Se nell’umano – come scrisse Arturo Graf – la bruttezza più reale di un volto non è da altro prodotta che dalla ignobiltà, dalla povertà dell'animo, questo vale anche nel cinema. L’orca assassina (1977) è un film sbagliato e tutti gli elementi che compongono la narrazione di questa pellicola anglo-italiana, targata Dino De Laurentiis, sembrano contraddirsi vicendevolmente, eppure qualcosa c’è. Malgrado tutto, un certo fascino questa pellicola diretta da Michael Anderson lo possiede.
Il capitano Nolan (Richard Harris), nonostante il parere contrario di una biologa ecologista (Charlotte Rampling), vuole catturare a ogni costo un’orca da vendere a un parco acquatico, ma per un tragico incidente uccide una femmina incinta. Il partner, dotato di un’intelligenza straordinaria, è deciso a vendicarsi del capitano e dei suoi compagni, e inizia così a danneggiare le imbarcazioni del villaggio canadese in cui sono ospiti: costretto dalla popolazione a uccidere l’animale per porre fine alle incursioni, Nolan si lancia con la sua barca in una sfida impossibile fino ai ghiacci dell’estremo Nord.
Dino De Laurentiis, oramai trasferitosi da anni in pianta stabile negli Stati Uniti, era molto attento a intercettare, talvolta a cannibalizzare le mode cinematografiche e i rilanci di filoni e generi, e di certo non poteva farsi sfuggire la possibilità di accodarsi al successo planetario de Lo squalo (1975) e al fenomeno culturale che ne conseguì. Orca nasce quindi così come tanti cloni italiani – ricordiamo che sempre nel ’77 esce il cult di Assonitis, Tentacoli – cavalcando l’onda d’urto del capolavoro spielbergiano.
Basta inoltre la breve sinossi sopracitata per rivelare le fonti ispiratrici per la sceneggiatura firmata da Sergio Donati e Luciano Vincenzoni (aiuta a smussare lo script il leggendario Robert Towne, ma non ci è dato sapere quanto profondo fu il suo apporto): il romanzo Orca di Arthur Herzog, certamente, ma soprattutto il saccheggiatissimo capolavoro di Melville, Moby Dick. Al contempo ci vuole altrettanto poco per constatare quanto pigra e talvolta ridicola sia la succitata sceneggiatura. Un esempio lampante potrebbe essere la lista di cose che viene fatta fare all’animale protagonista: a un certo punto l’orca attacca la casa sulla banchina in cui si trova la sua nemesi (come faccia a sapere che lui sia lì è un mistero), ma prima di agire riesce a manomettere il circuito elettrico, come in un piano sequenza in soggettiva di un giallo argentiano. Anche i primi piani sull’occhio vitreo dell’animale mentre riconosce Harris in mezzo a decine di persone e ne segue i movimenti sull’imbarcazione aiutano a generare quel tocco in più di incredulità.
Queste leggerezze nella scrittura, insieme alla sua natura smaccatamente derivativa, sono le ragioni per cui il film fu accolto e bollato di netto come “trash”, parola ricorrente in numerose recensioni, creando una reputazione che il film stesso non è più riuscito a togliersi di dosso.
Per confermare tale tesi a maggio dello stesso anno, quindi esattamente due mesi prima della première di Orca (che avviene il 15 luglio a New York), esce Sfida a White Buffalo (The White Buffalo) di J. Lee Thompson: un eco-vengeance western che come il film di Anderson gode di un cast ricco di volti noti e vecchi caratteristi. Curioso notare però come ambedue le pellicole siano unite da una fortissima vena surreale, che nel caso della pellicola di Thompson assume fin dalla prima inquadratura un tono, grazie anche a una sognante fotografia flou, del tutto metaforico. L’inglese Thompson, pur già in una fase calante della sua carriera, rispetto al suo compatriota Michael Anderson è forse un regista superiore, ma sul fatto che il padre de I cannoni di Navarone abbia uno stile più incisivo non ci sono dubbi. Anderson era stato un beniamino del cinema britannico degli anni cinquanta, ma dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, seppur dimostrando sempre un mestiere indubbio, non aveva mai mantenuto le promesse fatte in patria: questo almeno fino al 1976, quando realizza La fuga di Logan, il suo film più noto (insieme a Il giro del mondo in ottanta giorni, 1956), che poi rappresenta la ragione primaria che portò il produttore italiano a sceglierlo per Orca.
L’utilizzo del termine “exploitation” non deve comunque fuorviare, poiché il film di Anderson si prende molto sul serio. Se non fosse così forse Orca godrebbe di maggior benevolenza. Girato con un budget consistente, la maggior parte delle sequenze fu realizzata in alcune regioni del Canada, mentre per le scene iniziali, che vedono protagonista uno squalo, fu utilizzata come location una suggestiva costa australiana. Per le riprese vennero usati sia un’orca addestrata che un esemplare di gomma con parti anatomiche in animatronics, fuse armoniosamente insieme in fase di montaggio. A testimoniare il dispendio di denaro anche il cast, che oltre alla coppia Harris-Rampling vanta Bo Derek, Will Sampson, Keenan Wynn, Robert Carradine e Peter Hooten, nonché il premio Oscar Ted Moore alla fotografia.
Il ritratto fatto finora e le premesse elencate possono far pensare che non ci sia spazio per un’eventuale redenzione, ma è proprio dalle pennellate larghe di un buon mestierante, dalle ingenuità e dalla sovrapposizione di elementi casuali che Orca trae la sua forza. La natura vendicativa dell’animale potrebbe essere letta come un’afflizione psicologica: se lo squalo di Spielberg è un mostro inconoscibile, una macchina di morte inarrestabile, la balena qui è umanizzata a un livello che non si era mai visto e che non si vedrà più in tutto il filone degli animali assassini, che poi è il punto da cui si sollevano molte delle critiche. Scene idilliache che mostrano le balene nel loro stato naturale lasciano il posto a lezioni della magnetica Rampling sulla loro intelligenza, le loro abitudini sociali e la loro natura monogama e ai tentativi di Harris di interferire e di derubarle della loro libertà.
Quando arriva il momento dell’omicidio dell’orca femmina, la scena è girata come uno stupro di un rape and revenge. Ricca di sangue e concepita per scioccare, durante la scena assistiamo a un ribaltamento totale. Da quel momento avviene una sorta di psicosi reattiva che si trova comunemente nei film di vigilantes, Il giustiziere della notte et similia, più che nell’eco-vengeance. Così, decostruendo il solito antropomorfismo, si mostra come in un animale l’animo umano sia un’imposizione innaturale: una bestia suscettibile può essere solo pervertita dalle pulsioni umane. La vendetta è un fattore contaminante e una volta messo in moto risulta irreversibile.
Anche se molte scene sono improbabili, per non dire ridicole, il film è qualcosa di diverso rispetto al panorama di cui fa parte. Nel suo essere un eco-vigilantes movie il film ha una sorta di vena new-age amplificata dalle bellissime sequenze subacquee girate dallo specialista Folco Quilici e dalle musiche struggenti e sospirate di Ennio Morricone. La vena spirituale del film si manifesta nel vedere come l'adozione da parte dell’orca di aberrazioni umane frantumi tutte le illusioni dei protagonisti – che tali creature naturali siano intrinsecamente superiori agli esseri umani (come sostiene la Rampling) o che gli umani possano esercitare il loro essere Dio su tutto senza conseguenze (come invece vorrebbe Harris).
Nel congelato inferno acquoso delle scene finali il film raggiunge l’apoteosi di una sua visione di un mondo decaduto, umano e animale. Se, come disse Aristotele, tutto nella natura è utile, mai tutto in un film è inutile. A maggior ragione se l’imperfezione, persino il fallimento totale, di un’opera nasce da un humus vivo, da un terreno fertile di idee, di suggestioni magari sconnesse, involontarie o idiosincratiche ma pulsanti.
Eugenio Ercolani
Sezione di riferimento: Italia Terza Visione
Scheda tecnica
Titolo originale: Orca
Anno: 1977
Durata: 105'
Regia: Michael Anderson
Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Robert Towne
Produttore: Dino De Laurentiis
Fotografia: J. Barry Herron, Ted Moore
Musiche: Ennio Morricone
Attori: Charlotte Rampling, Richard Harris, Will Sampson, Bo Derek, Keenan Wynn, Robert Carradine