Petroni sminuiva e depistava, e l’impressione finale è che tutto questo fosse mirato a far sì che Labbra di lurido blu venisse considerato e ricordato, da tutti, come il suo ultimo film. Il canto del cigno, l’ultima mano di una partita giocata troppo in fretta. Petroni amava i colpi di scena ma non la teatralità, i toni altisonanti. La sua anima malinconica glielo impediva e Labbra di lurido blu era il sipario perfetto con cui uscire di scena camminando. Un film incompreso, un regista amareggiato con più demoni che buon senso, una diva sul viale del tramonto, uno scandalo offuscante. Tutti gli ingredienti perfetti per la chiusura di una carriera dalla difficile collocazione.
Si potrebbe quasi dire che tutte le scelte di Petroni lo abbiano portato, inevitabilmente, a Labbra di lurido blu, ma per capire meglio bisogna tornare all’inizio di quel folle decennio. Agli albori degli anni settanta Petroni era, come direbbero gli inglesi, “at the top of his game”. Prolifico quanto basta, viaggiando su una media di un film all’anno, il regista veniva da un decennio di successi in cui si era guadagnato budget, cast e potere contrattuale al di sopra della media. La sfilza di successi western (soprattutto il tris di Da uomo a uomo – E per tetto un cielo di stelle –Tepepa) lo aveva posto al centro dell’attenzione. De Laurentiis, in quel momento nella fase di transizione dall’Italia agli Stati Uniti, gli propose un film, le sceneggiature si accumulavano nel suo ufficio ai Parioli e le possibilità erano infinite. Vinse su tutto, però, la vena autodistruttiva di Petroni, pulsante e mimetizzata sotto il desiderio forte di emancipazione.
“L’idea di cimentarmi nelle vesti di produttore mi era già venuta parecchio tempo prima. Il mio rapporto con questa figura è sempre stato difficile già all’epoca di Emo Bistolfi che produsse Una domenica d’estate e I soliti rapinatori a Milano. Un uomo rozzo, gretto, sprovvisto anche solo di un barlume di umorismo o autoironia. Da uomo a uomo, E per tetto un cielo di stelle e Tepepa erano stati successi incredibili e io volevo cogliere l’occasione di emanciparmi. Con Non commettere atti impuri sono riuscito finalmente a fare questo passo. Il western aveva ormai fatto il suo corso e in me è cominciato a crescere il desiderio di esplorare nuovi territori e di assumere più controllo sui miei film; non che non lo avessi avuto fino a quel momento ma, forse anche ingenuamente, volevo limitare il più possibile i compromessi. Un azzardo che ho pagato caro”.
Cosi Petroni descrive l’idea di fondare l’Azalea, la sua casa di produzione. I tre film che lui produrrà, inframezzati soltanto dal suo ultimo western (La vita a volte è molto dura vero Provvidenza?, 1972), sono legati insieme da tematiche e suggestioni così indissolubilmente simili da comporre una sorta di trilogia. In Non commettere atti impuri (1971), Crescete e moltiplicatevi (1973) e Labbra di lurido blu (1975), tutti film per cui Petroni non ha badato a spese, le musiche di Morricone e Ortolani puntellano un’atmosfera pervasa da blasfema morbosità. Infatti, nonostante i cambi di registro tra i tre titoli nonché all’interno degli stessi, a tenerli saldamente insieme è un miscuglio, spesso agrodolce, tra religione, sessualità e famiglia, racchiuso nel microcosmo della provincia.
Crocifissi e corpi nudi, maschere di perbenismo e desideri sussurrati, traumi inconfessabili e nuclei familiari dilaniati dallo scandalo: Petroni è impietoso nei suoi ritratti ma, al contrario dei suoi colleghi intenti in progetti analoghi, lui non assume mai un ruolo giudicante. Petroni riprende le sue creature deformi e incomprese con sguardo oggettivo, persino compassionevole. Il moralismo, specie quello appartenente a un retaggio cattolico, non esiste nel suo cinema; un esempio perfetto è proprio l’ultimo dei tre film, il più ambizioso.
Ely (Lisa Gastoni) e Marco (Corrado Pani) sono due anime rotte, due fantasmi attanagliati da traumi infantili che ancora pervadono ogni loro gesto, ogni loro decisione. Forse per trovare insieme una via d'uscita dalle loro deviazioni, forse per sostenersi a vicenda, i due si sposano. Il matrimonio, però, non risolve i loro problemi, né li facilita l'inaspettato ritorno di George, l'antiquario inglese già "amico" di Marco, che ora lotta per strapparlo a Ely. Inevitabile quanto scioccante il tragico finale, macchiato di sangue.
“Tinte gialle”, “fumettistico”, “a tratti surrealista”: questi i termini usati da molti critici dell’epoca per tentare di decifrare l’approccio stilistico di Petroni. In effetti il film sembra essere rinchiuso in una bolla, in cui tutto pare galleggiare. L'inizio ha la solennità di un western: esterno, giorno; strade di campagna isolate e vuote; silenzio; un donna in auto; alle sue spalle una desertica pompa di benzina. Un giovane in motocicletta si accosta e senza togliersi il grosso casco nero annuncia lapidariamente: “George vuole vederla”. I motori si accendono. “Mi segua”. Musica. Titoli di testa. A seguire i credits una sequenza lunga e psichedelica, grottesca e surreale, all’interno di una chiesa sconsacrata in cui la Gastoni verrà presa e picchiata, spogliata e derisa, un’umiliazione che sembra dipanarsi in una sorta di balletto i cui coreografi sono un gruppo di demoni in lattice, di fetish-punk ante litteram. Quel che balza subito agli occhi è la cura nel dettaglio, nella fotografia, i fluidi e ricercati movimenti di macchina. Petroni inizia il suo film con l’intenzione di sedurre quanto di alienare.
Se nei precedenti due film targati Azalea trovavamo un’atmosfera brillante contaminata da improvvisi sprazzi di violenza e malsana sessualità, questa pellicola è esattamente il contrario, essendo del tutto ermetica a elementi dissacranti. All’apparenza potrebbe fare eccezione la “leggerezza” delle sequenze tra il giardiniere Santercole e la cameriera Halbritter, ma sulla lunga distanza queste risultano, nel loro stridere, funzionali a creare un’ulteriore morbosità. La macchina da presa è quasi sempre stretta sui due protagonisti, in un delicato avanti-indietro tra le loro vite vicine ma separate, e sui momenti salienti dei loro dolorosi passati (ottimo l’uso, in tal senso, dei flashback).
Sarebbe facile, e viene naturale, collocare Labbra di lurido blu (il titolo è la traduzione di un verso di Shelley) all’interno di quel macro-filone, di quel magma informe che è stato il cinema erotico-intellettualistico degli anni settanta. Per il contesto provinciale, per la presenza della Gastoni o per il tasso di erotismo, Labbra sembra infilarsi perfettamente nelle mode del cinema erotico-borghese in cui militavano registi come Salvatore Samperi (Scandalo – proprio con la Gastoni – è di pochi anni prima), Bruno Gaburro, Peter Skerl, Massimo Pirri, Maurizio Liverani, Alberto Bevilacqua, Luigi Scattini, Silvio Amadio. Autori diversi ma uniti nel tentativo di raccontare storie di nuclei familiari, tradizionali o meno, che diventassero specchio di un'Italia mutevole, condendo i loro racconti con ingredienti voyeuristici e pruriginosi. Ma il film di Petroni si discosta da questo approccio per vari motivi, rendendosi un unicum nel genere.
Innanzitutto Labbra di lurido blu è scevro da retaggi e influenze politiche. La storia si svolge nell’anno della realizzazione del film e non ci sono riferimenti alla morte dei valori sessantottini, alla controcultura giovanile, al partito comunista, alla fascismo o alla DC. Petroni è intimista fino in fondo: non troviamo il tentativo, spesso posticcio, di rendere la vita dei personaggi metafora della vita politica del paese, della morte delle ideologie. Non troviamo un simil Ugo Tognazzi, come in Nenè (esempio in tal senso perfetto, datato 1978) di Samperi la cui presenza è giustificata soltanto dal tentativo di donare forzatamente un’ulteriore chiave di lettura.
Inoltre l’erotismo messo in scena da Petroni è repulsivo, genuinamente respingente. I nudi e le situazioni forti sono molti, ma Petroni non muove la sua macchina da presa con rustico compiacimento, con goduriosa curiosità. Lui riprende e basta. Freddo e distaccato come un’autopsia. Labbra di lurido blu è esattamente questo, l’autopsia di un desiderio. Personaggi morenti ripresi nel loro spleen maledetto, nel loro boccheggiare. I culi esposti di Gabburro e Amadio, giusto per citarne due, non hanno nulla in comune con la pelle nuda dei personaggi di Petroni.
Se però nel riprendere la sessualità e il sesso il regista di Tepepa è distaccato, nel descrivere i suoi personaggi non lo è minimamente. La ninfomane piegata dalla vita e il marito attanagliato da un’omosessualità repressa sono ripresi ad altezza d’occhi, mai un palmo sopra. La Gastoni ricorda quanto Petroni si arrabbiasse quando lei descriveva il suo personaggio come una poco di buono: “Una volta me ne uscii definendola una puttana e Giulio si arrabbiò. ‘Non devi dire così! Lei è alla ricerca di se stessa’”. Sarà per questo modus operandi di Petroni che in Ely abbiamo il ritratto più introspettivo e veritiero della ninfomania (anche se questo termine non viene mai menzionato nella pellicola) che si possa trovare nel cinema italiano.
Quanto all’Azalea, nessuno dei tre film fu un flop ma Petroni, che notoriamente era un pessimo amministratore economico, per ogni pellicola si indebitò sempre di più. Questo, unito ad uno stile di vita sempre più costoso, fece sì che la vita della casa di produzione fosse molto breve. Nonostante le intenzioni onorevoli di volersi distaccare dalle mode cinematografiche correnti e di esplorare nuovi territori, Petroni si trovò inseguito dalle banche e con il film del ’75 il gioco finì. Si vide portar via la sua cascina in Umbria, il vasto terreno circostante e il suo allevamento di maiali.
“Difficilmente penso alle conseguenze delle mie azioni”, scrisse in un suo libro autobiografico (Passeggiate nelle sabbie mobili), e così fu per la sua vita da produttore. Le critiche feroci a Labbra di lurido blu insieme all’inizio della vera crisi cinematografica fecero il resto. “Io non credo di aver meritato il linciaggio di cui sono stato vittima in seguito all’uscita di Labbra di lurido blu. Volevo gettare luce su un problema che a metà degli anni settanta era molto forte… una parte della società che non riusciva ad analizzarsi, a guardarsi dentro; era in uno stato conflittuale con se stessa: da una parte c’erano i desideri, le voglie, e dall’altra il peso dei tabù ancora forti che schiacciava le volontà. Il film ha avuto un discreto successo di pubblico che ha scelto di non dar peso alla critica che mi massacrava. Forse non sono riuscito nei miei intenti, ma almeno, se queste aggressioni fossero uscite fuori da un’analisi degli intenti e contenuti della pellicola, allora, sarebbe stato sopportabile; invece era tutto gratuito e immotivato. Nulla fu più come prima dopo Labbra di lurido blu”.
Eugenio Ercolani
Sezione di riferimento: Italia Terza Visione
Intervista a Giulio Petroni realizzata da Eugenio Ercolani e tratta dall'articolo apparso su Nocturno Cinema (N 92 - Aprile 2010)
Scheda tecnica
Regia: Giulio Petroni
Sceneggiatura: Franco Bottari, Giulio Petroni
Musiche: Ennio Morricone
Fotografia: Gabor Pogany
Anno: 1975
Durata: 120'
Attori: Lisa Gastoni, Corrado Pani, Jeremy Kemp, Gino Santercole, Hélène Chanel
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