Considerando la maniera convulsamente schizofrenica in cui abbiamo e stiamo, tuttora, assorbendo e rielaborando il nostro Novecento, non c’è da stupirsi che, anche nel cercare di comprendere, ordinare e riabilitare una fetta del nostro cinema, si sia andati a creare un magma informe. Una sorta di landa di oasi luminescenti e paludi pulsanti, abitata da una fauna tanto ricca ed esotica quanto contraddittoria e incompatibile. Se, da una parte, ci sono realtà editoriali, portali, firme e saggi capaci di rigore filologico e storiografico, che compiono un’analisi critica reale, senza snaturare intenti e contesti delle opere e dei suoi autori, dall’altra c’è il caos più assoluto, spesso generato da persone con “il cuore al posto giusto”.
A essere lastricata di buone intenzioni non è solo la strada verso l’inferno, ma anche quella verso le fiamme dell’attuale critica cinematografica italiana. Quindi, quelle firme davvero utili alla comprensione, nonché all’apprezzamento (parola da intendere nella sua accezione più ampia) di questo cinema, si ritrovano a dover mettere ordine lì dove altri hanno alimentato mal informazione, o dove hanno aiutato a creare ritratti erronei e aspettative fuori luogo. Insomma, anche in quest’ambito siamo profondamente italiani.
Se si dovesse prendere un regista come esempio della bipolarità che regna sovrana nell’approccio al cosiddetto "cinema di genere", un candidato ideale sarebbe senz'altro lui, il “poster boy” della rivalutazione selvaggia: Fernando Di Leo (San Ferdinando di Puglia, 11 gennaio 1932 – Roma, 1° dicembre 2003). Bastano pochi balzi da un sito all’altro per rendersi conto che è impossibile rendersi conto. Almeno, certamente, per una persona che si affaccia a questo regista per la prima volta. Si possono trovare i termini più discordanti con cui tentare di identificare il suo cinema: “trash” (termine desueto, che fa tanto anni novanta), “genio”, “trash d’autore” (la sublime apoteosi del nulla), “capolavoro”, “noioso”, “pulp”, “tarantiniano” (parola buona per tutte le stagioni), “b movie”, “z movie”, “grande”, “il più grande”.
Conseguenzialmente, viene da chiedersi il perché questo gioco degli estremi opposti. Com'è possibile che un paese capace di circondare alcuni personaggi di un filo spinato invarcabile, la cui messa in discussione può portare a conseguenze che vanno ben oltre la sfera cinematografica, sia capace, al contempo, di renderne altri così sventolanti e inafferrabili? La ragione è da trovarsi nelle pieghe della politica, naturalmente, nel modo in cui pervade il nostro paese, la politica del cinema, nonché nella mancanza di politicizzazione di certi autori o delle pellicole che realizzavano.
In questo senso, i migliori lavori di Fernando Di Leo sono quelli in cui la politica è filtrata dalla scelta del singolo. A Di Leo non interessa stabilire che cos’è giusto e cosa non lo è; non c’è un discorso sociologico, non ci sono arringhe, ma solo un ritmico riprendere delle dinamiche, scevre dal fardello del moralismo, tanto più politicizzato. La corruzione di funzionari, le crepe nel sistema giudiziario, la violenza dello stato, la passività degli organi statali sono realistici, ma, al contempo, apparentemente “casuali”, essendo elementi all’interno di un ingranaggio più grande e mai spettacolarizzati.
Quindi, per un film come Il boss, succede che il ministro dei rapporti con il parlamento Giovanni Gioia presenta una querela per diffamazione, sostenendo che in una scena (nella quale il personaggio di Pier Paolo Capponi elenca una serie di mafiosi) veniva fatto il suo nome, insieme a quelli di Tommaso Buscetta e Salvo Lima. In seguito alla sua denuncia, il film fu sequestrato e il regista, insieme al presidente della società di distribuzione e al legale della casa di produzione Daunia '70, fu convocato per il processo, che però non si fece mai, in quanto Gioia ritirò la denuncia. Va detto che la scena in cui Capponi fa il sopracitato elenco, per l’esattezza in un obitorio, potenzialmente poteva essere un momento di sola “expositation” (termine inglese per identificare momenti filmici il cui scopo è solo quello di dare informazioni utili allo spettatore al fine di portare avanti la storia).
Questo modus operandi nei confronti della morale è alla base del cinema noir, ed è il motivo per cui i film di Fernando Di Leo non sono definibili come polizieschi. Se, indubbiamente, il poliziesco italico “classico” (Castellari, Lenzi, Massi etc) parte da una costola di un certo tipo di cinema di denuncia, sviluppatosi alla fine degli anni Sessanta, il vero padre è il western. Il grande racket, Napoli violenta, Il cinico, l’infame, il violento svolgono la stessa funziona catartica del western. Di Leo, invece, non regala il conforto della catarsi e di certo non guarda al west.
La nebbiolina che ingloba delicatamente i navigli milanesi, fumo di sigarette e aliti alcolici, mani sudate che si passano banconote immacolate, vicoli macchiati di urina, schizzi di sangue su camicie bianche, profumi scadenti su pelli in vendita, rossetti invitanti su labbra mentitrici, umide lenzuola di motel e passi che rompono il silenzio in porti notturni, visi lisci dietro scrivanie del potere, corridoi di marmo e borse da ginnastica da poche lire piene di banconote, salette cinematografiche dai sedili incrostati, sguardi maliziosi e silenziatori avvitati su tetti vuoti: il cinema noir di Fernando di Leo è un perverso mosaico non dissimile, nell’approccio, a quello di un Jim Thompson. Il regista di Milano calibro 9 ha più volte dichiarato di essere cresciuto con i volti di Edward G Robinson, Paul Muni, George Raft, Clark Gable e James Cagney (insomma, con i gangster e i G Men della Warner degli anni ‘30/’40), così come non ha mai fatto segreto del suo amore per Jean Pierre Melville (a cui è stato, talvolta, accostato).
Quindi certi elementi estetici superficialmente riconducibili al poliziesco di matrice classica si uniscono a un approccio alla morale tipico di un cinematografia gangsteristica americana e francese precedente, e la carta porosa di una certa letteratura noir si mescola con quella liscia delle pagine dei giornali italiani, con l’indice umido pronto a passare dalla sezione politica a quella di cronaca nera. Un mondo cinico e nero, corrotto e maleodorante, asfissiante e violento, da molti definito pulp.
Certamente, prima che la parola pulp diventasse un termine usa e getta a cui affibbiare con casualità definizioni e significati talvolta diametralmente opposti, o, peggio ancora, prima che divenisse sinonimo di qualsiasi cosa fatta, scritta o detta da Tarantino, prima di tutto questo, a rappresentare l’equivalente italiano di questa abusatissima parola c’era sicuramente Fernando di Leo. Ma, se torniamo alla radice di questo termine e prendiamo le immortali parole di Frank Munsey, ex telegrafista inventore del formato delle riviste pulp, “la vicenda è più importante della carta", ci rendiamo conto dei limiti di tale etichettatura. È indubbio che la forza del regista di Milano Calibro 9 è la scrittura, la parola, che portava a una visione iperbolica e sopra le righe di una fetta del belpaese. Di Leo, vale la pena ricordare, nasce come sceneggiatore di alcuni dei più importanti western italici e, in seguito, sarà anche uno stimato, seppur poco conosciuto, romanziere.
I film di Di Leo non sono sempre confezionati perfettamente; alcuni titoli sono ricchi di sbavature, come lo sono le frasi di uno scrittore beat, ed esattamente come queste ultime sono colmi di ritmo. Nel parlare del suo approccio registico vengono alla mente le parole del teorico russo Vladimir Jankélévic riguardo alla sua filosofia di difficile delimitazione epistemologica della musica, l’arte astratta e metafisica per eccellenza. Il carattere di realtà non-reale concerne l'elemento primario della musica: il suono è reale per il fatto che scompare nell'istante stesso in cui sorge. Esattamente questo: come per la magia o la chiaroveggenza, come lo stesso Jankélévic definisce i suoni e rimandi della musica, certi registi creano mosaici che trascendono i loro personaggi e donano, a chi guarda, qualcosa che somiglia più a uno spartito musicale, pieno di misteriose “vibrazioni” e suggestioni inafferrabili. Di Leo non dirige i suoi film, li compone, e i suoi personaggi danzano un ballo di morte al ritmo funky-jazz da squallido night club. Come nel caso di questa pellicola diretta al calar del suo decennio più fortunato.
Il biondo e taciturno Ric (Pierluigi Conti a.k.a Al Cliver) incrocia la propria strada con quella di Tony (il tedesco Harry Baer), che lavora al servizio di un piccolo boss della mafia, Luigi Cerchio (Edmond Purdom). Lo convince a unire le loro forze e con l’aiuto di un saggio e attempato criminale da strada, Vincenzo Napoli (Vittorio Caprioli), riescono a mettere Cerchio contro Lo Sfregiato (Jack Palance), che tiene in pugno tutte le attività illecite della città. Le motivazioni di Ric, però, non sono legate al denaro o al potere. Lui con Lo Sfregiato ha un conto personale da regolare. Diversamente dalla cosiddetta “trilogia del milieu” (composta da Milano calibro 9, La mala ordina e Il boss), in questa co-produzione italo-tedesca scendiamo nella scala gerarchica della criminalità, trovandoci a navigare tra bische clandestine, fumose sale da biliardo, baracche fatiscenti di periferia, sparatorie al mattatoio e rigonfi marciapiedi di Roma.
Siamo in un territorio meno rigoroso rispetto ai suoi film precedenti, e le vicende di questi loser ai margini della criminalità vengono striate da un’ironia accentuata. Del resto, non si può prescindere dai tempi che correvano. I padroni della città esce nelle sale il 3 dicembre 1976, quando ormai il poliziesco stava attraversando una metamorfosi molto simile a quella del western, all’inizio del stesso decennio. Dopo aver esplorato i territori più neri, violenti e spietati, nonché le variazioni più disparate dal noir alle tonalità “gialle”, il genere si stava andando ad arenare su lidi ben più light. Ricordiamoci che lo stesso anno escono anche Il trucido e lo sbirro di Umberto Lenzi e Squadra antiscippo di Bruno Corbucci, film che decretano l’inizio del periodo “Monnezza”. Se il precedente Gli amici di Nick Hezard è un divertissement, che rappresenta un’eccezione nella filmografia di Di Leo, avendo come modello La stangata di George Roy Hill, qui l’ironia si fonde con il genere “maestro” della sua filmografia. I pre-titoli di testa, illuminati da una fotografia flou a cura di Erico Menczer, gli stessi titoli di testa, puntellati dalla musica di Bacalov, la lunga sequenza nel mattatoio, nonché certi dialoghi secchi hanno la forza e l’impatto del miglior Di Leo.
Se, da una parte, Jack Palance, l’habitué Vittorio Caprioli, nonché la lunga lista di volti tipici del cinema del regista pugliese (Carmelo Reale, Salvatore Billa, Raul Lo Vecchio, Fernando Cerulli, Mario Novelli) funzionano perfettamente, non si può dire lo stesso dei due protagonisti. Al Cliver non risulta credibile come criminale da strada e Harry Baer (che insieme a Gisela Hahn rappresenta, nel cast, la quota tedesca) manca del giusto carisma.
Durante una sparatoria vediamo, da lontano, Baer gettarsi a terra urlando e con le mani sul volto. Una delle armi di scena non aveva funzionato correttamente e una scheggia gli era finita nell’occhio. Lo portarono di corsa in ospedale, all’istituto oftalmico. Ci rimase, se non sbaglio, almeno tre giorni, ma il film si fermò per un’intera settimana. Io andai a trovarlo in ospedale più volte, dato che Baer non parlava una parola d’italiano e io conosco bene l’inglese. Una volta venne con me anche Fernando per salutarlo.
Com'era Di Leo sul set?
Fernando era sempre calmo. Prima di lavorare con lui avevo conosciuto registi che sul set perdevano il senno. Emmer (Luciano n.d.r) era capace di urlare, lanciare oggetti, gettare il copione per terra e saltarci sopra (ride), ma Fernando no. Sempre educato, gentiluomo e distaccato sul set. Non freddo, ma nemmeno goliardico, non si dilungava sulle cose e non diceva più di quello che andava detto. Inoltre non è mai capitato, almeno su tutti i film che abbiamo fatto insieme, che sforassimo d’orario. Non importava nulla, all’ora stabilita si tornava a casa. Si alzava e diceva “Amuninne picciotti!”.
Su I padroni della città cosa ricordi del cast? E Di Leo come si rapportava con loro?
Jack Palance era un professionista assoluto: puntuale, preciso, sempre preparato. Se non c’era bisogno di lui, non lo vedevi; poi, quando toccava a lui appariva immediatamente. Lo stesso si può dire anche di Edmund Purdom, ma era cosi con tutti gli attori americani, o comunque anglosassoni. Invece Baer mi sembrava un po’ spaesato, a dire il vero. Fernando non era uno che amava frequentare il mondo del cinema, forse è per questo che mi ci trovavo così bene. Lui, finito il lavoro sul set, tornava al suo mondo. Con gli attori era sempre disponibile e attento, ma non si dilungava a chiacchierare e scherzare. Era molto anglosassone per certi versi. Professionale ed educato. Comunque dagli attori sapeva sempre cosa voleva, cosa era giusto e quando era troppo.
Era preparato, tecnicamente parlando?
Era uno dei registi più preparati che abbia mai conosciuto. La mattina l’autista veniva a prenderci uno dopo l’altro perché abitavamo vicini. Io stavo a Fontanella Borghese e lui vicino Piazza del Popolo e so, avendoci parlato, che studiava tutto il giorno prima. Arrivava sul set con tutto in testa, e non amava fare troppi ciak. Noi tecnici facevamo fatica, talvolta, a stargli dietro tanto era veloce. Inoltre non era un montato, non pensava di fare dei capolavori. Sapeva dove mettere la macchina da presa per avere il risultato migliore nel minor tempo possibile. Spesso aveva Curti o Armando Novelli (produttore e organizzatore generale n.d.r) che gli rompevano le scatole. Novelli, che Fernando non amava affatto, si intrometteva molto. Ma Fernando era bravo, penso, nel gestire certi personaggi. Poi, chiaramente, se si finiva prima o si arrivava all’ora prestabilita, Amuninne picciotti!
Eugenio Ercolani
Sezione di riferimento: Italia Terza Visione
Scheda tecnica
Titolo originale: I padroni della città
Anno: 1976
Regia: Fernando Di Leo
Sceneggiatura: Fernando Di Leo, Peter Berling
Fotografia: Erico Menczer
Musiche: Louis Enrique Bacalov
Durata: 88 min
Attori principali: Harry Baer, Al Cliver (Pierluigi Conti), Jack Palance, Gisela Hahn, Edmund Purdom