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L'ORCA ASSASSINA - La poetica del derivativo

3/2/2015

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Non c’è bellezza che non contenga pozze d’ombra e pertugi dalle mille sfumature di nero, così come non c’è bruttura che non celi nelle pieghe della propria carne qualcosa di valido, persino di prezioso. Quest’ultima realtà nel cinema è una certezza assoluta. Che sia in un fascio di luce che, senza la progettualità di un regista sapiente, avvolge un personaggio o un ambiente, che si nasconda nelle parole naïf di un dialogo ingenuo, che sia proprio nell’ilarità involontaria di quest’ultimo, nella staticità o nella forza di una suggestione autoindotta, nel transfert o nella bellezza del contesto naturale: qualcosa da salvare c’è sempre, per chi ha uno sguardo che nel ruotare intorno alle cose noti la mutevolezza degli scorci che esse celano. 
Se nell’umano – come scrisse Arturo Graf – la bruttezza più reale di un volto non è da altro prodotta che dalla ignobiltà, dalla povertà dell'animo, questo vale anche nel cinema. L’orca assassina (1977) è un film sbagliato e tutti gli elementi che compongono la narrazione di questa pellicola anglo-italiana, targata Dino De Laurentiis, sembrano contraddirsi vicendevolmente, eppure qualcosa c’è. Malgrado tutto, un certo fascino questa pellicola diretta da Michael Anderson lo possiede.
Il capitano Nolan (Richard Harris), nonostante il parere contrario di una biologa ecologista (Charlotte Rampling), vuole catturare a ogni costo un’orca da vendere a un parco acquatico, ma per un tragico incidente uccide una femmina incinta. Il partner, dotato di un’intelligenza straordinaria, è deciso a vendicarsi del capitano e dei suoi compagni, e inizia così a danneggiare le imbarcazioni del villaggio canadese in cui sono ospiti: costretto dalla popolazione a uccidere l’animale per porre fine alle incursioni, Nolan si lancia con la sua barca in una sfida impossibile fino ai ghiacci dell’estremo Nord. 
Dino De Laurentiis, oramai trasferitosi da anni in pianta stabile negli Stati Uniti, era molto attento a intercettare, talvolta a cannibalizzare le mode cinematografiche e i rilanci di filoni e generi, e di certo non poteva farsi sfuggire la possibilità di accodarsi al successo planetario de Lo squalo (1975) e al fenomeno culturale che ne conseguì. Orca nasce quindi così come tanti cloni italiani – ricordiamo che sempre nel ’77 esce il cult di Assonitis, Tentacoli – cavalcando l’onda d’urto del capolavoro spielbergiano. 
Basta inoltre la breve sinossi sopracitata per rivelare le fonti ispiratrici per la sceneggiatura firmata da Sergio Donati e Luciano Vincenzoni (aiuta a smussare lo script il leggendario Robert Towne, ma non ci è dato sapere quanto profondo fu il suo apporto): il romanzo Orca di Arthur Herzog, certamente, ma soprattutto il saccheggiatissimo capolavoro di Melville, Moby Dick. Al contempo ci vuole altrettanto poco per constatare quanto pigra e talvolta ridicola sia la succitata  sceneggiatura. Un esempio lampante potrebbe essere la lista di cose che viene fatta fare all’animale protagonista: a un certo punto l’orca attacca la casa sulla banchina in cui si trova la sua nemesi (come faccia a sapere che lui sia lì è un mistero), ma prima di agire riesce a manomettere il circuito elettrico, come in un piano sequenza in soggettiva di un giallo argentiano. Anche i primi piani sull’occhio vitreo dell’animale mentre riconosce Harris in mezzo a decine di persone e ne segue i movimenti sull’imbarcazione aiutano a generare quel tocco in più di incredulità. 
Queste leggerezze nella scrittura, insieme alla sua natura smaccatamente derivativa, sono le ragioni per cui il film fu accolto e bollato di netto come “trash”, parola ricorrente in numerose recensioni, creando una reputazione che il film stesso non è più riuscito a togliersi di dosso. 

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Arrivati agli sgoccioli degli anni settanta le produzioni yankee di De Laurentiis erano, come già detto, accolte con una certa dose di scetticismo. Se da una parte aveva, sì, realizzato pellicole imprescindibili del decennio come Serpico (1973), Il giustiziere della notte (1974) e I tre giorni del Condor (1975), dall’altra parte titoli come Mandingo (1975), Drum (1976) e King Kong (1976) contribuivano a donargli l’immagine di una sorta di exploitation-producer di lusso, un William Castle sui generis, industrializzato e mainstream. Di certo ad aggravare la situazione per Orca: The Killer Whale (così suona il titolo anglosassone), fu anche l’accoglienza sia di botteghino che di critica riservata alla sua pellicola “gemella”. Nel modus operandi del produttore c’era infatti la tendenza ad “aggredire”, in perfetto stile exploitation, il genere o il fenomeno scelto con più titoli da far uscire a raffica. Pensiamo ad esempio al grappolo di Stephen King movies negli anni Ottanta o alla già citata coppia di southern westerns Mandingo/Drum. 
Per confermare tale tesi a maggio dello stesso anno, quindi esattamente due mesi prima della première di Orca (che avviene il 15 luglio a New York), esce Sfida a White Buffalo (The White Buffalo) di J. Lee Thompson: un eco-vengeance western che come il film di Anderson gode di un cast ricco di volti noti e vecchi caratteristi. Curioso notare però come ambedue le pellicole siano unite da una fortissima vena surreale, che nel caso della pellicola di Thompson assume fin dalla prima inquadratura un tono, grazie anche a una sognante fotografia flou, del tutto metaforico. L’inglese Thompson, pur già in una fase calante della sua carriera, rispetto al suo compatriota Michael Anderson è forse  un regista superiore, ma sul fatto che il padre de I cannoni di Navarone abbia uno stile più incisivo non ci sono dubbi. Anderson era stato un beniamino del cinema britannico degli anni cinquanta, ma dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti, seppur dimostrando sempre un mestiere indubbio, non aveva mai mantenuto le promesse fatte in patria: questo almeno fino al 1976, quando realizza La fuga di Logan, il suo film più noto (insieme a Il giro del mondo in ottanta giorni, 1956), che poi rappresenta la ragione primaria che portò il produttore italiano a sceglierlo per Orca. 
L’utilizzo del termine “exploitation” non deve comunque fuorviare, poiché il film di Anderson si prende molto sul serio. Se non fosse così forse Orca godrebbe di maggior benevolenza. Girato con un budget consistente, la maggior parte delle sequenze fu realizzata in alcune regioni del Canada, mentre per le scene iniziali, che vedono protagonista uno squalo, fu utilizzata come location una suggestiva costa australiana. Per le riprese vennero usati sia un’orca addestrata che un esemplare di gomma con parti anatomiche in animatronics, fuse armoniosamente insieme in fase di montaggio. A testimoniare il dispendio di denaro anche il cast, che oltre alla coppia Harris-Rampling vanta Bo Derek, Will Sampson, Keenan Wynn, Robert Carradine e Peter Hooten, nonché il premio Oscar Ted Moore alla fotografia. 
Il ritratto fatto finora e le premesse elencate possono far pensare che non ci sia spazio per un’eventuale redenzione, ma è proprio dalle pennellate larghe di un buon mestierante, dalle ingenuità e dalla sovrapposizione di elementi casuali che Orca trae la sua forza. La natura vendicativa dell’animale potrebbe essere letta come un’afflizione psicologica: se lo squalo di Spielberg è un mostro inconoscibile, una macchina di morte inarrestabile, la balena qui è umanizzata a un livello che non si era mai visto e che non si vedrà più in tutto il filone degli animali assassini, che poi è il punto da cui si sollevano molte delle critiche. Scene idilliache che mostrano le balene nel loro stato naturale lasciano il posto a lezioni della magnetica Rampling sulla loro intelligenza, le loro abitudini sociali e la loro natura monogama e ai tentativi di Harris di interferire e di derubarle della loro libertà. 
Quando arriva il momento dell’omicidio dell’orca femmina, la scena è girata come uno stupro di un rape and revenge. Ricca di sangue e concepita per scioccare, durante la scena assistiamo a un ribaltamento totale. Da quel momento avviene una sorta di psicosi reattiva che si trova comunemente nei film di vigilantes, Il giustiziere della notte et similia, più che nell’eco-vengeance.  Così, decostruendo il solito antropomorfismo, si mostra come in un animale l’animo umano sia un’imposizione innaturale: una bestia suscettibile può essere solo pervertita dalle pulsioni umane. La vendetta è un fattore contaminante e una volta messo in moto risulta irreversibile. 
Anche se molte scene sono improbabili, per non dire ridicole, il film è qualcosa di diverso rispetto al panorama di cui fa parte. Nel suo essere un eco-vigilantes movie il film ha una sorta di vena new-age amplificata dalle bellissime sequenze subacquee girate dallo specialista Folco Quilici e dalle musiche struggenti e sospirate di Ennio Morricone. La vena spirituale del film si manifesta nel vedere come l'adozione da parte dell’orca di aberrazioni umane frantumi tutte le illusioni dei protagonisti – che tali creature naturali siano intrinsecamente superiori agli esseri umani (come sostiene la Rampling) o che gli umani possano esercitare il loro essere Dio su tutto senza conseguenze (come invece vorrebbe Harris). 
Nel congelato inferno acquoso delle scene finali il film raggiunge l’apoteosi di una sua visione di un mondo decaduto, umano e animale. Se, come disse Aristotele, tutto nella natura è utile, mai tutto in un film è inutile. A maggior ragione se l’imperfezione, persino il fallimento totale, di un’opera nasce da un humus vivo, da un terreno fertile di idee, di suggestioni magari sconnesse, involontarie o idiosincratiche ma pulsanti.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Orca
Anno: 1977
Durata: 105'
Regia: Michael Anderson
Sceneggiatura: Luciano Vincenzoni, Sergio Donati, Robert Towne
Produttore: Dino De Laurentiis
Fotografia: J. Barry Herron, Ted Moore
Musiche: Ennio Morricone
Attori: Charlotte Rampling, Richard Harris, Will Sampson, Bo Derek, Keenan Wynn, Robert Carradine

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LABBRA DI LURIDO BLU - Autopsia di un desiderio

24/10/2014

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Negli ultimi anni di vita Giulio Petroni ha cercato di modellare, smussare e mettere in ordine la sua carriera. Intervista dopo intervista, articolo dopo articolo, conferenza dopo conferenza, Petroni ha tentato di limare il ricordo di una carriera lunga e contradditoria, dove vivevano in lui, più forti, le occasioni mancate, l’inespresso e lo sfiorato. La cosa che in assoluto sembrava premergli di più era rimuovere tutto quello che per il cinema aveva realizzato dopo il 1975. Il rivale, il precedente L’osceno desiderio, le sceneggiature firmate con Massimo Franciosa ma anche le pubblicità e i documentari televisivi. 
Petroni sminuiva e depistava, e l’impressione finale è che tutto questo fosse mirato a far sì che Labbra di lurido blu venisse considerato e ricordato, da tutti, come il suo ultimo film. Il canto del cigno, l’ultima mano di una partita giocata troppo in fretta. Petroni amava i colpi di scena ma non la teatralità, i toni altisonanti. La sua anima malinconica glielo impediva e Labbra di lurido blu era il sipario perfetto con cui uscire di scena camminando. Un film incompreso, un regista amareggiato con più demoni che buon senso, una diva sul viale del tramonto, uno scandalo offuscante. Tutti gli ingredienti perfetti per la chiusura di una carriera dalla difficile collocazione. 
Si potrebbe quasi dire che tutte le scelte di Petroni lo abbiano portato, inevitabilmente, a Labbra di lurido blu, ma per capire meglio bisogna tornare all’inizio di quel folle decennio. Agli albori degli anni settanta Petroni era, come direbbero gli inglesi, “at the top of his game”. Prolifico quanto basta, viaggiando su una media di un film all’anno, il regista veniva da un decennio di successi in cui si era guadagnato budget, cast e potere contrattuale al di sopra della media. La sfilza di successi western (soprattutto il tris di Da uomo a uomo – E per tetto un cielo di stelle –Tepepa) lo aveva posto al centro dell’attenzione. De Laurentiis, in quel momento nella fase di transizione dall’Italia agli Stati Uniti, gli propose un film, le sceneggiature si accumulavano nel suo ufficio ai Parioli e le possibilità erano infinite. Vinse su tutto, però, la vena autodistruttiva di Petroni, pulsante e mimetizzata sotto il desiderio forte di emancipazione. 
“L’idea di cimentarmi nelle vesti di produttore mi era già venuta parecchio tempo prima. Il mio rapporto con questa figura è sempre stato difficile già all’epoca di Emo Bistolfi che produsse Una domenica d’estate e I soliti rapinatori a Milano. Un uomo rozzo, gretto, sprovvisto anche solo di un barlume di umorismo o autoironia. Da uomo a uomo, E per tetto un cielo di stelle e Tepepa erano stati successi incredibili e io volevo cogliere l’occasione di emanciparmi. Con Non commettere atti impuri sono riuscito finalmente a fare questo passo. Il western aveva ormai fatto il suo corso e in me è cominciato a crescere il desiderio di esplorare nuovi territori e di assumere più controllo sui miei film; non che non lo avessi avuto fino a quel momento ma, forse anche ingenuamente, volevo limitare il più possibile i compromessi. Un azzardo che ho pagato caro”. 
Cosi Petroni descrive l’idea di fondare l’Azalea, la sua casa di produzione. I tre film che lui produrrà, inframezzati soltanto dal suo ultimo western (La vita a volte è molto dura vero Provvidenza?, 1972), sono legati insieme da tematiche e suggestioni così indissolubilmente simili da comporre una sorta di trilogia. In Non commettere atti impuri (1971), Crescete e moltiplicatevi (1973) e Labbra di lurido blu (1975), tutti film per cui Petroni non ha badato a spese, le musiche di Morricone e Ortolani puntellano un’atmosfera pervasa da blasfema morbosità. Infatti, nonostante i cambi di registro tra i tre titoli nonché all’interno degli stessi, a tenerli saldamente insieme è un miscuglio, spesso agrodolce, tra religione, sessualità e famiglia, racchiuso nel microcosmo della provincia. 
Crocifissi e corpi nudi, maschere di perbenismo e desideri sussurrati, traumi inconfessabili e nuclei familiari dilaniati dallo scandalo: Petroni è impietoso nei suoi ritratti ma, al contrario dei suoi colleghi intenti in progetti analoghi, lui non assume mai un ruolo giudicante. Petroni riprende le sue creature deformi e incomprese con sguardo oggettivo, persino compassionevole. Il moralismo, specie quello appartenente a un retaggio cattolico, non esiste nel suo cinema; un esempio perfetto è proprio l’ultimo dei tre film, il più ambizioso.
Ely (Lisa Gastoni) e Marco (Corrado Pani) sono due anime rotte, due fantasmi attanagliati da traumi infantili che ancora pervadono ogni loro gesto, ogni loro decisione. Forse per trovare insieme una via d'uscita dalle loro deviazioni, forse per sostenersi a vicenda, i due si sposano. Il matrimonio, però, non risolve i loro problemi, né li facilita l'inaspettato ritorno di George, l'antiquario inglese già "amico" di Marco, che ora lotta per strapparlo a Ely. Inevitabile quanto scioccante il tragico finale, macchiato di sangue.
“Tinte gialle”, “fumettistico”, “a tratti surrealista”: questi i termini usati da molti critici dell’epoca per tentare di decifrare l’approccio stilistico di Petroni. In effetti il film sembra essere rinchiuso in una bolla, in cui tutto pare galleggiare. L'inizio ha la solennità di un western: esterno, giorno; strade di campagna isolate e vuote; silenzio; un donna in auto; alle sue spalle una desertica pompa di benzina. Un giovane in motocicletta si accosta e senza togliersi il grosso casco nero annuncia lapidariamente: “George vuole vederla”. I motori si accendono. “Mi segua”. Musica. Titoli di testa. A seguire i credits una sequenza lunga e psichedelica, grottesca e surreale, all’interno di una chiesa sconsacrata in cui la Gastoni verrà presa e picchiata, spogliata e derisa, un’umiliazione che sembra dipanarsi in una sorta di balletto i cui coreografi sono un gruppo di demoni in lattice, di fetish-punk ante litteram. Quel che balza subito agli occhi è la cura nel dettaglio, nella fotografia, i fluidi e ricercati movimenti di macchina. Petroni inizia il suo film con l’intenzione di sedurre quanto di alienare.  

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Come si diceva prima, l’autore de La notte dei serpenti non bada a spese: Ennio Morricone (alla sesta collaborazione con il regista) firma la colonna sonora, Gabor Pogany, uno dei nostri più grandi direttori della fotografia, ne cura gli acidi contrasti cromatici e il grande Giancarlo De Leonardis è responsabile del trucco e delle acconciature. A chiudere il cast invece troviamo un folto numero di volti noti: Gino Santercole, Silvano Tranquilli, la prolifica starlette Hélène Chanel, l’attore britannico Jeremy Kemp, vincitore di un Bafta per La caduta delle Aquile, la cometa Daniela Halbritter (lanciata proprio da Petroni, con cui aveva una relazione) e Armando Brancia. Petroni invece, oltre a ricoprire i ruoli di regista e produttore, cura anche il montaggio e firma sia il soggetto, insieme al sodale Franco Bottari, sia la sceneggiatura.
Se nei precedenti due film targati Azalea trovavamo un’atmosfera brillante contaminata da improvvisi sprazzi di violenza e malsana sessualità, questa pellicola è esattamente il contrario, essendo del tutto ermetica a elementi dissacranti. All’apparenza potrebbe fare eccezione la “leggerezza” delle sequenze tra il giardiniere Santercole e la cameriera Halbritter, ma sulla lunga distanza queste risultano, nel loro stridere, funzionali a creare un’ulteriore morbosità. La macchina da presa è quasi sempre stretta sui due protagonisti, in un delicato avanti-indietro tra le loro vite vicine ma separate, e sui momenti salienti dei loro dolorosi passati (ottimo l’uso, in tal senso, dei flashback).  
Sarebbe facile, e viene naturale, collocare Labbra di lurido blu (il titolo è la traduzione di un verso di Shelley) all’interno di quel macro-filone, di quel magma informe che è stato il cinema erotico-intellettualistico degli anni settanta. Per il contesto provinciale, per la presenza della Gastoni o per il tasso di erotismo, Labbra sembra infilarsi perfettamente nelle mode del cinema erotico-borghese in cui militavano registi come Salvatore Samperi (Scandalo – proprio con la Gastoni – è di pochi anni prima), Bruno Gaburro, Peter Skerl, Massimo Pirri, Maurizio Liverani, Alberto Bevilacqua, Luigi Scattini, Silvio Amadio. Autori diversi ma uniti nel tentativo di raccontare storie di nuclei familiari, tradizionali o meno, che diventassero specchio di un'Italia mutevole, condendo i loro racconti con ingredienti voyeuristici e pruriginosi. Ma il film di Petroni si discosta da questo approccio per vari motivi, rendendosi un unicum nel genere.
Innanzitutto Labbra di lurido blu è scevro da retaggi e influenze politiche. La storia si svolge nell’anno della realizzazione del film e non ci sono riferimenti alla morte dei valori sessantottini, alla controcultura giovanile, al partito comunista, alla fascismo o alla DC. Petroni è intimista fino in fondo: non troviamo il tentativo, spesso posticcio, di rendere la vita dei personaggi metafora della vita politica del paese, della morte delle ideologie. Non troviamo un simil Ugo Tognazzi, come in Nenè (esempio in tal senso perfetto, datato 1978) di Samperi la cui presenza è giustificata soltanto dal tentativo di donare forzatamente un’ulteriore chiave di lettura. 
Inoltre l’erotismo messo in scena da Petroni è repulsivo, genuinamente respingente. I nudi e le situazioni forti sono molti, ma Petroni non muove la sua macchina da presa con rustico compiacimento, con goduriosa curiosità. Lui riprende e basta. Freddo e distaccato come un’autopsia. Labbra di lurido blu è esattamente questo, l’autopsia di un desiderio. Personaggi morenti ripresi nel loro spleen maledetto, nel loro boccheggiare. I culi esposti di Gabburro e Amadio, giusto per citarne due, non hanno nulla in comune con la pelle nuda dei personaggi di Petroni. 
Se però nel riprendere la sessualità e il sesso il regista di Tepepa è distaccato, nel descrivere i suoi personaggi non lo è minimamente. La ninfomane piegata dalla vita e il marito attanagliato da un’omosessualità repressa sono ripresi ad altezza d’occhi, mai un palmo sopra. La Gastoni ricorda quanto Petroni si arrabbiasse quando lei descriveva il suo personaggio come una poco di buono: “Una volta me ne uscii definendola una puttana e Giulio si arrabbiò. ‘Non devi dire così! Lei è alla ricerca di se stessa’”. Sarà per questo modus operandi di Petroni che in Ely abbiamo il ritratto più introspettivo e veritiero della ninfomania (anche se questo termine non viene mai menzionato nella pellicola) che si possa trovare nel cinema italiano.
Quanto all’Azalea, nessuno dei tre film fu un flop ma Petroni, che notoriamente era un pessimo amministratore economico, per ogni pellicola si indebitò sempre di più. Questo, unito ad uno stile di vita sempre più costoso, fece sì che la vita della casa di produzione fosse molto breve. Nonostante le intenzioni onorevoli di volersi distaccare dalle mode cinematografiche correnti e di esplorare nuovi territori, Petroni si trovò inseguito dalle banche e con il film del ’75 il gioco finì. Si vide portar via la sua cascina in Umbria, il vasto terreno circostante e il suo allevamento di maiali. 
“Difficilmente penso alle conseguenze delle mie azioni”, scrisse in un suo libro autobiografico (Passeggiate nelle sabbie mobili), e così fu per la sua vita da produttore. Le critiche feroci a Labbra di lurido blu insieme all’inizio della vera crisi cinematografica fecero il resto. “Io non credo di aver meritato il linciaggio di cui sono stato vittima in seguito all’uscita di Labbra di lurido blu. Volevo gettare luce su un problema che a metà degli anni settanta era molto forte… una parte della società che non riusciva ad analizzarsi, a guardarsi dentro; era in uno stato conflittuale con se stessa: da una parte c’erano i desideri, le voglie, e dall’altra il peso dei tabù ancora forti che schiacciava le volontà. Il film ha avuto un discreto successo di pubblico che ha scelto di non dar peso alla critica che mi massacrava. Forse non sono riuscito nei miei intenti, ma almeno, se queste aggressioni fossero uscite fuori da un’analisi degli intenti e contenuti della pellicola, allora, sarebbe stato sopportabile; invece era tutto gratuito e immotivato. Nulla fu più come prima dopo Labbra di lurido blu”.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione

Intervista a Giulio Petroni realizzata da Eugenio Ercolani e tratta dall'articolo apparso su Nocturno Cinema (N 92 - Aprile 2010)


Scheda tecnica

Regia: Giulio Petroni
Sceneggiatura: Franco Bottari, Giulio Petroni
Musiche: Ennio Morricone
Fotografia: Gabor Pogany
Anno: 1975
Durata: 120'
Attori: Lisa Gastoni, Corrado Pani, Jeremy Kemp, Gino Santercole, Hélène Chanel

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