statue angelicate che dalla terra sembrano levarsi verso il cielo, avvolte di luce, esse stesse parte di una natura matrigna buona e consolatoria, immerse tra gli alberi. Il biologo giapponese Shin Kubota racconta delle meduse, in grado di rigenerarsi, immortali per loro natura, sottratte alle leggi della natura nel loro ambiente, l’acqua. Il fuoco è invece rappresentato dalla lotta della tribù dei Lakota per la sopravvivenza, minacciati, sterminati e massacrati nel continuo conflitto con l’uomo bianco.
​La fabbricazione di alcuni strumenti musicali accompagna tutto lo scorrere del film: modellati da mani esperte, compongono una sinfonia che raggiunge il suo lirismo più alto quando la musicalità culla il sonno e la veglia dei bambini, nati prematuramente, nelle incubatrici, perché forse la meraviglia della vita, seppur finita e mortale, risiede proprio nel miracolo della sua continua rinnovazione, nel vagito di una nuova creatura venuta al mondo. L’opera di D’Anolfi e Parenti è un battito d’ali in cui la poetica di fondo si rivolge direttamente al cuore dello spettatore, ricercando l’oltre, attraverso un complesso incastro narrativo e il concatenarsi dei quattro momenti, nel suo continuo divenire.
Il film è la messa in scena di un poema che è elogio della vita, della sua capacità di rigenerarsi nel tentativo di raggiungere l’immortalità, dove l’infinito assume diverse forme, spirituali e materiche, vincendo l’erosione del tempo, creando lirismi nella quotidianità, plasmando materie che sono cibo per l’anima, smarrendo lo sguardo dietro la corsa di un cavallo, tra i tentacoli di esseri minuscoli e fluttuanti, confondendosi nella voce di Marina Vlady che recita Borges e il suo Immortale, in un teatro che è ovunque, allo stesso tempo realtà e assenza di essa, perché così “accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale” (Jorge Luis Borges). 

Mariangela Sansone 

Sezione di riferimento: Festival Venezia


Scheda tecnica

Regia: Massimo D'Anolfi, Martina Parenti
Cast: Marina Vlady, Leola One Feather, Felix Rohner & Sabina Schärer, Shin Kubota.
Fotografia: Massimo D'Anolfi
Montaggio: Massimo D'Anolfi, Martina Parenti
Musica: Massimo Mariani
Anno: 2016
Durata: 121'

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VENEZIA 73 - Monte, di Amir Naderi

6/9/2016

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​Un titolo, una (la) materia, a devastare e schiacciare come un muro castrante il film più compatto e catartico di questa edizione della Mostra di Venezia. Un nome, Amir Naderi, e il suo film, Monte, scandalosamente inserito fuori concorso, conquistano gli occhi stanchi da accumulamento narrativo, assurgendo a soggetto una narrazione elementare, asciutta, fatta di iati e fulgidi campi impressionati, lì a dimostrare come il Cinema si faccia con gli istanti, depurando la scrittura di complessità e vezzi, nella riduzione all’osso che beneficia del suo significare tutto e nulla, divaricandosi in visioni molteplici su potenziali letture. 
Qui è la natura in un panismo regressivo, che retrocede dalla comunione all’isolamento, all’impotenza nei confronti della disumanità derubante della divisione montuosa che, barriera innocente eppure presenza maledetta e scarnificante, diventa più di un luogo, di uno spazio mentale: è un pedale affinché subentri il rinnovamento umano, valvola in virtù della lotta, neppure solo per la sopravvivenza, ma per l’autodeterminazione, la purificazione da un marchio isolante di morte.
Senza determinazione spazio-temporale, in un limbo desertico, questo passo a tre estremo e teatrale nello spazio unico e asfissiante, nel verbo che retrocederà all’urlo, inquadra una comunità medievale relegata al di là di una roccia dolomitica parietale e dominante, offuscata dall’incombenza nefasta del buio. Lo sguardo si stringe attorno a una triade familiare indisposta ad abbandonare il proprio lembo di terreno e, insieme ad esso, le croci lignee degli antenati progressivamente deceduti. 
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Naderi consuma la sua passione che si spoglia atea localizzandola nel nucleo tripartito di madre, padre e figlio, demonizzati dal villaggio poco distante e rinchiusi nella propria impossibilità di distaccarsi dal grembo fangoso, pietroso di un costone: quello del monte, che assale lo sguardo ergendosi imponente, divorando lo schermo in un continuum di lenta esegesi che impedisce ogni tentativo accennato di vivere anche di soli stenti. Il pellegrinaggio solitario del padre assunto a lebbroso nel borgo poco più a valle, ingannato per un servigio manuale di poco conto, accusato d’aver rubato la spilla della moglie che invano tentava di vendere; infine, la scomparsa momentanea del giovane e della donna, pedana strutturale che introduce alla deriva psico-fisica (eppure non motoria) dell’uomo, ridotto a dover aggredire a sua volta una natura intransigente e spietata che, per limitazione millenaria e soggezione spirituale, non può abbandonare. 
Prende inizio, nei cristalli neri e a vivo fuoco del regista, uno scontro esistenziale impari, con il ritmo alternato di urla e scalpitio dei martelli che sfrecciano sul versante roccioso, tra ferite e usure stimmatiche, impasti fangosi e saliva curativa, degenerazione fisionomica di volti usurpati dalle atrocità della fatica e dai passaggi di tempo indecisi (sottolineati da iati irrealisti, che sfregiano la coerenza temporale, lasciando il campo alla sensazione metafisica di un trascorrere immanente e atemporale). 
Naderi nutre di sguardi attoniti e al contempo attraenti, marchiati da una fotografia cangiante, impegnata a virare, a farsi ora sovraesposta, ora chiaroscurale, satura e infine ferrigna, oscillando furiosamente tra un regime e l’altro, catturando(si) nella significazione cromatica che esplode sul finale solare, in diapositive di un sole-cerchio prima sbiadito, cinereo, poi fulgido, e fisso, a lentamente salire verso l’annientamento visivo, conquista di una battaglia terminata e debellamento di una maledizione pagana (e ancora emotiva e corporale) che si nutriva di assenza di luce e di scopo.
L’asciuttezza di Naderi è coincisa e calibrata, in un’opera che letteralmente s’incaglia sulla reiterazione e sull’alternanza motoria di gemiti e picconate sulla roccia, riuscendo eppure a incatenare l’attenzione, valicando la tensione per sconfinare nel sentire empatico della sofferenza, in un’escalation conscia della necessità drammatica, senza mai deviare verso una spettacolarizzazione gratuita. Si è accompagnati in un esorcismo totale e per questo aperto a qualsiasi intima e privata sentenza di senso ad esso si voglia apporre, nella vittoria eclatante della semplicità di messa in scena e discorso. Un esempio di cinema radicale e mai ammiccante o ricattatorio. 
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Naderi non firma il suo miglior film, ma continua a dimostrarsi baluardo contemporaneo della cinematografia iraniana, girovago e appassionato, a dividere le riprese tra Stati Uniti, Francia e Italia (soprattutto, tra l’Alto Adige e le catene dolomitiche friulane) rallentato da difficoltà produttive, senza che l’omogeneità e la pregevolezza del progetto ne venisse, infine, inficiata. Non si priva nemmeno di difetti e refusi grammaticali, Naderi: basterebbe sottolineare il doppiaggio (tutto italiano) francamente discordante e fittizio a ricordare certe postille del cinema del passato, qualche effetto ralenti affaticante ed estetismo di troppo, o il divario straniante (forse sbagliato, forse no) della frana conclusiva – che rigenera e squarcia il lembo morto sulla luce accecante della palla solare – che, volutamente o meno, sembra strappata a improvvise immagini di repertorio selezionate per necessità e limitazione dei mezzi. La battaglia ha fine con l’apparizione del sole totale, nemmeno tra gli anfratti rocciosi: assoluta, a schermo intero, senza mezzi termini. 
Naderi depura l’affresco anche da un discorso religioso drastico, lasciandone un solo vago abbozzo (di rinnego, repulsione, rassegnazione dinanzi a quel “miracolo” aspettato e mai fattosi che ha visto davanti a sé un’intera genealogia deperire al di là della montagna), perché si vuole essenziale, per procedere a uno svuotamento di senso reclamato che è comunque impugnatura significante che non occlude la visione: si direbbe, al di là dell’insensatezza della lotta, della ragione perduta e degli iati troppo evidenti per non esser consapevoli, che Naderi scelga il vuoto, la rabbia illogica, la cecità ancestrale dell’ignoranza dei mezzi, della povertà sociale che contrasta con il rifiorire di quella emozionale, a stridere nell’assurdità del vuoto cosciente. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Festival Venezia


Scheda tecnica

Titolo: Monte
Regia: Amir Naderi
Sceneggiatura: Amir Naderi
Attori principali: Andrea Sartoretti, Claudia Potenza, Zac Zanghellini 
Fotografia: Roberto Cimatti
Anno: 2016
Durata: 90'
Uscita italiana: 24 novembre 2016

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VENEZIA 73 - Arrival, di Denis Villeneuve

3/9/2016

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​Era forse questione di tempo affinché il canadese Villeneuve approcciasse il genere fantascientifico, limbo largamente esplorato e che sempre incontra ostacoli nell’aprirsi obbligato alle porte della filosofia e della para-scienza. 
Denis Villeneuve, che nel 2010 approdava a Venezia con La donna che canta, presenta in concorso il suo Arrival, personale sguardo sul soggetto pluri-sfruttato dello sbarco alieno sulla terra, non rinunciando a una classe registica che pare ormai aspettativa dovuta nel guardare al suo cinema. Il pretesto di base è congeniale e saldo: lo sbarco di dodici navicelle ovali su differenti aree terrestri coinvolge i massimi sistemi del pianeta e porta l'esperta linguista Louise Banks (Amy Adams) e lo scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner) ad essere protagonisti (commissionati e volontari al contempo) dell’impresa di decifrarne le intenzioni e, di conseguenza, il linguaggio. 
Quella di Villeneuve è una precisa indagine sulla natura dei rapporti tra ogni forma di vita esistente contemplando l’idea, a dir la verità per nulla originale, che “gli intrusi speciali” non giungano nemici ma che presentino, nella loro sagoma di novità “altra”, una predisposizione alla comunicazione pacifica e conciliante e, soprattutto, una modalità intrinseca aperta al dono, laddove il feedback di rimando è meta auspicata e base imprescindibile per ogni sistema di contrattazione valida. 
Con lo stile che lo contraddistingue, col motore sciolto dei suoi lenti movimenti di macchina, Villeneuve divarica la prospettiva umana su esseri alieni che sopraggiungono mastodontici ed affascinanti, in un’atmosfera che ricalca volentieri funambolismi horror (non a caso il soggetto è di Eric Heisserer, già alle prese con i remake di Craven e di Carpenter): l’addentrarsi degli impavidi addetti nell’incognita navicella, abilmente sottolineata da un sonoro funzionale e mai impertinente, è essenzialmente un’encomiabile lezione su come rielaborare reminiscenze del cinema del passato con infinita eleganza. 
​
Villeneuve tiene le redini di una narrazione lineare e spedita, intelligentemente abbracciata a dinamiche tensive che mai subiscono rovinosi cali, mentre il mondo scalpita per riconoscere l’identità degli sconosciuti, incappando in errori di diplomazia internazionale che però l'autore finisce per banalizzare eccessivamente (i cinesi guerrafondai? Ovviamente), risolvendoli con sospetta elementarità. Appare chiara l’impronta tutta esistenziale e solo marginalmente scientifica dell’esperimento cinematografico, quando a far da padrona è la rilevanza del linguaggio che esso solo può essere massima arma e strumento di vicinanza al contempo, là dove esseri a forma di polipo non desiderano altro che trasmettere la loro avanzata tecnologia e fondamenta linguistiche raffinatissime che l’uomo, di sovente, decide di interpretare come una chiamata alle armi, a ricordarci come il terrore della diversità sia leitmotif transgenerazionale (in questo caso, universale). 
Il discorso fantascientifico funziona, ma risuona poco verticale, in quanto sceglie di raccontare con profondità media e privilegiando la forma al contenuto - che è, infine, solo parzialmente elaborato e sviscerato. L’eterno ritorno in versione ottimista, parrebbe, dove il tempo è, ancora una volta, ciclico (così come è circolare e filiforme ogni ideogramma della nuova esperienza linguistica) e tutto ciò che ha fine ha contemporaneamente anche inizio: a evidenziarlo i flashback che si scoprono flash forward (questo, infine, il twist di Arrival) di una madre devastata dalla perdita della figlia e che, tramite la collisione amichevole degli extra-terrestri, impara una preveggenza da interiorizzare, mentre il film si arrotola e si srotola con una limpidità di superficie apprezzabile e, al contempo, imbarazzante. 
I quadri si aprono su tetti estetici calibratissimi e levigati, verniciati di una glacialità asettica che impedisce volutamente ogni impronta empatica. Piacere del racconto, quest’opera che mai denuncia una fatica di costruzione. Eppure, fa presto capolinea il dubbio, già quasi certezza, che sia lecito, per l’occhio svezzato, desiderare e pretendere di più dal gioco fantascientifico potenziale. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Festival Venezia


Scheda tecnica
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Titolo originale: Arrival
Regia: Denis Villeneuve
Sceneggiatura: Eric Heisserer (dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang)
Interpreti principali: Amy Adams, Jeremy Renner, Forest Whitaker, Michael Stuhlbarg
Musiche: Johan Johannsonn
Fotografia: Bradford Young
Anno: 2016
Durata: 116'

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VENEZIA 73 - La La Land, di Damien Chazelle

2/9/2016

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​A inaugurare l'edizione 73 della Mostra del Cinema di Venezia, un genere che da molti anni è reticente a manipolazioni estreme e che incontra spesso una difficoltà di aggiornamento: il musical. Sceglie di farlo il Damien Chazelle già conosciuto ai più per il suo Whiplash, che in effetti isolava il tema come ambito privilegiato del regista: la musica. In questo senso, la materia viene qui assunta non più come spazio attorno al quale orchestrare una storia di iniziazione alla vita e alla disciplina, ma come metodo e impianto narrativo e scenografico. 
Perciò, Chazelle intraprende la strada verso una sua personale codifica del genere agendo, forse, nella maniera più intelligente possibile: depurandolo dalle contaminazioni più evidenti che esso aveva incontrato proprio nel momento in cui l’oro della vecchia Hollywood cedeva il passo a versioni meno disincantate e spurie. Decide, per fortuna, di imbastire una struttura narrativamente classica, riportandolo a una stesura incontaminata, quella della surrealtà di Minnelli e dello spazio armonico del ballo della Rogers e di Astaire: unico luogo ove il romantico può ancora conservare la sua natura inviolata e condurre a un incontro tra quel che ancora rimane (e deve rimanere) dei mondi interiori.
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In questo contesto, prende vita l’incontro fortunato tra due outsider ambiziosi, Mia e Sebastian: la prima, non proprio memore di un’adolescenza passata a scrivere i propri drammi, tenta, scalpitando, la strada della recitazione nella Los Angeles più intransigente, mentre il lavoro nella caffetteria a ridosso degli Studios pare ingabbiarla in un destino a senso unico; il secondo, impugnando uno degli ultimi baluardi degli splendori dei locali jazz, è un pianista eccellente ma s’impegna a perdere ogni impiego che trova per onestà e passione nei confronti di un free jazz che, sembrerebbe, a più nessuno interessa. 
I giochi son presto fatti: la caparbietà della prima e il tradizionalismo intatto del secondo devono incontrarsi. Ne nasce un variopinto incrocio di sogni e divagazioni fantastiche che mai abbandona, però, la realtà in favore dei primi, proseguendo verso una fusione equilibrata dei due. Memore della lezione minnelliana, Chazelle sfonda le porte del tangibile per inserire sprazzi di splendore a occhi aperti, laddove la conoscenza dei due futuri amanti viene condotta all’insegna del valzer e del tip tap e di caparbie note di pianoforte a coda, entrambi strumenti drammatici sapientemente utilizzati che fanno della musica comunicazione, scambio, linfonodo esistenziale per una tangenza dei corpi e delle aspirazioni. 
L'autore, nel suo La La Land, si stringe attorno ai desideri mai vituperati, a compilare un manuale sul perseguimento dei propri orizzonti più sperati, staccando mai la spina dalla loro incorruttibilità inscindibile, insistendo sulla loro necessità d’esser integrali, mai decomposti e compromessi. Sebastian è, in questo senso, la chiave più sincera attraverso la quale osservare l’opera: di un conservatorismo mai abbandonato è essenziale nutrirsi, mai venendo meno ad esso, perché il costume è mutevole, ma niente muore e tutto si rigenera; anzi, insieme al cinema, caposaldo residuo d’un epoca in cui tutto si consuma a casa propria, la forma della musica  si evolve, ma ad essa rimarrà sempre incollato uno spazio nostalgico per le costruzioni primordiali, per i primi passi di ogni genere che di moda può passare ma che non smetterà mai di piacere. 
​
Eppure, Chazelle, in maniera eterogenea e, forse, inaspettata, è conscio di quanto una patina totalmente naif possa, all’occhio svezzato di chi guarda, stridere e poco placare i tremori delle anime turbolente; sembra ricordare un altro finale di quello che non fu di certo musical, ma che nella dolceamara fine di un amore aveva trovato il suo più legittimo compimento.  Sembra finire tutto alla maniera di New York, New York, quando Scorsese, in anni più sospetti, considerava l’incontro tra anime poco gemelle e di certo non destinate a un’esistenza insieme l’unica via possibile a un compimento futuro del proprio artistico bramare: l’unione è terminale ma propedeutica a una realizzazione sincera e soddisfatta della propria condizione. 
Perciò, presto si capisce, per Mia (Emma Stone) e Sebastian (Ryan Gosling) il volteggiare al Griffith Park (incantevole esempio di astrazione sospesa e del librarsi interiore verso la costellazione del proprio amore) avrà un termine, ma sarà sufficiente, fondamentale, affinché entrambi possano (perché devono) cicatrizzare le disillusioni del passato per imparare che credere (a quel che non si vede, che sta dentro) è il pegno di ogni fine e di ogni inizio. 
Con Chazelle è bello poter dire nuovamente, e finalmente, che l’happy ending è tale, anche quando vi è una derivazione mancata, una distanza, una rottura; che forse, soprattutto, fare man bassa di Cinemascope e di colori, seppur con il freno a mano su qualche virtuosismo di troppo dell’opera precedente, può non essere stucchevole; che al cinema è ancora consentito sognare senza rinunciare al dolore, mentre ogni fitta è valvola per elevare il proprio finale; che la finzione censura dal tonfo letale ma deve decidere, ancora, di farcelo vedere. 
Chazelle non inventa nulla. Recupera, pacato, poco resistendo al divertissement registico, immaginari variegati altrove visti riuscendo a non cadere scontato in virgole di troppo. Fa di più: ci regala un “what if” conclusivo gestito egregiamente, ancora una volta tramite un missaggio sonoro encomiabile, fiore all’occhiello dell’opera, palpebra sollevata sull’intramontabile speranza dei nostri sogni. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Festival di Venezia


Scheda tecnica

Ttolo originale: La La Land
Regia: Damien Chazelle
Sceneggiatura: Damien Chazelle
Interpreti principali: Emma Stone, Ryan Gosling, Finn Wittrock, J.K. Simmons
Musiche: Justin Hurwitz
Fotografia: Linus Sandgren
Durata: 126’
​Uscita italiana: 26 gennaio 2017

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    ​VENEZIA 73

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    Categorie

    Tutti
    Amir Naderi
    Amy Adams
    Arrival
    Cate Blanchett
    Damien Chazelle
    Denis Villeneuve
    Emma Stone
    Jackie
    Jean-pierre Darroussin
    Jeremy Renner
    Juan Sebastian Mesa
    La La Land
    Lav Diaz
    Los Nadie
    Marco Bellocchio
    Natalie Portman
    Pablo Larrain
    Palmarès Venezia 73
    Programma Ufficiale
    Raul Arevalo
    Ryan Gosling
    Spira Mirabilis
    Stéphane Brizé
    Tarde Para La Ira
    Terrence Malick
    The Woman Who Left
    Une Vie
    Yolande Moreau

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