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IL RIVALE e DJANGO 2 - Il lontano West

17/2/2014

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Gli ottanta sono stati gli anni di un decennio mutevole e contraddittorio. Tra il 1987 e il 1988 assistiamo alla rielezione, per la terza volta, di Margaret Thatcher come primo ministro. A Ginevra USA e URSS firmano uno storico trattato per la riduzione degli arsenali nucleari e la distruzione degli euromissili. Scienziati statunitensi scoprono un buco dell'ozono sopra l'Antartide dalle dimensioni preoccupanti. 
Pochi mesi dopo, il dittatore cileno Augusto Pinochet viene cacciato da un referendum popolare, conservando però la carica di comandante delle forze armate. I Pink Floyd tornano alla ribalta dopo la scissione con il bassista Roger Waters con un nuovo album denominato A momentary lapse of reason, e con una nuova tournée mondiale della durata di tre anni, con alla guida il chitarrista David Gilmour. 
Mentre tutto questo accade, in Italia, la lotta di Fellini contro l’inserimento delle pubblicità nei film sta morendo. Neanche un monumento come il regista di 8½ può nulla per contrastare la lenta e inesorabile mutazione del cinema in un paese che dorme, ignaro, sotto la lava ribollente di Mani pulite, che da lì a poco sarebbe esplosa.        
Il cinema di genere, colonna vertebrale di quell’industria che stava assumendo i primi inquietanti connotati “para-statali” che all’inizio del decennio successivo avrebbero dato il definitivo colpo di grazia, stava sparando le ultime cartucce e arrivati, per l’appunto, al 1987, molti registi si trovarono estromessi, o lo sarebbero stati da lì a breve, da un cinematografia allo sbando. Fulci, ormai assicurata la sua immortalità con la cosiddetta “trilogia del terrore” e annientato dalla malattia, era divenuto l’ombra di stesso, cercando disperatamente di riproporre quel micidiale connubio di macabra poesia che l’aveva reso grande. Lenzi, pur rimanendo prolifico, non riusciva a centrare un film. Sergio Corbucci si trovava a trastullarsi con commedie corali lontane dalle sue corde. Massaccesi stava per vedere colare a picco la sua Filmirage, evento che lo porterà definitivamente a soccombere negli squallori del porno. 
Mentre le ragazze cin-cin e le proto-veline di Drive-In insieme ai volti paciosi della televisione generalista ballavano al ritmo dei Righeira sul corpo rantolante e moribondo di una realtà in disfacimento, il cinema reagiva senza reale cognizione di causa, strategia o selettività, puntando tutto sul mercato estero. A dettare le regole del gioco erano gli americani, cosa di sicuro non nuova, ma se un tempo l’Italia aveva avuto la forza, l’inventiva e le sovrastrutture per mutare le mode statunitensi in qualcosa di completamente diverso e al contempo assolutamente italiano, qui si tratta di un cinema “pappagallo”, che semplicemente fa il verso, perdendo in partenza. Gli americani fanno Rambo, allora Mattei si va a infrattare nelle Filippine. Loro fanno 1997 Fuga da New York, noi 2019 Dopo la caduta di New York et simili. Loro Karate Kid, noi Il ragazzo dal kimono d’oro e così via. 
Si possono, naturalmente, trovare eccezioni, tra chi cercava di battere strade alternative: produttori che tentavano di dare nuova linfa vitale a generi in voga nei decenni precedenti, e registi che provavano a tornare alla ribalta. Nei due anni presi in rassegna troviamo il ritorno di una colonna portante del western italiano, Giulio Petroni, da una parte, e il tentativo di rivitalizzare, appunto, lo spaghetti che tanto ha modificato e caratterizzato il nostro cinema, dall’altra.   
“Sono molto sensibile all’andamento stagionale. Quell’anno aspettavo una primavera che si rifiutava di arrivare. Non che avessi quest’urgenza d’immergermi nel gran sole o che detestassi il rigore dell’inverno. In fondo anche la pioggia o i cieli plumbei, i venti freddi e pungenti hanno i loro punti di fascino e io non li disprezzo.”  Con queste parole vagamente malinconiche inizia il romanzo di Giulio Petroni Il rivale. Un libro, come molti dell’autore, intimamente personale in cui è difficile scindere tra finzione letteraria e vissuto personale. Troviamo New York, dove Petroni ha vissuto per molto anni, amori tormentati, e di quelli il regista di Da uomo a uomo (1968) e Tepepa (1969) ne ha avuti molti, i profumi di terre orientali e i fantasmi di una castrante educazione religiosa. 
Tutti gli stilemi insomma del Petroni letterario sono presenti, ma lo sono anche in quello cinematografico dell’ultima fase, da Non commettere atti impuri (1972), passando per Crescete e moltiplicatevi (1973) e concludendo con Labbra di lurido blu (1975). L’avventura da scrittore di Petroni ha inizio nel ’61 con il controverso La città calda, edito da Feltrinelli, e continuerà negli anni con opere tanto autobiografiche da essere una sorta di “diari di bordo”. Il rivale esce nelle librerie nel marzo del 1980. Sette anni dopo, periodo in cui Petroni, superata sia la cocente delusione di aver visto il suo Labbra di lurido blu massacrato dalla critica che il disastro produttivo de L’osceno desiderio, cercava di mettere in piedi un nuovo film. Era arrivato il momento di rompere l’autoesilio. Inutile dire quale sia stato il risultato di questi sforzi. 
Il riavvicinamento alla settima arte sarà coperto dai giornali dell’epoca. Il Giornale, Libertà e Il Lavoro dedicheranno ampio spazio alla notizia, con Avvenire che addirittura intitola il pezzo: Giulio Petroni finalmente ritorna sul set. Franco è un uomo che vive solitario, con qualche difficoltà d’inserimento nella realtà sociale che lo circonda. Un giorno incontra due sorelle americane che stravolgono la sua vita, Cinthia e Raquel, vivaci, esuberanti e con un loro candore dovuto a un'educazione puritana. Franco, da questo incontro, scopre una nuova dimensione umana, e il fiore della passione non tarda a sbocciare. Inizia un tormentato triangolo d’amore vissuto e sudato tra gli Stati Uniti e Roma. 
È chiaro, leggendo il soggetto, depositato in Siae nel ’84, che il progetto nasceva con grosse ambizioni e speranze. Petroni si prende la briga di descrivere le atmosfere, i paesaggi metropolitani, e traspira dalla lettura la voglia, il desiderio di fare le cose in grande. Come si sia esattamente concretizzato il film tre anni dopo non ci è dato sapere; quello che si sa è che è finanziato dalla C.C.T., ed entra in produzione alla metà del ’87 con un budget a dir poco limitato. Il cast vede in primis il francese Michel Rocher, attore attivo sia in televisione che al cinema, che alcuni ricorderanno tra i protagonisti de L’Insegnante di Violoncello di Lorenzo Onorati. Al suo fianco l’attore argentino Nestor Garay, scomparso nel 2003, che si può trovare in film come Il vero e il Falso di Eriprando Visconti e Sono un Fenomeno Paranormale di Corbucci. Gli appassionati del western nostrano sicuramente saranno familiari, se non con il nome almeno con il volto, di Lucio Onorato, grazie a film come Navajo Joe, Gli Specialisti e I Giorni della Violenza.  Delle attrici che interpretano le due sorelle/sirene tentatrici, Nancy Mulliken e Eva Ravnbøl, non si sa nulla, tranne che dopo questa esperienza non metteranno più piede su un set. 
Le settimane di riprese filano lisce, gli unici problemi sono legati alla mancanza di finanziamenti adeguati che porta Petroni a scontrarsi più volte con la produzione, a tagliare scene e ridimensionare la sua visione. Rocher ricorda benissimo come la piccola troupe mandata a New York correva per la città, rubando, senza permessi, piccole scene qua e là.  Quello che succede a film girato è triste e comune. I fondi finiscono, i rubinetti si chiudono e a Petroni non è neanche consentito di doppiare e concludere come meglio crede il montaggio. Quello che rimane è l’ombra di un film. Come un bambino non amato, o amato da troppo poche persone, il cui potenziale, evidente sotto la superficie, è rimasto sprecato. 
Una vita, il film sembra avercela avuta comunque. Rocher ricorda di aver prestato la sua voce per un'edizione americana, e si è vociferato in passato di un passaggio televisivo su una rete austriaca. Il rivale è, come il protagonista del suo La notte dei serpenti (1970), western tra i meno conosciuti, un essere barcollante e piegato dalla vita, che a vederlo ricorda tempi migliori e infonde molta malinconia.   
Il western era un genere morto e sepolto. Quelle poche pellicole che si erano realizzate negli anni ottanta non le avevano viste neanche i familiari di chi le aveva ideate, e il catastrofico flop di quella che doveva essere la rinascita del genere, Tex e il signore degli abissi (1985) di Duccio Tessari, aveva definitivamente messo la parola fine sulla lapide del western italico. Non a caso, quando si trattò di  produrre Django 2 - Il grande ritorno, che nasceva come concept proprio insieme al film di Tessari, il produttore Spartaco Pizzi insieme al regista Nello Rosati, che subentrò dopo il rifiuto di Corbucci che ne firma il soggetto, scelgono un’impostazione che ha poco a che vedere con il genere a cui appartiene il capolavoro del '66. 
Il nostro eroe (Franco Nero) si è ritirato da quindici anni in un convento in Sudamerica. Un giorno gli giunge notizia che la sua unica figlia, Marisol, è stata rapita dal famigerato Orlowsky (Christopher Conelly nella sua ultima apparizione), un principe ungherese, dedito alla prostituzione e allo schiavismo, noto come El Diablo. Django si mette alla ricerca della figlia con l’aiuto del Professor Gunn (l’immenso Donald Pleasence) e un manipolo di Indio. Rosati, che si firma con lo pseudonimo Ted Archer, regista attivo soprattutto nella commedia più casereccia, dirige l’azione, che va detto è presente in abbondanza, senza verve né personalità. 
Seppur in un contesto storico diciamo pure westerneggiante, sul piano iconografico c’è un lavoro di rimozione del genere. Si pensi all’aspetto di Franco Nero, codino e cinte di proiettili incrociate sul petto, al contesto naturale (il film è girato interamente in Colombia) che guarda molto più ai Rambo e analoghi made in USA che al mercenario di nero vestito, divenuto icona ultra violenta di un cinema che non tornerà più. Difatti, il primo e l’unico sequel di Django è questo, il contenitore di vetro di un'eco lontana. Corbucci, padre del vero Django, morirà due anni dopo, nel 1990. Giulio Petroni non riuscirà  più ad avvicinarsi al cinema, e poco dopo scriverà un libro intitolato, forse non a caso, Il rancore. 

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Schede tecniche

Titolo originale: Il rivale
Anno: 1987/88
Regista: Giulio Petroni
Sceneggiatura: Giulio Petroni
Attori: Nestor Garay, Michel Rocher, Nancy Mulliken
Fotografia: Adolfo Bartoli
Musiche: Enzo Ricca
Durata: 87 min

Titolo originale: Django 2-Il grande ritorno
Anno: 1987
Regista: Nello Rosati
Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Franco Reggiani, Nello Rosati
Attori: Franco Nero, Donald Pleasence, Christopher Conolly
Fotografia: Sandro Marcori
Musiche: Gianfranco Plenzio
Durata: 88 min

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