ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
  • HOME
  • REDAZIONE
  • LA VIE EN ROSE
  • FILM USCITI AL CINEMA
  • EUROCINEMA
  • CINEMA DAL MONDO
  • INTO THE PIT
  • VINTAGE COLLECTION
  • REVIVAL 60/70/80
  • ITALIA: TERZA VISIONE
  • AMERICA OGGI
  • ANIMAZIONE
  • TORINO FILM FESTIVAL
    • TORINO 31
    • TORINO 32
    • TORINO 33
    • TORINO 34-36-37
  • LOCARNO
    • LOCARNO 66-67-68
    • LOCARNO 69
    • LOCARNO 72-74-75-76-77
  • CANNES
    • CANNES 66
    • CANNES 67
    • CANNES 68
    • CANNES 69
  • VENEZIA
  • ALTRI FESTIVAL
  • SEZIONI VARIE
    • FILM IN TELEVISIONE
    • EXTRA
    • INTERVISTE
    • NEWS
    • ENGLISH/FRANÇAIS
  • SPECIAL WERNER HERZOG
  • SPECIAL ROMAN POLANSKI
  • ARCHIVIO DEI FILM RECENSITI
  • CONTATTI

IL WEST DI COLIZZI - La nascita di Spencer & Hill

6/11/2015

0 Comments

 
Immagine
​Cercate di immaginare l’apporto, la visione, anzi il tratteggio, di ogni regista che si è affacciato al western in questo paese, come l’aggiunta di un pannello su un lungo fumetto. Schizzi e immagini che raccontano, con violenza iperbolica e respiro ampio un’unica epopea. Pensate al western italico come una tela schizzata di vernice, pennellate larghe e decise che si sovrappongono creando voragini confuse e contorte ma al contempo, in altri punti, lasciando che il bianco respiri recintato intorno a ruscelli infiammati d’arancione e fiumi rosso porpora. 
Fate girare in un unico vortice ogni volto rugoso, ogni vecchio caratterista, ogni eroe – che indossi un poncho e che sia di nero vestito, che nasconda mitragliatici in bare fangose, che sia cieco, sfregiato, doppiogiochista o semplicemente in cerca di vendetta, che provenga dal lido di Ostia o dagli studi di qualche major americana, che si muova tra gli abeti di Manziana o che cavalchi tra i sentieri d’Almería. L’ironia strisciante che diviene stridente umorismo, l’opulenza di scenografie gonfie di barocchismi che lasciano il passo al fascino della decadenza, la semplicità delle idee, le dichiarazioni di guerra alla censura, la politica che si insinua tra le tende bordeaux di saloon solo all’apparenza appartenenti a terre lontane. 
Storie italiane raccontate sotto un cielo di stelle e di strisce, metafore di piombo e il furore di lotte capaci di unirsi in un unico sentimento. L’idea di un West gerarchico, di maestri e pupilli, è oltrepassata, polverosa, appartenente, per lo più, a una critica di cui sopravvive solo qualche tomo e dizionario da mercatino, per collezionisti nostalgici. Anche quando la nostra industria cinematografica stava mostrando tutto il suo potere distruttivo e la sua capacità di autocannibalismo il western ha continuato a essere, a modo suo, lo specchio del proprio paese. 

In questo spicchio di Italia: Terza Visione non verrà trattato l’avvilimento del western italiano, ma rimarremo con gli stivali saldi nel cuore pulsante della grande fase del western italico. Una breve ma intensa finestra in cui, protetti da capisaldi narrativi consegnati loro da Leone, nuovi registi erano nella posizione di poter stravolgere le regole, ricercare nuovi modelli e battere piste ancora inesplorate. 
Nel 1967, quindi, siamo ancora nell’epoca d’oro ed è un’annata straordinaria: avviene l’esordio nel genere di Petroni con Da uomo a uomo, escono le seconde pellicole di Sollima (Faccia a Faccia) e Valerii (I giorni dell’ira), è l’anno di Navajo Joe di Corbucci e di Professionisti per un massacro di Cicero, è l’anno di Dio perdona… io no!. Il western per molti attori e registi è stato quello che si può definire un lux cuniculum, utile tanto per rigenerare una carriera traballante quanto per farla iniziare. Da Clint Eastwood a Charles Bronson, da Joseph Cotten a Lee Van Cleef, tanti ne hanno tratto benefici. 
Con Dio perdona…io no! non abbiamo solo il debutto del suo autore e il primo capitolo di una trilogia (composta oltre che dal già citato film anche da I quattro dell’Ave Maria – 1968 e La collina degli stivali – 1969) tra le più note del western tricolore, ma un film che mette i presupposti e getta le coordinate per la creazione di una delle coppie più importanti del cinema europeo. Nell’universo di Colizzi Terence Hill e Bud Spencer, infatti, non si possono ancora considerare una coppia in senso stretto. Sicuramente si notano suggestioni nelle atmosfere e fugaci premonizioni negli scambi tra i due attori, ma l’idea di coppia rimane inespressa: le storie sono corali, soprattutto nel caso dei successivi due titoli, e le personalità dei loro personaggi sono ancora troppo ancorate a un immaginario classico, così come il contesto in cui si muovono è ancora troppo ombroso e pervaso da una violenza strisciante per far sì che questi tre titoli si possano considerare dei “Hill & Spencer movies” puri. Ciononostante sono l’inizio di tutto. 

Paradossalmente Dio perdona… io no! è il film in cui i due più duettano mentre è al contempo, della trilogia, la pellicola che più si allontana dalle atmosfere brillanti che contraddistingueranno la coppia.  L’incipit è incredibilmente suggestivo e ben prepara lo spettatore a quel che verrà: un treno che solca terre brulle e polverose, una stazione ferroviaria di un piccolo paesello imbandito a festa, un comitato di benvenuto in trepidante attesa, il convoglio che lentamente si ferma. Uno strano quanto inquietante silenzio e poi la scoperta dei cadaveri che inermi riempiono i vagoni. 
La sceneggiatura continua il processo di destrutturalizzazione dei tòpoi americani iniziata da Leone: Hutch “Earp” Bessy (Spencer), un agente assicurativo sui generis, Cat “Doc” Stevens (Hill), un pistolero di poche parole, e un bandito senza scrupoli creduto inizialmente morto, Bill Sant'Antonio (Frank Wolff), sono la triade che ruota intorno a una partita d’oro del valore di 300.000 dollari. Tra doppi giochi, bluff, inseguimenti, tranelli e depistaggi i tre si ritroveranno a confrontarsi in un lungo e sospirato duello finale in cui tutti i nodi verranno al pettine e in cui tra silenzi dilatati su un mosaico di sguardi, striato dalle note di Carlo Rustichelli, ognuno avrà quel che si merita.
Colizzi, precedentemente al film, era considerato una sorta di “tuttofare di Cinecittà”. Sulle scene dal 1948, inizia a muovere i primi passi grazie allo zio Luigi Zampa prima come aiuto regista e poi come direttore di produzione. Quest’ultima veste sarà quella che Colizzi ricoprirà maggiormente fino agli anni Sessanta, accumulando nel mentre anche esperienze come sceneggiatore per poi diventare produttore, inizialmente tramite la Crono Film. Manolo Bolognini, amico di vecchia data di Colizzi, ricorda che “[…] per una storia d’amore era andato via dall’Italia, e quando tornò lo feci lavorare alla Zebra Film di Moris Ergas. Poi lui produsse un film che andò malissimo con Ugo Gregoretti, Omicron. Fui io a spingerlo a fare un western per rimettersi a posto. Ricordo che fu mio fratello Mauro che si inventò il titolo”. 
​
Forse memore di questo suggerimento Colizzi, nel 1966, decide di immergersi nel genere proponendosi come assistente alla regia e al montaggio per Il buono, il brutto, il cattivo di Leone. Esperienza che plasmerà imprescindibilmente il suo approccio registico tanto sul piano ritmico quanto su quello estetico. Infatti Dio perdona… io no! è derivativo, a tratti persino imitatorio dell’impronta “leoniana”. I tempi dilatati allo stremo, l’utilizzo dei campi lunghi alternati a improvvisi primissimi piani, un certo gusto per la violenza. Persino l’istrionismo crudele di Frank Wolff non può non ricordare quello di Volontè in Per qualche dollaro in più. Anche nella costruzione del personaggio di Hill, ancora lontano dal trovare la cifra che lo contraddistinguerà, il modello è quello dello straniero di Eastwood. Girotti però, va ricordato, nel film ci è finito quasi per caso. 
Il film, il cui titolo originario era Il gatto, il cane e la volpe, inizialmente doveva essere prodotto da Fulvio Lucisano con la regia di Gianni Proia. Nella primissima fase di preparazione Colizzi, che deteneva una quota produttiva del film, scalza Proia. Dopo una lite, per divergenze artistiche, Lucisano molla le redini permettendo a Colizzi di prendere totale possesso del progetto. Questa versione, che rimane la più diffusa e accreditata, cozza però con quella raccontata da Enzo D’Ambrosio, che invece sostiene che Proia fu chiamato da subito, in quanto vecchio amico di Colizzi, a collaborare alla sceneggiatura e che Lucisano abbandonò “pacificamente” perché non più interessato a produrre un western. 
Quel che è certo è che al fianco di Pedersoli, il primo a essere scelto, doveva esserci Peter Martell, alias Pietro Martellanza. La storia vuole che Martellanza, litigando con la sua compagna – venuta al corrente delle infedeltà di lui – si fosse rotto un piede, dando un calcio al letto, nella sua stanza del Grand Hotel. Secondo alcuni a rompersi fu la gamba, scivolando. Giorgio Ardisson sosteneva di essere stato il primo attore a essere preso in considerazione e che Martell fu scelto proprio in seguito al suo rifiuto. L’unica cosa certa è che da questo magma di coincidenze e casualità nasce un piccolo film, confuso e strampalato ma dall’indubbio fascino, che sbancò i botteghini.

Immagine
Nonostante le pesanti stroncature della critica, che sottolineava a più riprese la farraginosità della sceneggiatura vedendo nel film un eccessivo compiacimento nella violenza e un dilagante e bieco machismo, Dio perdona… io no! si rivela un incredibile e inaspettato successo economico. Non c’è da stupirsi quindi che Giuseppe Colizzi si metta quasi subito a lavorare su un seguito. Nell’anno che separa le due pellicole, il western continuava la sua ascesa. Certo, sotto la superficie già germinavano i virus che poi avrebbero fatto collassare un genere che sembrava non si sarebbe mai estinto. Con ogni stagione cinematografica il numero di film messi in produzione aumentava in maniera preoccupante, mentre i budget si prestavano lentamente a diminuire e il mercato iniziava gradualmente a contaminarsi di registi e attori con approcci e presenze del tutto derivativi, che nulla aggiungevano a quanto si era fatto e detto in passato. Ma gli effetti collaterali più beceri della devastante auto-cannibalizzazione ancora non si erano mostrati in tutta la loro distruttività. 

Arrivati a I quattro dell’Ave Maria, però, iniziava a insinuarsi in alcuni registi la consapevolezza che l’epopea western più mistica e sanguinosa potesse essere iniettata di un’ironia, elemento spesso presente nel genere, che si avvicinasse maggiormente alle dinamiche della commedia. Colizzi, inoltre, aveva avuto modo di constatare quanto la leggerezza di alcuni botta e risposta tra i due protagonisti nel film precedente fosse stata apprezzata dal pubblico. Insieme a …e per tetto un cielo di stelle di Petroni, anch’esso del ‘68, I quattro dell’Ave Maria porta questa combinazione a un livello precedentemente toccato assai di rado. Pur mantenendo un’indubbia epicità, il secondo capitolo di Colizzi si discosta dai toni cupi e violenti del primo film e da un’impalcatura stilistica smaccatamente riconducibile a Leone. 
Nonostante questo sostanziale cambio di registro, ne I quattro dell’Ave Maria la coppia viene diluita all’interno di un racconto più corale in cui incide, “dividendo” maggiormente i due, la presenza di un estroso Eli Wallach nei panni di un pistolero greco di nome Cacopulos, non dissimile caratterialmente al Tuco de Il buono, il brutto, il cattivo. Questo personaggio prende spesso il sopravvento diventando tra l’altro il cardine intorno a cui gira la storia. Cacopulos è un bandito da poco uscito di galera, dove ha scontato una lunga pena in seguito al tradimento di tre suoi compari. Smanioso di riprendere da dove ha lasciato, deruba due pistoleri, Cat e Hutch, dei loro soldi. I due, decisi a vendicarsi, si lanciano sulle sue tracce, ma il bandito veterano riesce sempre a dileguarsi. Cacopulos ha nel frattempo rintracciato Drake (il caratterista Kevin McCarthy, che non risulta un antagonista gustoso come quello di Wolff), uno dei responsabili della sua condanna. I tre finiranno per allearsi e insieme a Thomas (un inedito Brock Peters), abile pistolero e funambolo, e mettersi contro Drake in un lungo quanto solenne duello finale. 

Terzo, ultimo e meno riuscito capitolo della trilogia, La collina degli stivali continua il trend iniziato con I quattro dell’Ave Maria. Quindi storia corale con massiccia presenza di attori americani, ritmo serrato e tono leggero all’interno di uno scheletro narrativo tradizionale. L’ironia è più controllata rispetto alla pellicola precedente anche per la mancanza di una presenza coinvolgente come Eli Wallach. Va inoltre fatta una considerazione riguardo agli sviluppi caratteriali dei personaggi di Spencer e Hill. Se il primo menzionato, nell’arco delle tre pellicole, si avvia progressivamente verso il Bambino di Enzo Barboni, Hill (ancora doppiato da Sergio Graziani) risulta pietrificato in un personaggio ancora distante da quello che lo renderà immortale, paralizzato tra un tentativo di replica della dinamicità di un Franco Nero e il magnetismo di un Clint Eastwood. Inoltre è interessante notare come nonostante ci si trovi al terzo film con i due attori e i precedenti due fossero andati così bene al botteghino, il binomio Terence Hill/Bud Spencer non sia sinonimo di successo. 
All’estero il materiale pubblicitario “vendeva”, come coppia del film, Hill e Woody Stroode, mentre il nome di Spencer appariva incastonato tra quelli di Lionel Stander e Victor Buono. La tagline inglese urla: “Death comes in two colours!” Nel cast è importante segnalare anche George Eastman/Luigi Montefiori ma soprattutto Glauco Onorato, voce storica di Spencer. Questa è la prima e unica volta che i due appaiono in un western insieme. La trama rompe completamente i ponti con il primo film e in maniera sostanziale anche con il secondo capitolo della trilogia. Il Bill Sant’Antonio di Frank Wolff è ormai un ricordo lontano, del Drake di Kevin McCarthy non si fa menzione e quando il film ha inizio i quattro pistoleri si sono già separati. 
Nonostante il film inizi con una partita a poker, la storia prende veramente il via solamente quando Cat viene assalito da un gruppo di banditi, mentre cerca di lasciare la cittadina in cui si trova. Ferito gravemente, riesce a trovare rifugio nella carovana di un circo itinerante. I membri del circo se ne prendono cura e Cat fa la conoscenza, tra gli altri, di Thomas (Stroode, che nonostante le differenze è palesemente nei panni che furono di Brock Peters ne I quattro dell'Ave Maria, tanto più che durante l’incontro tra Thomas e Hutch, quest’ultimo sembra conoscerlo già), un acrobata e pistolero che dopo averlo visto intuisce immediatamente che la carovana dei circensi potrebbe essere in pericolo. 
Questo l’incipit del film che, come gran parte delle scene acrobatiche nel circo, è stato girato da Romolo Guerrieri. Guerrieri fu mandato via, “inelegantemente”, come ricorda Manolo Bolognini, da Bino Cicogna. Quindi Colizzi subentrò solo in un secondo momento, così come accadde per Spencer, che infatti non ricorda la presenza di Guerrieri sul set. Poco importa lo sfruttamento eccessivo di acrobazie circensi, la farraginosa sovrapposizione di cifre stilistiche stridenti e una sceneggiatura dal retrogusto episodistico: La collina è il terzo blocco nella costruzione di una leggenda.  

Eugenio Ercolani   

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titoli originali: Dio perdona…io no!; I quattro dell’Ave Maria; La collina degli stivali 
Anni: 1967-1968-1969
Regia: Giuseppe Colizzi 
Sceneggiatura: Giuseppe Colizzi, Bino Cicogna
Fotografia: Alfio Contini; Marcello Masciocchi 
Musiche: Carlo Rustichelli 
Durate: 109 min; 132 min; 87 min 
Attori principali: Terence Hill (Mario Girotti); Bud Spencer (Carlo Piedersoli); Frank Wolff; Eli Wallach; Brock Peters

0 Comments

WILD BEASTS - Belve feroci

13/7/2015

0 Comments

 
Immagine
Aria pesante, densa e viziata, che si innalza dall’asfalto umido e vischioso, dai nauseanti secchioni stracolmi dei nostri scarti putrescenti, che si mischia con i vapori che fuoriescono da grate e tombini, che si insinua e si fa strada tra gli aghi opachi delle siringhe che costellano il volto butterato dei marciapiedi; il tutto avvolto dall’oscurità del linoleum glassato che è la notte, avvinghiante e viscida.  
Wild Beasts – Belve Feroci è, concettualmente, incastonato lì dove l’aforista-scrittore Ambrose Bierce racconta si trovi l’epidermide: immediatamente al di sopra della pelle e appena al di sotto del sudiciume. Certamente i toni pre-apocalittici, la vena documentaristica e dunque ruvida e l’umore decadente sono cosa voluta, come dimostra il montaggio d’apertura, che descrive l'inquinamento delle città tra fumi tossici, acque sporche e montagne d’immondizia; ma non è certo questo genere di retorica a rendere Wild Beasts così maledettamente affascinante. Il film di Franco Prosperi (l’unico titolo di pura fiction della sua filmografia) è, infatti, il trionfo di una sporcizia tanto voluta quanto fuori controllo, la poetica del lurido, l’apoteosi dell’urbana e cinematografica decadenza senza tempo ma indissolubilmente legata al suo decennio. 
Il neon lampeggia, riflettendosi su chiazze d’acqua stagnante, al ritmo degli anni Ottanta. Il film, in tal senso, ha la stessa carica morbosa e lo stesso generale squallore di uno dei nostri pionieristici porno. Un Alexandre Borsky più sgranato, più buio, in esterna e con un ghepardo al posto di Mark Shannon. Perfetta, in quest’ottica, la scelta di un’attrice come Lorraine De Selle (La casa sperduta nel parco, Cannibal Ferox, Violenza in un carcere femminile), il volto pruriginoso della borghesia, la malizia decadente della donna perbene. La sovrapposizione tra l’horror di Prosperi e un hard di Massaccesi non è così azzardata quanto potrebbe sembrare: la matrice è analoga, la morbosità simile e tutti e due – per loro stessa natura – hanno assorbito il proprio decennio come una spugna.      

La vicenda del film germoglia tra le gabbie dello zoo comunale di un’imprecisata città tedesca, affidato alle cure di un efficiente veterinario, Rupert (John Aldrich, pseudonimo di un italiano, come ricorda intervistato lo stesso Prosperi, di cui non ricorda il vero nome), di cui è innamorata un’avvenente biologa e giornalista (la De Selle, il nome di punta del cast), madre della piccola Suzy. Una sera, improvvisamente, le belve sembrano impazzire: mura, cancelli, inferriate e guardiani dello zoo nulla possono contro la forza primordiale che spinge questi animali a evadere e inondare le strade della città. Tigri, elefanti, iene e felini di ogni genere seminano il panico. Pochi giorni prima una coppia, appartatasi in macchina, era stata assalita e orrendamente mutilata da un’orda di ratti fuoriusciti dalle tubature di scarico. 
Rupert cerca di individuare le cause dell'inesplicabile fenomeno. Lo aiuta nei suoi spostamenti l'ispettore di polizia Nat (il caratterista Ugo Bologna, nel ruolo più convincente). Nel mentre una centrale elettrica va in tilt generando un blackout che getta la città in un’oscurità ancor più nera; l’effetto domino di catastrofi non si fa attendere: un jumbo in fase di atterraggio impatta su tre elefanti che hanno invaso la pista d’atterraggio, la gente si tappa in casa mentre i pochi sventurati ancora in giro sono assaliti e straziati. Laura cerca di raggiungere la figlia, ma anche il metrò si blocca e tra i suoi meandri si aggira una tigre. Il grosso felino uccide un passeggero rimasto bloccato, mentre la donna si salva a stento, grazie all’intervento di Rupert. Quest’ultimo intanto, nel caos, è riuscito ad accertare la causa della tragedia abbattutasi sulla città. La radice di tutto sembra essere l’acqua bevuta dagli animali, contaminata da fenoli industriali, dai quali deriva il P.C.P, droga che scatena terribili effetti. Naturalmente a puntellare il finale troviamo un colpo di scena che non riveliamo, non dissimile a quello di un altro precedente film, per certi versi legato allo stesso filone, Il cibo degli dei (1976) di Bert I Gordon. 

Wild Beasts arriva in un momento particolarmente florido per il filone “animali assassini” made in Italy: basti pensare che lo stesso anno escono anche Shark – Rosso nell’oceano e l’imprescindibile Rats – Notte di terrore. Il film di Prosperi è però l’eco-vengeance italiano per antonomasia, in primis perché ha il primato di essere uno dei pochi esempi del filone che non si concentra su una specie o una tipologia animale specifica. L’unico altro titolo analogo è il Future animals (Day of the Animals, 1977) di William Gridler e, a voler essere generosi, lo splendido Frogs (1972) di George McCowan. 
Forse, mai come nel caso di questo eco-vengeance, il termine “eco” va ad assumere un significato così ampio. Tutto il microcosmo buio e denso descritto dal film sembra ribellarsi: la sporcizia e la stessa aria compromessa e inquinata sembrano volersi vendicare. L’istinto animale e il prodotto dell’uomo, la natura e l’artificiale, l’aria, lo smog, il buio sgranato: tutto sembra aggredire tanto i protagonisti quanto lo spettatore. 
Prosperi applica lo stesso modus operandi utilizzato nei “mondo movies” da lui diretti insieme a Gualtiero Jacopetti. La storia è scarna e la narrazione ridotta all’osso, i personaggi pochi e i protagonisti archetipi: questi elementi infatti sono più che altro un filo rosso, il collante per poter fissare insieme tutta una sequela di scene e momenti. A Prosperi, più che i colpi di scena, l’incedere della storia o il rapporto tra i personaggi, interessano le funzioni motorie degli animali (notevole la sequenza con l’auto inseguita dal ghepardo) e la messa in scena zoofila; l'autore finisce così per creare un film del tutto episodistico, che però – grazie all’atmosfera claustrofobica e al ristretto lasso di tempo in cui si svolge la storia – non risulta stridente o frastagliato. 
Una notte, una città, uno zoo: gli animali sono liberi. Per la sua compattezza il film di Prosperi sta all’eco-vengeance come Ultimo mondo cannibale di Ruggero Deodato sta al cannibalico: un caposaldo di cui non si può fare a meno, al di là del bene e del male. 

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Wild Beasts- Belve Feroci
Anno: 1984
Durata: 87'
Regista: Franco Prosperi
Sceneggiatori: Franco Prosperi, Antonio Accolla
Fotografia: Guglielmo Mancori
Musiche: Daniele Patucchi
Attori: Lorraine De Selle, John Aldrich,  Ugo Bologna

0 Comments

VENERE IN PELLICCIA - Il BDSM made in Italy

30/4/2015

0 Comments

 
Picture
Tentare di identificare, o ancor più mappare, le evoluzioni psicosessuali del popolo italiano – dalla fine dell’Ottocento a oggi – ci porterebbe ben al di fuori di quello di cui si vuole, e si dovrebbe, trattare in questa sede. Vorrebbe dire perdersi tra le sfuggenti mutevolezze di tabù in continuo e progressivo slittamento e l’immobilità delle leggi che li accompagnavano cristallizzate in perfetti, utopici, fiocchi di ipocrisia che inesorabilmente continuano a scendere su di noi. Tutto questo avvolto nell’immensa, oscura e barocca ombra dell’ultima opera di Michelangelo Buonarroti, simbolo di tutto quello che sessualmente più ci ha plasmato, traviato e infine deviato. 
Quello che di certo si può dire è che il BDSM non è mai stato parte integrante dell’immaginario collettivo erotico italiano, e questo lo si può vedere da quanto poco il cinema – da sempre manifestazione più immediata di mode ed evoluzioni – abbia trattato l’argomento ma soprattutto da come abbia, nella quasi totalità dei casi, usato questa corrente sessuale per scopi metaforici che ne snaturano la “filosofia” che la sorregge. Vale la pena soffermarci un attimo sul significato di questo, per molti criptico, acronimo.

Il BDSM identifica e definisce un insieme di pratiche relazionali e preferenze sessuali basate sulla dominazione e la sottomissione. Possiamo riunire queste pratiche in due macro-categorie. Bondage & Disciplina: il bondage comprende un elevato numero di pratiche che riguardano la costrizione fisica tramite corsetti, lacci, corde, manette, legature di vario genere e realizzate con vari materiali, bavagli, cappucci, imbracature e tutto quello che ridimensiona o impedisce la libertà fisica, non solo nel muoversi ma nel comunicare con il corpo. Si parte dal cosiddetto light bondage – che tendenzialmente riguarda la legatura dei soli mani e piedi – fino ad arrivare a forme di annodamento molto complesse come la mummification o il suspension bondage, in cui il sottomesso (detto sub) viene sospeso da terra, talvolta anche con l’uso di ganci. Dominazione & Sottomissione (D&S o DS): con il riferimento specifico a questo termine si intende sottolineare la componente maggiormente psicologica, emotiva e cerebrale, nonché quelle pratiche che esulano dal puro e semplice contatto sessuale. L'eccitazione viene infatti spesso provocata, in queste relazioni, oltre che da pratiche come il whipping o lo spanking, dal controllo e dall'autorità che il dom detiene sul sub.

Tornando alla specificità dell’argomento contingente si può notare come, verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, elementi che all’epoca si sarebbero definiti “sadomasochistici” o ancor più volgarmente “sadomaso” cominciano a contaminare la nostra cinematografia. Non avviene, naturalmente, un’improvvisa fascinazione con questa deriva sessuale. Piuttosto si tratta di uno dei molti Achei usciti fuori dal Cavallo di Troia, trascinato al di là delle mura di celluloide dalla rivoluzione sessuale in atto e dall’abbassamento degli standard censori. 
Si tratta quasi sempre di escamotage comico-grotteschi piuttosto che parabole su prevaricazioni di classe o volte a raccontare la crescente insicurezza e conseguente demascolinizzazione dell’uomo medio, dovuta alla rivoluzione di cui sopra, come nel caso di certe pellicole di Pasquale Festa Campanile (la non riuscita “commedia da camera”; la sculacciata rappresenta un ottimo esempio in tal senso, in cui lo spanking è usato come tentativo disperato da parte di un marito di riacquistare una dominanza sessuale in seguito a un’improvvisa impotenza sessuale). Quindi le uniche vere tracce di BDSM, o comunque di realistiche derive sadomasochiste, riscontrabili nel cinema italiano – di genere e non – si possono trovare più negli impianti visivi o in singoli, quanto fugaci, escamotage narrativi o elementi scenografici che nel tentativo di descrivere correttamente dinamiche relazionali o codici comportamentali. 

Tra le pellicole degli anni Sessanta/Settanta, il buon Femina Ridens (1969) di Piero Schivazappa è forse quello che – sul piano visivo-iconografico – risulta il meno datato nel trattare sapori e suggestioni BDSM. Se, come detto, l’interesse nel rapporto tra dominante e sottomessa non passa attraverso un’analisi sessuale quanto sociologica e quindi metaforica, il regista de La signora della notte, nel plasmare il suo delirio fetish-pop, si dimostra più consapevole di quello che sta distorcendo rispetto a molti suoi colleghi, nell’uso intelligente di iconografia, sex toys e umori. 
Paradossalmente lo stesso anno di Femina Ridens escono quelle che si possono considerare le altre due pellicole BDSM italiane per antonomasia: Scacco alla regina del già menzionato Campanile e soprattutto Venere in Pelliccia di Massimo Dallamano (che si firma con il suo pseudonimo Max Dillman). In quest’ultimo troviamo dei rimandi psicologici verosimili all’interno della coppia protagonista. 
Tratto dal romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch (1870), il film è noto più per le sue traversie censorie che per i suoi contenuti. Nel 1969, anno della sua uscita, il film non riuscì a superare il visto censura a causa delle scene più spinte ritenute troppo scabrose per l’epoca. Denudato dai momenti più forti, fu poi ripresentato nel 1973 con il titolo Venere nuda, ma anche questa versione venne bloccata e anche a questo giro non ebbe una distribuzione nelle sale. Il film riuscì, finalmente, ad avere una vita in Italia (ricordiamo che in Germania il film ebbe un discreto successo già alla sua prima uscita e nella sua forma originale) solo due anni dopo, in una versione ancor più stravolta e sforbiciata, con il titolo Le malizie di Venere (probabilmente concepito per cavalcare l’onda del fenomenale successo del Malizia di Salvatore Samperi, sempre con Laura Antonelli).  

Picture
L’incipit della versione datata ‘69, l’unica che interessa in questa sede dato che le versioni successive – oltre a essere depurate da gran parte dell’erotismo – cercano di far virare la trama verso improbabili sponde gialle, vede il Severin (Régis Vallée) incontrare durante una vacanza la bella Wanda de Dunaieff (Antonelli), una fotomodella ninfomane di cui si innamora immediatamente. Dopo averla spiata mentre fa sesso con un giovane, tra i due nasce un legame di profonda complicità che sfocia ben presto in un rapporto di vittima-carnefice. Severin chiede a Wanda di sottometterlo, di umiliarlo in un crescendo vertiginoso, di essere trattato come un servo e infine di essere tradito con altri uomini davanti ai suoi occhi. 
La prima versione del film si conclude con il protagonista che nella notte nota una prostituta con i tratti somatici quasi identici a quelli di Wanda. Decide di portarla con sé in una camera di hotel, ma lì viene colto da un episodio rapsodico in cui tenta di strangolarla in quello che si può definire una sorta di transfert emotivo. Quando a sorpresa la donna ammette una certa eccitazione dinanzi alla sua violenza lui sembra sciogliersi, l’abbraccia dolcemente e le chiede di accontentarlo: si sdraia a pancia in giù al centro del letto e si fa frustare con la cintura dei pantaloni. Laura Antonelli risulta una scelta convincente proprio per il suo volto indeciso e i suoi tratti delicati, mentre è meno in parte Vallée, intrappolato in un ruolo troppo complesso e multi-stratificato per le spalle esili dell’attore francese.  Da segnalare nel cast l’americano Loren Ewing (il Goliath di Terror! Il castello delle donne maledette) e Renate Kasché, già apparsa in La morte non ha sesso. 
Dallamano è alla sua terza regia cinematografica, dopo una lunga carriera da direttore della fotografia e qualche documentario. L’anno prima aveva firmato proprio il proto-giallo La morte non ha sesso e quello prima ancora il suo unico western da regista, Bandidos, ma con Le malizie di Venere siamo davanti a quello che facilmente si può identificare come uno dei sui film più personali, chiave di lettura per molti dei lavori a venire. Si può infatti trovare un modus operandi analogo nei suoi successivi gialli (Cosa avete fatto a Solange? e La polizia chiede aiuto in primis) nella maniera tanto di concepire personaggi protagonisti in cui l’ambiguità è l’elemento determinante quanto nella costruzione di vicende permeate di morbosità feticiste. 
L’unico distinguo da fare è che in Venere Dallamano sembra mantenere un non-giudizio nei confronti dei suoi personaggi, un distacco morale perfettamente in linea con l’origine letteraria della pellicola. Non c’è da stupirsi, infatti, che il film sia tra quelli che più riescono a mantenere una veridicità in fatto di bisogni di stampo feticista, dato proprio il suo punto di partenza. Il racconto di Leopold von Sacher-Masoch ha esercitato un enorme fascino tanto nella letteratura quanto nel cinema, arrivando a rappresentare un caposaldo dell’immaginario BDSM. Oltre a Dallamano, ad attingere dall’opera di Sacher-Masoch troviamo anche Jesús Franco – che molto liberamente lo fa con Venus in Furs – e persino Polanski con il suo ultimo film basato sull'adattamento teatrale a firma di David Ives. 

Le maniere di concepire questa tipologia di sesso sono pressoché infinite, mentre nell’immaginario collettivo il BDSM è ancorato a uno stereotipo desueto e parodistico: corpetti di pelle, maschere di latex con la zip sulla bocca e tacchi neri. Il concetto di dolore, secondo una visione di massa, è del tutto unilaterale e ignora le implicazioni psicologiche. Lo scambio di ruoli, il gioco del ribaltamento delle parti e il gusto dell’anticipazione rendono, talvolta, il dolore l’effetto collaterale più puro di un gioco e non l’epicentro del piacere. La manifestazione di un desiderio feticista isolato, scollegato dal complesso mosaico di una persona o il rapporto di una coppia, nell’accezione più acattolica e lata del termine è sempre noioso e banale e le sue pretese trasgressioni, celebrate da tanta banale letteratura e cinematografia, sono spesso innocue masturbazioni, penosi retaggi che hanno superato il loro recinto puberale, pornografia a prescindere dalla presenza o assenza di rappresentazioni ginecologiche del rapporto sessuale. 
Solo l'amore, una Esistenza del sesso che sia condivisa, la passione per un altro essere umano e il suo corpo, il desiderio dell'altro divenuto indissolubilmente desiderio del suo bene - anche all’interno di un rapporto che contempla il gioco sessuale del dolore - può portare alla trasgressione vera, può essere salvezza o perdizione. “La virtù non consiste nei principi, ma unicamente nell'amore”, scriveva Masoch in L’amore crudele. Speriamo che il cinema mainstream si rimetta al passo con i tempi, rinunciando a una, sette o cento sfumature. 

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica


Titolo originale: Venere in pelliccia (Venere nuda, 1973 - Le malizie di Venere, 1975)
Anno: 1969
Durata: 83'
Regista: Massimo Dallamano
Sceneggiatori: Fabio Massimo, Inge Hilger, Massimo Dallamano (non accreditato) 
Fotografia: Sergio D'Offizi
Musiche: Gianfranco Reverberi
Attori: Laura Antonelli, Regis Vallée, Loren Ewing, Renate Kaschè   

0 Comments

L'ORCA ASSASSINA - La poetica del derivativo

3/2/2015

0 Comments

 
Picture
Non c’è bellezza che non contenga pozze d’ombra e pertugi dalle mille sfumature di nero, così come non c’è bruttura che non celi nelle pieghe della propria carne qualcosa di valido, persino di prezioso. Quest’ultima realtà nel cinema è una certezza assoluta. Che sia in un fascio di luce che, senza la progettualità di un regista sapiente, avvolge un personaggio o un ambiente, che si nasconda nelle parole naïf di un dialogo ingenuo, che sia proprio nell’ilarità involontaria di quest’ultimo, nella staticità o nella forza di una suggestione autoindotta, nel transfert o nella bellezza del contesto naturale: qualcosa da salvare c’è sempre, per chi ha uno sguardo che nel ruotare intorno alle cose noti la mutevolezza degli scorci che esse celano. 
Se nell’umano – come scrisse Arturo Graf – la bruttezza più reale di un volto non è da altro prodotta che dalla ignobiltà, dalla povertà dell'animo, questo vale anche nel cinema. L’orca assassina (1977) è un film sbagliato e tutti gli elementi che compongono la narrazione di questa pellicola anglo-italiana, targata Dino De Laurentiis, sembrano contraddirsi vicendevolmente, eppure qualcosa c’è. Malgrado tutto, un certo fascino questa pellicola diretta da Michael Anderson lo possiede.
Il capitano Nolan (Richard Harris), nonostante il parere contrario di una biologa ecologista (Charlotte Rampling), vuole catturare a ogni costo un’orca da vendere a un parco acquatico, ma per un tragico incidente uccide una femmina incinta. Il partner, dotato di un’intelligenza straordinaria, è deciso a vendicarsi del capitano e dei suoi compagni, e inizia così a danneggiare le imbarcazioni del villaggio canadese in cui sono ospiti: costretto dalla popolazione a uccidere l’animale per porre fine alle incursioni, Nolan si lancia con la sua barca in una sfida impossibile fino ai ghiacci dell’estremo Nord. 
Dino De Laurentiis, oramai trasferitosi da anni in pianta stabile negli Stati Uniti, era molto attento a intercettare, talvolta a cannibalizzare le mode cinematografiche e i rilanci di filoni e generi, e di certo non poteva farsi sfuggire la possibilità di accodarsi al successo planetario de Lo squalo (1975) e al fenomeno culturale che ne conseguì. Orca nasce quindi così come tanti cloni italiani – ricordiamo che sempre nel ’77 esce il cult di Assonitis, Tentacoli – cavalcando l’onda d’urto del capolavoro spielbergiano. 
Basta inoltre la breve sinossi sopracitata per rivelare le fonti ispiratrici per la sceneggiatura firmata da Sergio Donati e Luciano Vincenzoni (aiuta a smussare lo script il leggendario Robert Towne, ma non ci è dato sapere quanto profondo fu il suo apporto): il romanzo Orca di Arthur Herzog, certamente, ma soprattutto il saccheggiatissimo capolavoro di Melville, Moby Dick. Al contempo ci vuole altrettanto poco per constatare quanto pigra e talvolta ridicola sia la succitata  sceneggiatura. Un esempio lampante potrebbe essere la lista di cose che viene fatta fare all’animale protagonista: a un certo punto l’orca attacca la casa sulla banchina in cui si trova la sua nemesi (come faccia a sapere che lui sia lì è un mistero), ma prima di agire riesce a manomettere il circuito elettrico, come in un piano sequenza in soggettiva di un giallo argentiano. Anche i primi piani sull’occhio vitreo dell’animale mentre riconosce Harris in mezzo a decine di persone e ne segue i movimenti sull’imbarcazione aiutano a generare quel tocco in più di incredulità. 
Queste leggerezze nella scrittura, insieme alla sua natura smaccatamente derivativa, sono le ragioni per cui il film fu accolto e bollato di netto come “trash”, parola ricorrente in numerose recensioni, creando una reputazione che il film stesso non è più riuscito a togliersi di dosso. 

Picture
Arrivati agli sgoccioli degli anni settanta le produzioni yankee di De Laurentiis erano, come già detto, accolte con una certa dose di scetticismo. Se da una parte aveva, sì, realizzato pellicole imprescindibili del decennio come Serpico (1973), Il giustiziere della notte (1974) e I tre giorni del Condor (1975), dall’altra parte titoli come Mandingo (1975), Drum (1976) e King Kong (1976) contribuivano a donargli l’immagine di una sorta di exploitation-producer di lusso, un William Castle sui generis, industrializzato e mainstream. Di certo ad aggravare la situazione per Orca: The Killer Whale (così suona il titolo anglosassone), fu anche l’accoglienza sia di botteghino che di critica riservata alla sua pellicola “gemella”. Nel modus operandi del produttore c’era infatti la tendenza ad “aggredire”, in perfetto stile exploitation, il genere o il fenomeno scelto con più titoli da far uscire a raffica. Pensiamo ad esempio al grappolo di Stephen King movies negli anni Ottanta o alla già citata coppia di southern westerns Mandingo/Drum. 
Per confermare tale tesi a maggio dello stesso anno, quindi esattamente due mesi prima della première di Orca (che avviene il 15 luglio a New York), esce Sfida a White Buffalo (The White Buffalo) di J. Lee Thompson: un eco-vengeance western che come il film di Anderson gode di un cast ricco di volti noti e vecchi caratteristi. Curioso notare però come ambedue le pellicole siano unite da una fortissima vena surreale, che nel caso della pellicola di Thompson assume fin dalla prima inquadratura un tono, grazie anche a una sognante fotografia flou, del tutto metaforico. L’inglese Thompson, pur già in una fase calante della sua carriera, rispetto al suo compatriota Michael Anderson è forse  un regista superiore, ma sul fatto che il padre de I cannoni di Navarone abbia uno stile più incisivo non ci sono dubbi. Anderson era stato un beniamino del cinema britannico degli anni cinquanta, ma dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, seppur dimostrando sempre un mestiere indubbio, non aveva mai mantenuto le promesse fatte in patria: questo almeno fino al 1976, quando realizza La fuga di Logan, il suo film più noto (insieme a Il giro del mondo in ottanta giorni, 1956), che poi rappresenta la ragione primaria che portò il produttore italiano a sceglierlo per Orca. 
L’utilizzo del termine “exploitation” non deve comunque fuorviare, poiché il film di Anderson si prende molto sul serio. Se non fosse così forse Orca godrebbe di maggior benevolenza. Girato con un budget consistente, la maggior parte delle sequenze fu realizzata in alcune regioni del Canada, mentre per le scene iniziali, che vedono protagonista uno squalo, fu utilizzata come location una suggestiva costa australiana. Per le riprese vennero usati sia un’orca addestrata che un esemplare di gomma con parti anatomiche in animatronics, fuse armoniosamente insieme in fase di montaggio. A testimoniare il dispendio di denaro anche il cast, che oltre alla coppia Harris-Rampling vanta Bo Derek, Will Sampson, Keenan Wynn, Robert Carradine e Peter Hooten, nonché il premio Oscar Ted Moore alla fotografia. 
Il ritratto fatto finora e le premesse elencate possono far pensare che non ci sia spazio per un’eventuale redenzione, ma è proprio dalle pennellate larghe di un buon mestierante, dalle ingenuità e dalla sovrapposizione di elementi casuali che Orca trae la sua forza. La natura vendicativa dell’animale potrebbe essere letta come un’afflizione psicologica: se lo squalo di Spielberg è un mostro inconoscibile, una macchina di morte inarrestabile, la balena qui è umanizzata a un livello che non si era mai visto e che non si vedrà più in tutto il filone degli animali assassini, che poi è il punto da cui si sollevano molte delle critiche. Scene idilliache che mostrano le balene nel loro stato naturale lasciano il posto a lezioni della magnetica Rampling sulla loro intelligenza, le loro abitudini sociali e la loro natura monogama e ai tentativi di Harris di interferire e di derubarle della loro libertà. 
Quando arriva il momento dell’omicidio dell’orca femmina, la scena è girata come uno stupro di un rape and revenge. Ricca di sangue e concepita per scioccare, durante la scena assistiamo a un ribaltamento totale. Da quel momento avviene una sorta di psicosi reattiva che si trova comunemente nei film di vigilantes, Il giustiziere della notte et similia, più che nell’eco-vengeance.  Così, decostruendo il solito antropomorfismo, si mostra come in un animale l’animo umano sia un’imposizione innaturale: una bestia suscettibile può essere solo pervertita dalle pulsioni umane. La vendetta è un fattore contaminante e una volta messo in moto risulta irreversibile. 
Anche se molte scene sono improbabili, per non dire ridicole, il film è qualcosa di diverso rispetto al panorama di cui fa parte. Nel suo essere un eco-vigilantes movie il film ha una sorta di vena new-age amplificata dalle bellissime sequenze subacquee girate dallo specialista Folco Quilici e dalle musiche struggenti e sospirate di Ennio Morricone. La vena spirituale del film si manifesta nel vedere come l'adozione da parte dell’orca di aberrazioni umane frantumi tutte le illusioni dei protagonisti – che tali creature naturali siano intrinsecamente superiori agli esseri umani (come sostiene la Rampling) o che gli umani possano esercitare il loro essere Dio su tutto senza conseguenze (come invece vorrebbe Harris). 
Nel congelato inferno acquoso delle scene finali il film raggiunge l’apoteosi di una sua visione di un mondo decaduto, umano e animale. Se, come disse Aristotele, tutto nella natura è utile, mai tutto in un film è inutile. A maggior ragione se l’imperfezione, persino il fallimento totale, di un’opera nasce da un humus vivo, da un terreno fertile di idee, di suggestioni magari sconnesse, involontarie o idiosincratiche ma pulsanti.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Orca
Anno: 1977
Durata: 105'
Regia: Michael Anderson
Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Robert Towne
Produttore: Dino De Laurentiis
Fotografia: J. Barry Herron, Ted Moore
Musiche: Ennio Morricone
Attori: Charlotte Rampling, Richard Harris, Will Sampson, Bo Derek, Keenan Wynn, Robert Carradine

0 Comments

LABBRA DI LURIDO BLU - Autopsia di un desiderio

24/10/2014

4 Comments

 
Picture
Negli ultimi anni di vita Giulio Petroni ha cercato di modellare, smussare e mettere in ordine la sua carriera. Intervista dopo intervista, articolo dopo articolo, conferenza dopo conferenza, Petroni ha tentato di limare il ricordo di una carriera lunga e contradditoria, dove vivevano in lui, più forti, le occasioni mancate, l’inespresso e lo sfiorato. La cosa che in assoluto sembrava premergli di più era rimuovere tutto quello che per il cinema aveva realizzato dopo il 1975. Il rivale, il precedente L’osceno desiderio, le sceneggiature firmate con Massimo Franciosa ma anche le pubblicità e i documentari televisivi. 
Petroni sminuiva e depistava, e l’impressione finale è che tutto questo fosse mirato a far sì che Labbra di lurido blu venisse considerato e ricordato, da tutti, come il suo ultimo film. Il canto del cigno, l’ultima mano di una partita giocata troppo in fretta. Petroni amava i colpi di scena ma non la teatralità, i toni altisonanti. La sua anima malinconica glielo impediva e Labbra di lurido blu era il sipario perfetto con cui uscire di scena camminando. Un film incompreso, un regista amareggiato con più demoni che buon senso, una diva sul viale del tramonto, uno scandalo offuscante. Tutti gli ingredienti perfetti per la chiusura di una carriera dalla difficile collocazione. 
Si potrebbe quasi dire che tutte le scelte di Petroni lo abbiano portato, inevitabilmente, a Labbra di lurido blu, ma per capire meglio bisogna tornare all’inizio di quel folle decennio. Agli albori degli anni settanta Petroni era, come direbbero gli inglesi, “at the top of his game”. Prolifico quanto basta, viaggiando su una media di un film all’anno, il regista veniva da un decennio di successi in cui si era guadagnato budget, cast e potere contrattuale al di sopra della media. La sfilza di successi western (soprattutto il tris di Da uomo a uomo – E per tetto un cielo di stelle –Tepepa) lo aveva posto al centro dell’attenzione. De Laurentiis, in quel momento nella fase di transizione dall’Italia agli Stati Uniti, gli propose un film, le sceneggiature si accumulavano nel suo ufficio ai Parioli e le possibilità erano infinite. Vinse su tutto, però, la vena autodistruttiva di Petroni, pulsante e mimetizzata sotto il desiderio forte di emancipazione. 
“L’idea di cimentarmi nelle vesti di produttore mi era già venuta parecchio tempo prima. Il mio rapporto con questa figura è sempre stato difficile già all’epoca di Emo Bistolfi che produsse Una domenica d’estate e I soliti rapinatori a Milano. Un uomo rozzo, gretto, sprovvisto anche solo di un barlume di umorismo o autoironia. Da uomo a uomo, E per tetto un cielo di stelle e Tepepa erano stati successi incredibili e io volevo cogliere l’occasione di emanciparmi. Con Non commettere atti impuri sono riuscito finalmente a fare questo passo. Il western aveva ormai fatto il suo corso e in me è cominciato a crescere il desiderio di esplorare nuovi territori e di assumere più controllo sui miei film; non che non lo avessi avuto fino a quel momento ma, forse anche ingenuamente, volevo limitare il più possibile i compromessi. Un azzardo che ho pagato caro”. 
Cosi Petroni descrive l’idea di fondare l’Azalea, la sua casa di produzione. I tre film che lui produrrà, inframezzati soltanto dal suo ultimo western (La vita a volte è molto dura vero Provvidenza?, 1972), sono legati insieme da tematiche e suggestioni così indissolubilmente simili da comporre una sorta di trilogia. In Non commettere atti impuri (1971), Crescete e moltiplicatevi (1973) e Labbra di lurido blu (1975), tutti film per cui Petroni non ha badato a spese, le musiche di Morricone e Ortolani puntellano un’atmosfera pervasa da blasfema morbosità. Infatti, nonostante i cambi di registro tra i tre titoli nonché all’interno degli stessi, a tenerli saldamente insieme è un miscuglio, spesso agrodolce, tra religione, sessualità e famiglia, racchiuso nel microcosmo della provincia. 
Crocifissi e corpi nudi, maschere di perbenismo e desideri sussurrati, traumi inconfessabili e nuclei familiari dilaniati dallo scandalo: Petroni è impietoso nei suoi ritratti ma, al contrario dei suoi colleghi intenti in progetti analoghi, lui non assume mai un ruolo giudicante. Petroni riprende le sue creature deformi e incomprese con sguardo oggettivo, persino compassionevole. Il moralismo, specie quello appartenente a un retaggio cattolico, non esiste nel suo cinema; un esempio perfetto è proprio l’ultimo dei tre film, il più ambizioso.
Ely (Lisa Gastoni) e Marco (Corrado Pani) sono due anime rotte, due fantasmi attanagliati da traumi infantili che ancora pervadono ogni loro gesto, ogni loro decisione. Forse per trovare insieme una via d'uscita dalle loro deviazioni, forse per sostenersi a vicenda, i due si sposano. Il matrimonio, però, non risolve i loro problemi, né li facilita l'inaspettato ritorno di George, l'antiquario inglese già "amico" di Marco, che ora lotta per strapparlo a Ely. Inevitabile quanto scioccante il tragico finale, macchiato di sangue.
“Tinte gialle”, “fumettistico”, “a tratti surrealista”: questi i termini usati da molti critici dell’epoca per tentare di decifrare l’approccio stilistico di Petroni. In effetti il film sembra essere rinchiuso in una bolla, in cui tutto pare galleggiare. L'inizio ha la solennità di un western: esterno, giorno; strade di campagna isolate e vuote; silenzio; un donna in auto; alle sue spalle una desertica pompa di benzina. Un giovane in motocicletta si accosta e senza togliersi il grosso casco nero annuncia lapidariamente: “George vuole vederla”. I motori si accendono. “Mi segua”. Musica. Titoli di testa. A seguire i credits una sequenza lunga e psichedelica, grottesca e surreale, all’interno di una chiesa sconsacrata in cui la Gastoni verrà presa e picchiata, spogliata e derisa, un’umiliazione che sembra dipanarsi in una sorta di balletto i cui coreografi sono un gruppo di demoni in lattice, di fetish-punk ante litteram. Quel che balza subito agli occhi è la cura nel dettaglio, nella fotografia, i fluidi e ricercati movimenti di macchina. Petroni inizia il suo film con l’intenzione di sedurre quanto di alienare.  

Picture
Come si diceva prima, l’autore de La notte dei serpenti non bada a spese: Ennio Morricone (alla sesta collaborazione con il regista) firma la colonna sonora, Gabor Pogany, uno dei nostri più grandi direttori della fotografia, ne cura gli acidi contrasti cromatici e il grande Giancarlo De Leonardis è responsabile del trucco e delle acconciature. A chiudere il cast invece troviamo un folto numero di volti noti: Gino Santercole, Silvano Tranquilli, la prolifica starlette Hélène Chanel, l’attore britannico Jeremy Kemp, vincitore di un Bafta per La caduta delle Aquile, la cometa Daniela Halbritter (lanciata proprio da Petroni, con cui aveva una relazione) e Armando Brancia. Petroni invece, oltre a ricoprire i ruoli di regista e produttore, cura anche il montaggio e firma sia il soggetto, insieme al sodale Franco Bottari, sia la sceneggiatura.
Se nei precedenti due film targati Azalea trovavamo un’atmosfera brillante contaminata da improvvisi sprazzi di violenza e malsana sessualità, questa pellicola è esattamente il contrario, essendo del tutto ermetica a elementi dissacranti. All’apparenza potrebbe fare eccezione la “leggerezza” delle sequenze tra il giardiniere Santercole e la cameriera Halbritter, ma sulla lunga distanza queste risultano, nel loro stridere, funzionali a creare un’ulteriore morbosità. La macchina da presa è quasi sempre stretta sui due protagonisti, in un delicato avanti-indietro tra le loro vite vicine ma separate, e sui momenti salienti dei loro dolorosi passati (ottimo l’uso, in tal senso, dei flashback).  
Sarebbe facile, e viene naturale, collocare Labbra di lurido blu (il titolo è la traduzione di un verso di Shelley) all’interno di quel macro-filone, di quel magma informe che è stato il cinema erotico-intellettualistico degli anni settanta. Per il contesto provinciale, per la presenza della Gastoni o per il tasso di erotismo, Labbra sembra infilarsi perfettamente nelle mode del cinema erotico-borghese in cui militavano registi come Salvatore Samperi (Scandalo – proprio con la Gastoni – è di pochi anni prima), Bruno Gaburro, Peter Skerl, Massimo Pirri, Maurizio Liverani, Alberto Bevilacqua, Luigi Scattini, Silvio Amadio. Autori diversi ma uniti nel tentativo di raccontare storie di nuclei familiari, tradizionali o meno, che diventassero specchio di un'Italia mutevole, condendo i loro racconti con ingredienti voyeuristici e pruriginosi. Ma il film di Petroni si discosta da questo approccio per vari motivi, rendendosi un unicum nel genere.
Innanzitutto Labbra di lurido blu è scevro da retaggi e influenze politiche. La storia si svolge nell’anno della realizzazione del film e non ci sono riferimenti alla morte dei valori sessantottini, alla controcultura giovanile, al partito comunista, alla fascismo o alla DC. Petroni è intimista fino in fondo: non troviamo il tentativo, spesso posticcio, di rendere la vita dei personaggi metafora della vita politica del paese, della morte delle ideologie. Non troviamo un simil Ugo Tognazzi, come in Nenè (esempio in tal senso perfetto, datato 1978) di Samperi la cui presenza è giustificata soltanto dal tentativo di donare forzatamente un’ulteriore chiave di lettura. 
Inoltre l’erotismo messo in scena da Petroni è repulsivo, genuinamente respingente. I nudi e le situazioni forti sono molti, ma Petroni non muove la sua macchina da presa con rustico compiacimento, con goduriosa curiosità. Lui riprende e basta. Freddo e distaccato come un’autopsia. Labbra di lurido blu è esattamente questo, l’autopsia di un desiderio. Personaggi morenti ripresi nel loro spleen maledetto, nel loro boccheggiare. I culi esposti di Gabburro e Amadio, giusto per citarne due, non hanno nulla in comune con la pelle nuda dei personaggi di Petroni. 
Se però nel riprendere la sessualità e il sesso il regista di Tepepa è distaccato, nel descrivere i suoi personaggi non lo è minimamente. La ninfomane piegata dalla vita e il marito attanagliato da un’omosessualità repressa sono ripresi ad altezza d’occhi, mai un palmo sopra. La Gastoni ricorda quanto Petroni si arrabbiasse quando lei descriveva il suo personaggio come una poco di buono: “Una volta me ne uscii definendola una puttana e Giulio si arrabbiò. ‘Non devi dire così! Lei è alla ricerca di se stessa’”. Sarà per questo modus operandi di Petroni che in Ely abbiamo il ritratto più introspettivo e veritiero della ninfomania (anche se questo termine non viene mai menzionato nella pellicola) che si possa trovare nel cinema italiano.
Quanto all’Azalea, nessuno dei tre film fu un flop ma Petroni, che notoriamente era un pessimo amministratore economico, per ogni pellicola si indebitò sempre di più. Questo, unito ad uno stile di vita sempre più costoso, fece sì che la vita della casa di produzione fosse molto breve. Nonostante le intenzioni onorevoli di volersi distaccare dalle mode cinematografiche correnti e di esplorare nuovi territori, Petroni si trovò inseguito dalle banche e con il film del ’75 il gioco finì. Si vide portar via la sua cascina in Umbria, il vasto terreno circostante e il suo allevamento di maiali. 
“Difficilmente penso alle conseguenze delle mie azioni”, scrisse in un suo libro autobiografico (Passeggiate nelle sabbie mobili), e così fu per la sua vita da produttore. Le critiche feroci a Labbra di lurido blu insieme all’inizio della vera crisi cinematografica fecero il resto. “Io non credo di aver meritato il linciaggio di cui sono stato vittima in seguito all’uscita di Labbra di lurido blu. Volevo gettare luce su un problema che a metà degli anni settanta era molto forte… una parte della società che non riusciva ad analizzarsi, a guardarsi dentro; era in uno stato conflittuale con se stessa: da una parte c’erano i desideri, le voglie, e dall’altra il peso dei tabù ancora forti che schiacciava le volontà. Il film ha avuto un discreto successo di pubblico che ha scelto di non dar peso alla critica che mi massacrava. Forse non sono riuscito nei miei intenti, ma almeno, se queste aggressioni fossero uscite fuori da un’analisi degli intenti e contenuti della pellicola, allora, sarebbe stato sopportabile; invece era tutto gratuito e immotivato. Nulla fu più come prima dopo Labbra di lurido blu”.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione

Intervista a Giulio Petroni realizzata da Eugenio Ercolani e tratta dall'articolo apparso su Nocturno Cinema (N 92 - Aprile 2010)


Scheda tecnica

Regia: Giulio Petroni
Sceneggiatura: Franco Bottari, Giulio Petroni
Musiche: Ennio Morricone
Fotografia: Gabor Pogany
Anno: 1975
Durata: 120'
Attori: Lisa Gastoni, Corrado Pani, Jeremy Kemp, Gino Santercole, Hélène Chanel

4 Comments

ULTIMO MONDO CANNIBALE - La poetica di Ruggero Deodato

21/7/2014

0 Comments

 
Picture
Il profondo desiderio dell’uomo di esorcizzare la morte si manifesta nel quotidiano, in piccoli gesti rituali e istintivi. Chi non ha, al volante della propria auto, rallentato per un attimo per gettare uno sguardo fugace nella direzione di un incidente stradale, pur sapendo che passerà la giornata cercando di rimuovere l’immagine, che si avvinghierà al cervello come un polipo? 
La curiosità morbosa certamente è una componente del desiderio che l’uomo ha nel mostrare e nel vedere la morte nelle sue molteplici forme, ma sarebbe fin troppo riduttivo fermarsi qui. In primis c’è il desiderio forte, naturale quanto ingenuo, di assuefarsi, di anestetizzarsi al concetto di morte. L’intimità della morte, nella sua finzione cinematografica, può talvolta, creare una sottile emozione e un conseguente senso di colpa, similare a quello procurato dalla pornografia. Pornografia e morte, le due facce di un’ oscena quanto umana medaglia. Fottere e morire. 
Il cinema, in questo senso, è il rifugio per antonomasia. Perché il cinema è, sì, una forma d’arte, un intrattenimento per masse e per nicchie, un gioco, una valvola di sfogo, un grande esperimento tecnico-visivo in progressiva e continua evoluzione, un archivio storico in perenne aggiornamento, un raccoglitore di istantanee, una macchina del tempo, la nostra memoria collettiva; ma nell’essere tutte queste cose, è anche generatore di fantasmi. Carne di celluloide che continua a muoversi costretta a una ritualità ossessiva. Un contenitore, appunto, di fantasmi catturati su pellicola, destinati a ripetere per sempre gli stessi gesti, gli stessi errori, gli stessi dolori, a raggiungere la stessa sorte, triste o gioiosa che sia, di nuovo e di nuovo ancora, e poi ancora un’altra volta; e sono le nostre aspettative, i nostri dolori, i nostri occhi che mettono in moto questi purgatori virtuali, questa ripetizione di gesti su cui proiettiamo noi stessi. Perché quando guardiamo o rivediamo un film non stiamo solo assistendo a uno spettacolo di fantasmi, ma stiamo vivendo anche tutto quello che su quell’opera è stato proiettato da altri. 
Il cinema rimane tanto una passione solitaria, fatta di salotti e sale buie, quanto un silenzioso scambio di aspettative tradite e sogni, morte e speranze. Alla fine, a muoversi insieme a quei personaggi-burattini ci siamo anche noi. Perché un’opera, dal momento che viene contaminata, sporcata dagli occhi di un pubblico, smette di essere di chi l’ha diretta e concepita: il regista non ha controllo e il film inizia il suo percorso nel mondo e nella storia. Una malinconica affermazione bisbigliata dal protagonista di L’occhio che uccide di Michael Powell riassume perfettamente il gesto di riprendere e il ruolo del creatore di fantasmi: “Everything I photograph, I always lose…” 
Che fantasmi ha sguinzagliato sul mondo e su tutti noi Ruggero Deodato? Spettri dolorosi e violenti, tranquilli dietro una controllata facciata civilizzata, crudeli freaks ignari delle proprie deformità, incravattati professionisti del dolore certi dell’essere nel giusto o, come direbbe lo stesso Deodato, semplicemente versioni distorte di noi stessi. Questo vale se si prendono in rassegna i film per cui il regista (Potenza, 7 maggio 1939) è più conosciuto su suolo italiano ma, soprattutto, all’estero: in primis Ultimo mondo cannibale, Cannibal holocaust e La casa sperduta nel parco; ma è impossibile non citare, in seconda battuta, pellicole come Ondata di piacere, Uomini si nasce, poliziotti si muore e Concorde Affaire ’79.  Il primo dei film citati è anche il primo vero e proprio cannibal-movie (nel precedente Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi, considerato il precursore, l’aspetto antropofago è troppo marginale per considerarlo un “cannibalico” puro). 

Picture
L'antropologo Rolf (Ivan Rassimov), il ricercatore Robert Harper (Massimo Foschi), Charlie (Sheik Razak Shikur) e Swan (Judy Rosly) atterrano nella giungla di Mindanao, per realizzare una ricerca per conto di una società petrolifera. Arrivati al campo base i quattro, constatando che l'accampamento è deserto, si rendono conto che tutte le persone che erano lì sono state uccise dai Manabu, uomini rimasti all'età della pietra e che praticano il cannibalismo. Durante la notte Swan viene assalita e uccisa. Il giorno dopo gli altri partono alla ricerca della compagna, ma Charlie muore vittima di una trappola. 
Rolf e Robert si perdono nella giungla e, nel tentativo di ritornare al campo base via fiume, costruiscono una zattera che però finisce per infrangersi contro le rocce sfasciandosi. Robert si mette in cammino ma viene catturato da una tribù di indigeni non cannibali e imprigionato in una caverna. Lì viene spogliato, umiliato e deriso da tutti gli indigeni, che lo fanno assistere ad alcuni riti tribali, come uccisioni di animali, stupri e violenze di ogni genere. Sarà grazie a una bella indigena, incuriosita e attratta dall’uomo (Me Me Lay) che Robert riuscirà a fuggire. 
Ultimo mondo cannibale (1977) nel suo essere atipico, sporco, documentaristico, quasi claustrofobico nella maniera di riprendere il contesto naturale, ha delineato il blueprint a cui tutti i film appartenenti al filone si atterranno: l’utilizzo di animali e l’uccisione reale di quest’ultimi, un gusto “da reportage” nella regia, scene di violenza grafica in cui assistiamo a famelici cannibali in azione, e la strumentalizzazione di queste tribù indigene al fine di una denuncia con conseguente morale. Se si guarda il migliore e più riuscito cinema di Deodato, e Ultimo mondo rientra sicuramente in questa categoria, si potrebbe definire il regista un “autore di pancia”: poche idee ben eseguite, sapienza tecnica e una narrazione solida. Un cinema d’immagini, in cui le parole sono fastidiose perché ridondanti rispetto alla immagini. 
Tornando a UMC, in origine il film doveva essere diretto da Umberto Lenzi, che veniva dal successo del già citato Il paese del sesso selvaggio. Si può perfino trovare un trailer (ad esempio nel DVD tedesco del film) in cui appare proprio il nome di Lenzi. Quindi non c’è da stupirsi se ritroviamo i due protagonisti del precedente film, gli attori Ivan Rassimov e Me Me Lay. Se però Lenzi si è approcciato al filone sia con il suo primo titolo apripista, sia nel decennio successivo (Mangiati vivi e Cannibal Ferox) come a qualsiasi altro genere, in maniera distaccata, Deodato si trova nel suo contesto ideale. Le caratteristiche del contesto scenografico e la tipologia di storia permettono al regista di realizzare film in cui la tecnica è la narrazione. Gli danno la possibilità di mettere in scena un cinema selvaggio quanto essenziale, asciutto. Avesse esordito alla regia qualche anno prima, Deodato sarebbe stato un ottimo regista western.    
L’eredità dei mondo movies, palese nel suo cinema cannibalico, è ravvisabile non soltanto nelle location esotiche e nei relativi contesti tribali, ma soprattutto nel continuo interscambio tra realtà e finzione, previa una differenza di intenzioni: mentre registi come Jacopetti e Prosperi mostravano fiction tentando di farla apparire reale, spacciandola per tale, Deodato nel suo film più noto, nonché vera e propria summa del cannibal-movie, ovvero Cannibal holocaust (1980), allestisce, inserendolo nel diegetico, un vero “film nel film”. Così facendo, realizza uno dei film più influenti degli ultimi quarant’anni. 
Vale però considerare un aspetto: secondo molti scritti, il filo rosso che infiocchetta la sua filmografia è dato dai generi da lui esplorati e da un modo di girare “più americano che italiano”. Seppure vere, queste considerazioni sono limitative. Certo, Deodato ha di rado firmato le sceneggiature dei suoi film e come nella migliore tradizione “di genere” si è dovuto piegare alle esigenze di mercato, prodigandosi nei generi più disparati: dal musicarello al post-atomico, dall’erotico allo slasher. Ma Deodato ha sempre portato avanti la sua particolarissima estetica della violenza. Il suo cinema non gronda sangue e non è popolato da urla ancestrali, ma è animato dai lamenti di umani, vittime del sadismo di altri umani. “Pariolini” (termine, molto conosciuto dal regista, che deriva da una zona di Roma e che sta a indicare persone che nei soldi e nell’immagine trovano il senso della loro esistenza), proletari violenti che divengono inconsapevoli strumenti di una borghesia bene, cinica e dissoluta, coppie anestetizzate in cerca di stimoli e pronte a tutto per averli, giornalisti la cui ambizione diventa un cancro che li divora. 
Nel miglior cinema di Deodato non ci sono scuse né salvezza, il che rende i suoi fantasmi schiavi di un ritualità ancor più dolorosa a cui assistere. Perché “noi” è l’unica risposta alla domanda, ridondante ma memorabile, di chiusura a Cannibal holocaust. Sempre e solo dannatamente noi.

Eugenio Ercolani 

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Ultimo mondo cannibale
Anno: 1977
Durata: 88 min
Regista: Ruggero Deodato
Sceneggiatore: Tito Carpi, Ruggero Deodato
Fotografia: Marcello Masciocchi
Musica: Ubaldo Continiello
Attori: Massimo Foschi, Ivan Rassimov, Me Me Lay

0 Comments

MATALO! - Il cinema nordico di Cesare Canevari

6/6/2014

2 Comments

 
Immagine
Su questa pagina si è spesso insinuato, tra le righe, quanto la critica mainstream italiana, oggi come ieri, ami creare gerarchie artistiche di stampo “crociano”: l’alto e il basso, il sacro e il profano, il nobile e il misero, l’autore e l’artigiano. Anche in questo siamo il paese delle madonne e delle puttane. 
La rivalutazione in massa che c’è stata nei confronti del cinema di genere non ha certamente cambiato questo modus operandi, e anche nell’affrontare questa galassia cinematografica si sono riproposti vecchi termini di paragone e parametri di giudizio. Sotto i fiumi di parole che si spendono su questo cinema aleggia ancora un tono divertito e superficiale. Alla fine che cosa è cambiato? Poco o nulla. Si, adesso testate che prima non avrebbero mai sognato di trattare un certo cinema lo fanno, e indubbiamente alcuni nomi sono divenuti di uso comune (Lenzi, Fulci o Castellari vengono alla mente), ma tutto questo non nasce da un rigore critico o da un studio di stili e contenuti, bensì dalla grande mano di Tarantino e dalla moda che ne ha conseguito. Alla fine della fiera, molto è rimasto invariato.        

Cesare Canevari (1927-2012) possiede il perfetto identikit del regista “invisibile”, dalla difficile collocazione, sia in quanto molto poco attivo (in tutto ha diretto nove film, dal suo esordio nel 1964 fino all’83), sia perché non è mai stato prolifico in un particolare genere, il che lo ha reso indefinibile (si veda l’ossessione, tutta italiana, per le etichette). 
Ha spaziato dal western (dal dimenticabile Per un dollaro a Tucson si muore, 1964, all’imprescindibile Matalo!, 1970) al pop-noir, psichedelico e pseudo-spionistico (Una jena in cassaforte, 1968), dall'erotico intellettuale, glaciale e intimista, venato da un gusto fumettistico riconducibile a Guido Crepax (Io Emmanuelle, 1969, con una Erika Blanc mai così bella), all’erotismo folle e delirante (La principessa nuda, 1976), allo scandaloso eros-svastica (L'ultima orgia del terzo Reich, 1977), al giallo, fuori tempo massimo (Delitto carnale, 1983), fino ad arrivare al melodramma (Il romanzo di un giovane povero, 1974). 
Il terzultimo film citato rappresenta il tallone d’Achille di Canevari. La presenza di un eros-svastica (o di un nazi-eros come dir si voglia) nella sua filmografia lo rende “attaccabile”.  L’ultima orgia del terzo Reich ha il dubbio primato di essere uno dei migliori film di un filone tra i più sconsiderati e perversi che siano mai stati concepiti. La pellicola di Canevari, cosi come il genere italiano in toto, imbocca strade diverse rispetto al suo equivalente americano (Camp 7-Lager femminile (1969) di Lee Frost è tra i primi esempi), prendendo spunto piuttosto dal Salò di Pasolini, nell’estetica della violenza e nel tipo di sadismo, e dal Salon Kitty di Brass, nell’impostazione scenografica ed erotica. 
Per i produttori era la possibilità di integrare al WIP (women in prison, filone sexploitation già in voga) elementi ancor più pruriginosi, talvolta persino orrorifici (come nel caso di La bestia in calore). Torture, stupri e sevizie varie, che si consumano tra i campi di concentramento e i palazzi fastosi del regime tedesco, accenti farlocchi ed esperimenti ispirati a Mengele et co, retorica e lesbismo, sequenze splatter e sprazzi di melò, inserti hard e tanto ingenuo (quasi infantile) cattivo gusto.
Il mondo cinematografico di Canevari è schivo ed emotivamente nordico, popolato da personaggi freddi, talvolta persino glaciali, distaccati e pervasi da una follia lucida, capaci di tutto, ma sempre in lotta con se stessi. Personaggi disturbati, intrappolati in un vortice caleidoscopico. La psichedelica visione che Canevari ha del mondo diventa parte integrante dei suoi personaggi. In questo senso il suo cinema è, visivamente, riconducibile a un certo tipo di fumetto dell’epoca (il già citato Crepax è un ottimo esempio) nella misura in cui, in una vignetta, la faccia e il corpo di un personaggio è imprescindibile dallo sfondo, e lo sfondo è al contempo il personaggio in quanto rappresenta il suo stato mentale ed emotivo. Volti acidi incastonati in un mondo acido come quello di Corrado Pani in Matalo!, secondo molti il miglior film del regista. 

Matalo! si apre sulle musiche (ed elaborazioni elettroacustiche) di Mario Migliardi; una bara nera viene caricata su di un carro al cui fianco vediamo una vedova con un velo nero, mentre dei bambini giocano in strada. Fuori fuoco un prigioniero si avvicina a un cappio, se lo infila con la testa, e, d’incanto, ci si presenta nitidamente il volto di Pani come una sorta di Cristo-rockstar. 
La trama vede Burt (Pani) uccidere i tre banditi che lo salvano dalla forca, per poi derubarli e unirsi a una banda composta da due uomini, Philip (Luis Davila), Theo (Antonio Salinas), e una donna, Mary (Claudia Gravy). Il gruppo decide di assaltare una diligenza, che trasporta 250.000 dollari. Durante la rapina Burt viene colpito. I complici, credendolo morto, raggiungono col bottino una cittadina abbandonata, Benson City, con l’intento di rimanervi nascosti per qualche giorno. 
Qualche giorno dopo  arrivano una vedova, Costanza (Anna Maria Noè) e un giovane australiano la cui unica arma è un boomerang, Ray (Lou Castel). Philip, Mary e Theo sequestrano i due, e iniziano a seviziarli, per capire chi li manda. Intanto Burt, ora d'accordo con Ray, attende il momento giusto per impossessarsi del denaro. Questo corollario di grottesche figure si muove in un West alienante, fatto di raggi di sole che entrano in camera e invadono l’inquadratura, di ombre notturne, di scene ripetute più volte (una delle più evidenti e surreali: un cavallo che si solleva stagliato contro il cielo), di una colonna audio fatta di scriccioli d’altalena, grida improvvise e assoli di chitarra tra sperimentale e rock psichedelico. Pochi dialoghi, nessuno nei primi dieci e passa minuti, e un protagonista perverso quanto ricco di debolezze e idiosincrasie. 
Non ci troviamo davanti a uno dei migliori esempi del genere, e il tutto potrebbe risultare facilmente datato per un palato moderno, ma ciò che è più interessante è che anche qui, come in quasi tutto il cinema di Canevari, i personaggi si rivelano per quel che fanno e per quello che non dicono.  Il contesto è un pretesto: una cornice emotiva, e raramente narrativa. Come una lampada “a lava” colorata (Una jena in cassaforte) o come il sole cocente tagliato da un boomerang, gli sfondi di Canevari andrebbero riportati in primo piano.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Matalo!
Anno: 1970
Durata: 94'
Regia: Cesare Canevari
Sceneggiatura: Mino Roli, Nino Ducci, Eduardo M. Brochero
Fotografia: Julio Ortas
Musiche: Mario Migliardi
Attori: Corrado Pani, Lou Castel, Antonio Salinas, Claudia Gravy, Luis Davila

2 Comments

I PADRONI DELLA CITTÀ - Il cinema di Fernando Di Leo

29/4/2014

0 Comments

 
Immagine
Poetica e morale di Fernando Di Leo 

Considerando la maniera convulsamente schizofrenica in cui abbiamo e stiamo, tuttora, assorbendo e rielaborando il nostro Novecento, non c’è da stupirsi che, anche nel cercare di comprendere, ordinare e riabilitare una fetta del nostro cinema, si sia andati a creare un magma informe. Una sorta di landa di oasi luminescenti e paludi pulsanti, abitata da una fauna tanto ricca ed esotica quanto contraddittoria e incompatibile. Se, da una parte, ci sono realtà editoriali, portali, firme e saggi capaci di rigore filologico e storiografico, che compiono un’analisi critica reale, senza snaturare intenti e contesti delle opere e dei suoi autori, dall’altra c’è il caos più assoluto, spesso generato da persone con “il cuore al posto giusto”. 
A essere lastricata di buone intenzioni non è solo la strada verso l’inferno, ma anche quella verso le fiamme dell’attuale critica cinematografica italiana. Quindi, quelle firme davvero utili alla comprensione, nonché all’apprezzamento (parola da intendere nella sua accezione più ampia) di questo cinema, si ritrovano a dover mettere ordine lì dove altri hanno alimentato mal informazione, o dove hanno aiutato a creare ritratti erronei e aspettative fuori luogo. Insomma, anche in quest’ambito siamo profondamente italiani. 
Se si dovesse prendere un regista come esempio della bipolarità che regna sovrana nell’approccio al cosiddetto "cinema di genere", un candidato ideale sarebbe senz'altro lui, il “poster boy” della rivalutazione selvaggia: Fernando Di Leo (San Ferdinando di Puglia, 11 gennaio 1932 – Roma, 1° dicembre 2003). Bastano pochi balzi da un sito all’altro per rendersi conto che è impossibile rendersi conto. Almeno, certamente, per una persona che si affaccia a questo regista per la prima volta. Si possono trovare i termini più discordanti con cui tentare di identificare il suo cinema: “trash” (termine desueto, che fa tanto anni novanta), “genio”, “trash d’autore” (la sublime apoteosi del nulla), “capolavoro”, “noioso”, “pulp”, “tarantiniano” (parola buona per tutte le stagioni), “b movie”, “z movie”, “grande”, “il più grande”. 
Conseguenzialmente, viene da chiedersi il perché questo gioco degli estremi opposti. Com'è possibile che un paese capace di circondare alcuni personaggi di un filo spinato invarcabile, la cui messa in discussione può portare a conseguenze che vanno ben oltre la sfera cinematografica, sia capace, al contempo, di renderne altri così sventolanti e inafferrabili? La ragione è da trovarsi nelle pieghe della politica, naturalmente, nel modo in cui pervade il nostro paese, la politica del cinema, nonché nella mancanza di politicizzazione di certi autori o delle pellicole che realizzavano. 
In questo senso, i migliori lavori di Fernando Di Leo sono quelli in cui la politica è filtrata dalla scelta del singolo. A Di Leo non interessa stabilire che cos’è giusto e cosa non lo è; non c’è un discorso sociologico, non ci sono arringhe, ma solo un ritmico riprendere delle dinamiche, scevre dal fardello del moralismo, tanto più politicizzato. La corruzione di funzionari, le crepe nel sistema giudiziario, la violenza dello stato, la passività degli organi statali sono realistici, ma, al contempo, apparentemente “casuali”, essendo elementi all’interno di un ingranaggio più grande e mai spettacolarizzati. 
Quindi, per un film come Il boss, succede che il ministro dei rapporti con il parlamento Giovanni Gioia presenta una querela per diffamazione, sostenendo che in una scena (nella quale il personaggio di Pier Paolo Capponi elenca una serie di mafiosi) veniva fatto il suo nome, insieme a quelli di Tommaso Buscetta e Salvo Lima. In seguito alla sua denuncia, il film fu sequestrato e il regista, insieme al presidente della società di distribuzione e al legale della casa di produzione Daunia '70, fu convocato per il processo, che però non si fece mai, in quanto Gioia ritirò la denuncia. Va detto che la scena in cui Capponi fa il sopracitato elenco, per l’esattezza in un obitorio, potenzialmente poteva essere un momento di sola “expositation” (termine inglese per identificare momenti filmici il cui scopo è solo quello di dare informazioni utili allo spettatore al fine di portare avanti la storia). 

Immagine
Il cinema di Di Leo è un lungo piano sequenza sulla catena di montaggio della corruzione, nel senso più ampio del termine. La corruzione letterale e quella morale. Si, perché se il suo cinema non è moralista, una morale i suoi personaggi ce l’hanno. Anche qui, però, va fatta un puntualizzazione: come diceva lui stesso, i suoi personaggi non sono guidati da un moralismo assoluto, tanto meno “ultraterreno”, ma da un proprio codice personale, spesso nero e in contrasto con quello che coordina e amministra la nostra realtà sociale. Quindi è un cinema “d’osservazione” sulla morale del singolo. 
Questo modus operandi nei confronti della morale è alla base del cinema noir, ed è il motivo per cui i film di Fernando Di Leo non sono definibili come polizieschi. Se, indubbiamente, il poliziesco italico “classico” (Castellari, Lenzi, Massi etc) parte da una costola di un certo tipo di cinema di denuncia, sviluppatosi alla fine degli anni Sessanta, il vero padre è il western. Il grande racket, Napoli violenta, Il cinico, l’infame, il violento svolgono la stessa funziona catartica del western. Di Leo, invece, non regala il conforto della catarsi e di certo non guarda al west.
La nebbiolina che ingloba delicatamente i navigli milanesi, fumo di sigarette e aliti alcolici, mani sudate che si passano banconote immacolate, vicoli macchiati di urina, schizzi di sangue su camicie bianche, profumi scadenti su pelli in vendita, rossetti invitanti su labbra mentitrici, umide lenzuola di motel e passi che rompono il silenzio in porti notturni, visi lisci dietro scrivanie del potere, corridoi di marmo e borse da ginnastica da poche lire piene di banconote, salette cinematografiche dai sedili incrostati, sguardi maliziosi e silenziatori avvitati su tetti vuoti: il cinema noir di Fernando di Leo è un perverso mosaico non dissimile, nell’approccio, a quello di un Jim Thompson.  Il regista di Milano calibro 9 ha più volte dichiarato di essere cresciuto con i volti di Edward G Robinson, Paul Muni, George Raft, Clark Gable e James Cagney (insomma, con i gangster e i G Men della Warner degli anni ‘30/’40), così come non ha mai fatto segreto del suo amore per Jean Pierre Melville (a cui è stato, talvolta, accostato). 
Quindi certi elementi estetici superficialmente riconducibili al poliziesco di matrice classica si uniscono a un approccio alla morale tipico di un cinematografia gangsteristica americana e francese precedente, e la carta porosa di una certa letteratura noir si mescola con quella liscia delle pagine dei giornali italiani, con l’indice umido pronto a passare dalla sezione politica a quella di cronaca nera. Un mondo cinico e nero, corrotto e maleodorante, asfissiante e violento, da molti definito pulp. 
Certamente, prima che la parola pulp diventasse un termine usa e getta a cui affibbiare con casualità definizioni e significati talvolta diametralmente opposti, o, peggio ancora, prima che divenisse sinonimo di qualsiasi cosa fatta, scritta o detta da Tarantino, prima di tutto questo, a rappresentare l’equivalente italiano di questa abusatissima parola c’era sicuramente Fernando di Leo. Ma, se torniamo alla radice di questo termine e prendiamo le immortali parole di Frank Munsey, ex telegrafista inventore del formato delle riviste pulp, “la vicenda è più importante della carta", ci rendiamo conto dei limiti di tale etichettatura. È indubbio che la forza del regista di Milano Calibro 9 è la scrittura, la parola, che portava a una visione iperbolica e sopra le righe di una fetta del belpaese. Di Leo, vale la pena ricordare, nasce come sceneggiatore di alcuni dei più importanti western italici e, in seguito, sarà anche uno stimato, seppur poco conosciuto, romanziere.     

Immagine
I padroni della città

I film di Di Leo non sono sempre confezionati perfettamente; alcuni titoli sono ricchi di sbavature, come lo sono le frasi di uno scrittore beat, ed esattamente come queste ultime sono colmi di ritmo. Nel parlare del suo approccio registico vengono alla mente le parole del teorico russo Vladimir Jankélévic riguardo alla sua filosofia di difficile delimitazione epistemologica della musica, l’arte astratta e metafisica per eccellenza. Il carattere di realtà non-reale concerne l'elemento primario della musica: il suono è reale per il fatto che scompare nell'istante stesso in cui sorge. Esattamente questo: come per la magia o la chiaroveggenza, come lo stesso Jankélévic definisce i suoni e rimandi della musica, certi registi creano mosaici che trascendono i loro personaggi e donano, a chi guarda, qualcosa che somiglia più a uno spartito musicale, pieno di misteriose “vibrazioni” e suggestioni inafferrabili. Di Leo non dirige i suoi film, li compone, e i suoi personaggi danzano un ballo di morte al ritmo funky-jazz da squallido night club. Come nel caso di questa pellicola diretta al calar del suo decennio più fortunato.
Il biondo e taciturno Ric (Pierluigi Conti a.k.a Al Cliver) incrocia la propria strada con quella di Tony (il tedesco Harry Baer), che lavora al servizio di un piccolo boss della mafia, Luigi Cerchio (Edmond Purdom). Lo convince a unire le loro forze e con l’aiuto di un saggio e attempato criminale da strada, Vincenzo Napoli (Vittorio Caprioli), riescono a mettere Cerchio contro Lo Sfregiato (Jack Palance), che tiene in pugno tutte le attività illecite della città. Le motivazioni di Ric, però, non sono legate al denaro o al potere. Lui con Lo Sfregiato ha un conto personale da regolare. Diversamente dalla cosiddetta “trilogia del milieu” (composta da Milano calibro 9, La mala ordina e Il boss), in questa co-produzione italo-tedesca scendiamo nella scala gerarchica della criminalità, trovandoci a navigare tra bische clandestine, fumose sale da biliardo, baracche fatiscenti di periferia, sparatorie al mattatoio e rigonfi marciapiedi di Roma.
Siamo in un territorio meno rigoroso rispetto ai suoi film precedenti, e le vicende di questi loser ai margini della criminalità vengono striate da un’ironia accentuata. Del resto, non si può prescindere dai tempi che correvano. I padroni della città esce nelle sale il 3 dicembre 1976, quando ormai il poliziesco stava attraversando una metamorfosi molto simile a quella del western, all’inizio del stesso decennio. Dopo aver esplorato i territori più neri, violenti e spietati, nonché le variazioni più disparate dal noir alle tonalità “gialle”, il genere si stava andando ad arenare su lidi ben più light. Ricordiamoci che lo stesso anno escono anche Il trucido e lo sbirro di Umberto Lenzi e Squadra antiscippo di Bruno Corbucci, film che decretano l’inizio del periodo “Monnezza”. Se il precedente Gli amici di Nick Hezard è un divertissement, che rappresenta un’eccezione nella filmografia di Di Leo, avendo come modello La stangata di George Roy Hill, qui l’ironia si fonde con il genere “maestro” della sua filmografia. I pre-titoli di testa, illuminati da una fotografia flou a cura di Erico Menczer, gli stessi titoli di testa, puntellati dalla musica di Bacalov, la lunga sequenza nel mattatoio, nonché certi dialoghi secchi hanno la forza e l’impatto del miglior Di Leo.
Se, da una parte, Jack Palance, l’habitué Vittorio Caprioli, nonché la lunga lista di volti tipici del cinema del regista pugliese (Carmelo Reale, Salvatore Billa, Raul Lo Vecchio, Fernando Cerulli, Mario Novelli) funzionano perfettamente, non si può dire lo stesso dei due protagonisti. Al Cliver non risulta credibile come criminale da strada e Harry Baer (che insieme a Gisela Hahn rappresenta, nel cast, la quota tedesca) manca del giusto carisma. 

Immagine
Quest’ultimo è stato protagonista anche di un drammatico episodio sul set, come ci racconta la segretaria d’edizione del film Silvia Petroni, intervistata appositamente per questo articolo:

Durante una sparatoria vediamo, da lontano, Baer gettarsi a terra urlando e con le mani sul volto. Una delle armi di scena non aveva funzionato correttamente e una scheggia gli era finita nell’occhio. Lo portarono di corsa in ospedale, all’istituto oftalmico. Ci rimase, se non sbaglio, almeno tre giorni, ma il film si fermò per un’intera settimana. Io andai a trovarlo in ospedale più volte, dato che Baer non parlava una parola d’italiano e io conosco bene l’inglese. Una volta venne con me anche Fernando per salutarlo.

Com'era Di Leo sul set?

Fernando era sempre calmo. Prima di lavorare con lui avevo conosciuto registi che sul set perdevano il senno. Emmer (Luciano n.d.r) era capace di urlare, lanciare oggetti, gettare il copione per terra e saltarci sopra (ride), ma Fernando no. Sempre educato, gentiluomo e distaccato sul set. Non freddo, ma nemmeno goliardico, non si dilungava sulle cose e non diceva più di quello che andava detto. Inoltre non è mai capitato, almeno su tutti i film che abbiamo fatto insieme, che sforassimo d’orario. Non importava nulla, all’ora stabilita si tornava a casa. Si alzava e diceva “Amuninne picciotti!”.

Su I padroni della città cosa ricordi del cast? E Di Leo come si rapportava con loro?

Jack Palance era un professionista assoluto: puntuale, preciso, sempre preparato. Se non c’era bisogno di lui, non lo vedevi; poi, quando toccava a lui appariva immediatamente. Lo stesso si può dire anche di Edmund Purdom, ma era cosi con tutti gli attori americani, o comunque anglosassoni. Invece Baer mi sembrava un po’ spaesato, a dire il vero. Fernando non era uno che amava frequentare il mondo del cinema, forse è per questo che mi ci trovavo così bene. Lui, finito il lavoro sul set, tornava al suo mondo. Con gli attori era sempre disponibile e attento, ma non si dilungava a chiacchierare e scherzare. Era molto anglosassone per certi versi. Professionale ed educato. Comunque dagli attori sapeva sempre cosa voleva, cosa era giusto e quando era troppo.

Era preparato, tecnicamente parlando?

Era uno dei registi più preparati che abbia mai conosciuto. La mattina l’autista veniva a prenderci uno dopo l’altro perché abitavamo vicini. Io stavo a Fontanella Borghese e lui vicino Piazza del Popolo e so, avendoci parlato, che studiava tutto il giorno prima. Arrivava sul set con tutto in testa, e non amava fare troppi ciak. Noi tecnici facevamo fatica, talvolta, a stargli dietro tanto era veloce. Inoltre non era un montato, non pensava di fare dei capolavori. Sapeva dove mettere la macchina da presa per avere il risultato migliore nel minor tempo possibile. Spesso aveva Curti o Armando Novelli (produttore e organizzatore generale n.d.r) che gli rompevano le scatole. Novelli, che Fernando non amava affatto, si intrometteva molto. Ma Fernando era bravo, penso, nel gestire certi personaggi. Poi, chiaramente, se si finiva prima o si arrivava all’ora prestabilita, Amuninne picciotti!

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: I padroni della città
Anno: 1976
Regia: Fernando Di Leo
Sceneggiatura: Fernando Di Leo, Peter Berling
Fotografia: Erico Menczer
Musiche: Louis Enrique Bacalov
Durata: 88 min
Attori principali: Harry Baer, Al Cliver (Pierluigi Conti), Jack Palance, Gisela Hahn, Edmund Purdom

0 Comments

GOODBYE & AMEN - L'uomo della CIA

10/3/2014

0 Comments

 
Immagine
Se non fosse che l’ordine non è proprio una sua caratteristica, l’Italia potrebbe essere rappresentata tranquillamente come un enorme magazzino, di quelli giganteschi e metallici. Un luogo dove non arriva rumore e gli scatoloni si osservano in silenzio, con i loro volti di cartone marrone. Tutto archiviato ed etichettato. Tutto impacchettato secondo canoni e misure misteriose. Tutto giace, stretto e contenuto; ogni avvenimento politico, ogni film, libro, articolo di giornale, pensiero, indumento, ideologia, anche quella priva di motivazione e di fini controversi e secondi. Anche per questi ci sono scatoloni appositi. 
Ogni persona, figura politica, intellettuale, pensatore, pittore e poeta, ogni scrittore e regista si trova da qualche parte, dietro una parete di cartone. Alcuni scatoloni sono nell’ombra più totale, racchiusi in massicce dita di polvere e attraversati da strati di nastro adesivo spesso e nero. Pensare di aprire questi ultimi, solo l’idea di chiedere di sbirciarci dentro, è impensabile. Qualcuno, di tanto in tanto, prova persino a spostarle, ma le scatole, oramai, sanno dove è il loro posto, e, strusciando come su di un invisibile tapis roulant, tornano alla loro collocazione. Un paese-magazzino che accumula la propria storia, il proprio potenziale e le proprie genti nel silenzio sacrale di scatole semoventi. Il paese delle scatole e delle etichette. 
Il cinema, come è ovvio che sia, non esula da tutto ciò, e, come si è già detto, anche i registi sono vittime inconsapevoli di questi meccanismi (anche se tanti, adesso come un tempo, cercano il ventre confortante di un contenitore). Tra gli autori ce ne sono alcuni che vagano tra una scatola e l'altra, spettri del magazzino dalle etichette intercambiabili secondo il momento e il contesto. Damiano Damiani è senz’altro tra questi. Le definizioni che si sono susseguite sui vari titoli di giornale, usate per descrivere Damiani nei giorni a seguire la sua morte (avvenuta il 7 marzo del 2013, nella capitale), e per definire il suo cinema, sono state, più o meno, sempre le stesse: “Regista di denuncia”, “Il padre de La Piovra”, “Regista di stampo politico-civile”.  
Ma quando poi si arriva al dunque, a dover entrare nel merito del suo approccio registico e della sua filmografia, molti giornalisti si trovano in difficoltà. Il regista friulano sembra creare una sorta di corto circuito in molti che si ritrovano a dover scrivere di lui. Inevitabilmente, infatti, finiscono per parlare degli stessi film, la mini-serie del ’84 in primis, ma anche Il giorno della civetta (1968) e Pizza connection (1985), certamente perché più noti, ma anche e soprattutto perché guardare la sua filmografia in toto rende la questione ben più complessa e persino contraddittoria. Questo anche escludendo le anomalie o gli unicum, e concentrandosi esclusivamente sul genere che lo ha reso famoso. L’action e il poliziesco si mischiano talvolta al dramma famigliare come nel caso di Un uomo in ginocchio (1980), oppure alla spy-story internazionale che guarda al cinema di Pollack e Pakula, come nel caso di Goodbye & Amen; troviamo il dramma carcerario (L’istruttoria è chiusa: dimentichi), il noir, e persino il trash (involontario) più spinto (Alex l’Ariete). 
Nel suo approccio alla materia, il regista de L’avvertimento (1980) non perde mai di vista la spettacolarità, il gusto del “genere”, il ritmo e la commerciabilità di un film, parola questa che qui in Italia, e solo qui, sembra quasi una bestemmia. Inoltre, la maniera di Damiani d’aver fuso la denuncia con il cinema di genere è stata naturale, con la creazione di film muscolari ma che, volendo essere anglofoni, si potrebbero definire dei ‘thinking man’s action movies”. 
Tralasciando per il momento Il sicario (1961), il cui incipit vagamente noir in realtà rivela un dramma intimista, il primo film del filone maestro del cinema di Damiani è Il giorno della civetta, che si aggiudicò una nomination al festival di Berlino di quell’anno. Nella Sicilia dei primissimi anni sessanta, il capitano Bellodi (Franco Nero), carabiniere ed ex partigiano, si ritrova in servizio in un piccolo paese a indagare sull'omicidio di Salvatore Colasberna, un impresario edile, ucciso per essersi rifiutato di lasciare un appalto a una ditta protetta dalla mafia. La sceneggiatura, scritta oltre che dal regista anche da Ugo Pirro, è tratta dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, che a sua volta prende spunto dall'omicidio del sindacalista Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca nel 1947. Uno dei punti di forza del film è la calma apparente e la minacciosa tranquillità che Damiani infonde alla pellicola, riuscendo inoltre a descrivere, mai banalmente, l’omertà strisciante nel paese e la sensazione di corruzione assoluta in qualsiasi ambito, sia politico che giudiziario, nonché ecclesiastico. 
Due anni dopo, Damiani torna in terra sicula con La moglie più bella, accompagnato dalla debuttante Ornella Muti, ma stavolta analizza la macchina dell’omertà dal suo interno. L’anno successivo inizia a sviluppare una nuova estetica personale e uno stile unico all’interno del filone, con il primo capitolo di un'ipotetica trilogia, con protagonista sempre Franco Nero, le cui location sono evidenti fin dai titoli: Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), L'istruttoria è chiusa: dimentichi (1971), il cui incipit ricorda non poco il bellissimo Detenuto in attesa di giudizio di Loy uscito lo stesso anno, e Perché si uccide un magistrato (1975), il meno riuscito in ritmo e tensione. 
Con il pressoché sconosciuto Goodbye & Amen - l’uomo della CIA (1978), Damiani rimane in un territorio simile, ma anche profondamente diverso dai film sopracitati. Anche qui la vicenda ruota intorno a un protagonista, o un gruppo di personaggi, nel tentativo di creare un affresco più ampio, un mosaico dal respiro internazionale. Qui, però, il tutto è molto più claustrofobico e il regista sembra giocare soprattutto con le suggestioni. Roma, ad esempio, se non nei titoli di testa, che si srotolano su una panoramica del centro storico, è obliterata, è un posto fatto di uffici e vetri (anche nelle scene in esterna Damiani non ricorre mai ai campi larghi), accentuando quel senso di non-luogo e di incertezza.   
Tratto dal romanzo di Francis Clifford, Sulla pelle di lui, edito nella collana Mondadori I segretissimi, il film ruota intorno a un distaccamento della CIA a Roma che sta preparando un attentato in un Paese africano. Le operazioni sono condotte dall’agente John Dannay (il sempre efficace Tony Musante), il quale scopre che Harry Lambert (Wolfango Soldati) è colpevole di atti di spionaggio e sta cercando di sabotare il loro piano. Nel frattempo, Douglas James Grayson (John Steiner, che ruba la scena a tutti) armato di fucile si barrica nell’Hotel Hilton prendendo in ostaggio la nobildonna romana De Mauro (Claudia Cardinale) e il suo giovane amante (Gianrico Tondinelli). Una serie di coincidenze fa pensare che il cecchino sia proprio Lambert, e mentre la polizia italiana intrattiene un duro braccio di ferro con il sequestratore, Dannay si rende conto del disguido, dovendo ora risolvere ben due situazioni spinose, con poco tempo a disposizione. 
Damiani abbandona quindi il tema della mafia, per firmare una pellicola che inizia come una classica spy - story, e che progressivamente diviene un thriller politico, puntellato da un'ossessiva e funzionale colonna sonora dei fratelli de Angelis. Asciutto e claustrofobico, Goodbye & Amen, girato back-to-back come il più noto Io ho paura, è uno dei migliori film di Damiani degli anni settanta. Da sottolineare anche la secchezza dei dialoghi, a cui manca del tutto la retorica che ci si potrebbe aspettare da un film di questo genere. In tal senso, va detto che nelle pellicole di Damiani non ci sono i connotati paternalistici e la ruffianaggine insita, ad esempio, in un certo cinema di Giuliano Montaldo o di un Giuseppe Ferrara. In sostanza, il suo cinema, per quanto certamente politicizzato, non è mai stato ‘di partito’ e, quindi, non è mai arrivato a usare il genere esclusivamente come confezione per veicolare tesi di matrice propagandistica. A dimostrazione di questo, si può notare quanto poco e per niente male siano invecchiati i suoi lavori rispetto a quelli di molti suoi colleghi. 
Da notare, inoltre, che questo è l’unico film in cui si parla e si fa menzione della presenza della CIA su suolo italiano. Tema che sarebbe interessante venisse trattato maggiormente, se certi scatoloni non fossero così irraggiungibili. L’ombra in certi angoli del nostro magazzino è davvero troppo fitta. 
  
Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Goodbye & Amen- l’uomo della CIA
Anno: 1978
Regia: Damiano Damiani
Sceneggiatura: Nicola Badalucco, Damiano Damiani
Fotografia: Luigi Kuveiller
Musiche: Guido e Maurizio de Angelis
Durata: 103 min
Attori principali: Tony Musante, Claudia Cardinale, John Steiner, John Forsythe, Wolfgango Soldati

0 Comments

IL RIVALE e DJANGO 2 - Il lontano West

17/2/2014

0 Comments

 
Immagine
Gli ottanta sono stati gli anni di un decennio mutevole e contraddittorio. Tra il 1987 e il 1988 assistiamo alla rielezione, per la terza volta, di Margaret Thatcher come primo ministro. A Ginevra USA e URSS firmano uno storico trattato per la riduzione degli arsenali nucleari e la distruzione degli euromissili. Scienziati statunitensi scoprono un buco dell'ozono sopra l'Antartide dalle dimensioni preoccupanti. 
Pochi mesi dopo, il dittatore cileno Augusto Pinochet viene cacciato da un referendum popolare, conservando però la carica di comandante delle forze armate. I Pink Floyd tornano alla ribalta dopo la scissione con il bassista Roger Waters con un nuovo album denominato A momentary lapse of reason, e con una nuova tournée mondiale della durata di tre anni, con alla guida il chitarrista David Gilmour. 
Mentre tutto questo accade, in Italia, la lotta di Fellini contro l’inserimento delle pubblicità nei film sta morendo. Neanche un monumento come il regista di 8½ può nulla per contrastare la lenta e inesorabile mutazione del cinema in un paese che dorme, ignaro, sotto la lava ribollente di Mani pulite, che da lì a poco sarebbe esplosa.        
Il cinema di genere, colonna vertebrale di quell’industria che stava assumendo i primi inquietanti connotati “para-statali” che all’inizio del decennio successivo avrebbero dato il definitivo colpo di grazia, stava sparando le ultime cartucce e arrivati, per l’appunto, al 1987, molti registi si trovarono estromessi, o lo sarebbero stati da lì a breve, da un cinematografia allo sbando. Fulci, ormai assicurata la sua immortalità con la cosiddetta “trilogia del terrore” e annientato dalla malattia, era divenuto l’ombra di stesso, cercando disperatamente di riproporre quel micidiale connubio di macabra poesia che l’aveva reso grande. Lenzi, pur rimanendo prolifico, non riusciva a centrare un film. Sergio Corbucci si trovava a trastullarsi con commedie corali lontane dalle sue corde. Massaccesi stava per vedere colare a picco la sua Filmirage, evento che lo porterà definitivamente a soccombere negli squallori del porno. 
Mentre le ragazze cin-cin e le proto-veline di Drive-In insieme ai volti paciosi della televisione generalista ballavano al ritmo dei Righeira sul corpo rantolante e moribondo di una realtà in disfacimento, il cinema reagiva senza reale cognizione di causa, strategia o selettività, puntando tutto sul mercato estero. A dettare le regole del gioco erano gli americani, cosa di sicuro non nuova, ma se un tempo l’Italia aveva avuto la forza, l’inventiva e le sovrastrutture per mutare le mode statunitensi in qualcosa di completamente diverso e al contempo assolutamente italiano, qui si tratta di un cinema “pappagallo”, che semplicemente fa il verso, perdendo in partenza. Gli americani fanno Rambo, allora Mattei si va a infrattare nelle Filippine. Loro fanno 1997 Fuga da New York, noi 2019 Dopo la caduta di New York et simili. Loro Karate Kid, noi Il ragazzo dal kimono d’oro e così via. 
Si possono, naturalmente, trovare eccezioni, tra chi cercava di battere strade alternative: produttori che tentavano di dare nuova linfa vitale a generi in voga nei decenni precedenti, e registi che provavano a tornare alla ribalta. Nei due anni presi in rassegna troviamo il ritorno di una colonna portante del western italiano, Giulio Petroni, da una parte, e il tentativo di rivitalizzare, appunto, lo spaghetti che tanto ha modificato e caratterizzato il nostro cinema, dall’altra.   
“Sono molto sensibile all’andamento stagionale. Quell’anno aspettavo una primavera che si rifiutava di arrivare. Non che avessi quest’urgenza d’immergermi nel gran sole o che detestassi il rigore dell’inverno. In fondo anche la pioggia o i cieli plumbei, i venti freddi e pungenti hanno i loro punti di fascino e io non li disprezzo.”  Con queste parole vagamente malinconiche inizia il romanzo di Giulio Petroni Il rivale. Un libro, come molti dell’autore, intimamente personale in cui è difficile scindere tra finzione letteraria e vissuto personale. Troviamo New York, dove Petroni ha vissuto per molto anni, amori tormentati, e di quelli il regista di Da uomo a uomo (1968) e Tepepa (1969) ne ha avuti molti, i profumi di terre orientali e i fantasmi di una castrante educazione religiosa. 
Tutti gli stilemi insomma del Petroni letterario sono presenti, ma lo sono anche in quello cinematografico dell’ultima fase, da Non commettere atti impuri (1972), passando per Crescete e moltiplicatevi (1973) e concludendo con Labbra di lurido blu (1975). L’avventura da scrittore di Petroni ha inizio nel ’61 con il controverso La città calda, edito da Feltrinelli, e continuerà negli anni con opere tanto autobiografiche da essere una sorta di “diari di bordo”. Il rivale esce nelle librerie nel marzo del 1980. Sette anni dopo, periodo in cui Petroni, superata sia la cocente delusione di aver visto il suo Labbra di lurido blu massacrato dalla critica che il disastro produttivo de L’osceno desiderio, cercava di mettere in piedi un nuovo film. Era arrivato il momento di rompere l’autoesilio. Inutile dire quale sia stato il risultato di questi sforzi. 
Il riavvicinamento alla settima arte sarà coperto dai giornali dell’epoca. Il Giornale, Libertà e Il Lavoro dedicheranno ampio spazio alla notizia, con Avvenire che addirittura intitola il pezzo: Giulio Petroni finalmente ritorna sul set. Franco è un uomo che vive solitario, con qualche difficoltà d’inserimento nella realtà sociale che lo circonda. Un giorno incontra due sorelle americane che stravolgono la sua vita, Cinthia e Raquel, vivaci, esuberanti e con un loro candore dovuto a un'educazione puritana. Franco, da questo incontro, scopre una nuova dimensione umana, e il fiore della passione non tarda a sbocciare. Inizia un tormentato triangolo d’amore vissuto e sudato tra gli Stati Uniti e Roma. 
È chiaro, leggendo il soggetto, depositato in Siae nel ’84, che il progetto nasceva con grosse ambizioni e speranze. Petroni si prende la briga di descrivere le atmosfere, i paesaggi metropolitani, e traspira dalla lettura la voglia, il desiderio di fare le cose in grande. Come si sia esattamente concretizzato il film tre anni dopo non ci è dato sapere; quello che si sa è che è finanziato dalla C.C.T., ed entra in produzione alla metà del ’87 con un budget a dir poco limitato. Il cast vede in primis il francese Michel Rocher, attore attivo sia in televisione che al cinema, che alcuni ricorderanno tra i protagonisti de L’Insegnante di Violoncello di Lorenzo Onorati. Al suo fianco l’attore argentino Nestor Garay, scomparso nel 2003, che si può trovare in film come Il vero e il Falso di Eriprando Visconti e Sono un Fenomeno Paranormale di Corbucci. Gli appassionati del western nostrano sicuramente saranno familiari, se non con il nome almeno con il volto, di Lucio Onorato, grazie a film come Navajo Joe, Gli Specialisti e I Giorni della Violenza.  Delle attrici che interpretano le due sorelle/sirene tentatrici, Nancy Mulliken e Eva Ravnbøl, non si sa nulla, tranne che dopo questa esperienza non metteranno più piede su un set. 
Le settimane di riprese filano lisce, gli unici problemi sono legati alla mancanza di finanziamenti adeguati che porta Petroni a scontrarsi più volte con la produzione, a tagliare scene e ridimensionare la sua visione. Rocher ricorda benissimo come la piccola troupe mandata a New York correva per la città, rubando, senza permessi, piccole scene qua e là.  Quello che succede a film girato è triste e comune. I fondi finiscono, i rubinetti si chiudono e a Petroni non è neanche consentito di doppiare e concludere come meglio crede il montaggio. Quello che rimane è l’ombra di un film. Come un bambino non amato, o amato da troppo poche persone, il cui potenziale, evidente sotto la superficie, è rimasto sprecato. 
Una vita, il film sembra avercela avuta comunque. Rocher ricorda di aver prestato la sua voce per un'edizione americana, e si è vociferato in passato di un passaggio televisivo su una rete austriaca. Il rivale è, come il protagonista del suo La notte dei serpenti (1970), western tra i meno conosciuti, un essere barcollante e piegato dalla vita, che a vederlo ricorda tempi migliori e infonde molta malinconia.   
Il western era un genere morto e sepolto. Quelle poche pellicole che si erano realizzate negli anni ottanta non le avevano viste neanche i familiari di chi le aveva ideate, e il catastrofico flop di quella che doveva essere la rinascita del genere, Tex e il signore degli abissi (1985) di Duccio Tessari, aveva definitivamente messo la parola fine sulla lapide del western italico. Non a caso, quando si trattò di  produrre Django 2 - Il grande ritorno, che nasceva come concept proprio insieme al film di Tessari, il produttore Spartaco Pizzi insieme al regista Nello Rosati, che subentrò dopo il rifiuto di Corbucci che ne firma il soggetto, scelgono un’impostazione che ha poco a che vedere con il genere a cui appartiene il capolavoro del '66. 
Il nostro eroe (Franco Nero) si è ritirato da quindici anni in un convento in Sudamerica. Un giorno gli giunge notizia che la sua unica figlia, Marisol, è stata rapita dal famigerato Orlowsky (Christopher Conelly nella sua ultima apparizione), un principe ungherese, dedito alla prostituzione e allo schiavismo, noto come El Diablo. Django si mette alla ricerca della figlia con l’aiuto del Professor Gunn (l’immenso Donald Pleasence) e un manipolo di Indio. Rosati, che si firma con lo pseudonimo Ted Archer, regista attivo soprattutto nella commedia più casereccia, dirige l’azione, che va detto è presente in abbondanza, senza verve né personalità. 
Seppur in un contesto storico diciamo pure westerneggiante, sul piano iconografico c’è un lavoro di rimozione del genere. Si pensi all’aspetto di Franco Nero, codino e cinte di proiettili incrociate sul petto, al contesto naturale (il film è girato interamente in Colombia) che guarda molto più ai Rambo e analoghi made in USA che al mercenario di nero vestito, divenuto icona ultra violenta di un cinema che non tornerà più. Difatti, il primo e l’unico sequel di Django è questo, il contenitore di vetro di un'eco lontana. Corbucci, padre del vero Django, morirà due anni dopo, nel 1990. Giulio Petroni non riuscirà  più ad avvicinarsi al cinema, e poco dopo scriverà un libro intitolato, forse non a caso, Il rancore. 

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Schede tecniche

Titolo originale: Il rivale
Anno: 1987/88
Regista: Giulio Petroni
Sceneggiatura: Giulio Petroni
Attori: Nestor Garay, Michel Rocher, Nancy Mulliken
Fotografia: Adolfo Bartoli
Musiche: Enzo Ricca
Durata: 87 min

Titolo originale: Django 2-Il grande ritorno
Anno: 1987
Regista: Nello Rosati
Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Franco Reggiani, Nello Rosati
Attori: Franco Nero, Donald Pleasence, Christopher Conolly
Fotografia: Sandro Marcori
Musiche: Gianfranco Plenzio
Durata: 88 min

0 Comments
<<Previous
    ITALIA: TERZA VISIONE

    CATEGORIE
    DELLA SEZIONE

    Tutti
    Bestialità
    Bisturi - La Mafia Bianca
    Bud Spencer
    Cannibal Movies
    Cesare Canevari
    Charlotte Rampling
    Claudia Cardinale
    Corrado Pani
    Damiano Damiani
    Dino De Laurentiis
    Dio Perdona Io No
    Django 2
    Ennio Morricone
    Enrico Maria Salerno
    Fernando Di Leo
    Franco Nero
    Franco Prosperi
    Gabriele Ferzetti
    Giulio Petroni
    Giuseppe Colizzi
    Goodbye & Amen
    Gualtiero Jacopetti
    Il Rivale
    I Padroni Della Città
    I Quattro Dell'ave Maria
    Jack Palance
    John Steiner
    Labbra Di Lurido Blu
    La Collina Degli Stivali
    Laura Antonelli
    Le Malizie Di Venere
    Leonora Fani
    Lisa Gastoni
    L'occhio Selvaggio
    L'orca Assassina
    Lou Castel
    Luigi Montefiori
    Luigi Zampa
    Massimo Dallamano
    Matalo!
    Mondo Movies
    Nello Rosati
    Paolo Cavara
    Peter Skerl
    Philippe Leroy
    Richard Harris
    Riz Ortolani
    Ruggero Deodato
    Silvia Petroni
    Terence Hill
    Tony Musante
    Ultimo Mondo Cannibale
    Venere In Pelliccia
    Wild Beasts

    Feed RSS

Powered by Create your own unique website with customizable templates.