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BESTIALITÀ - Borghesia e zoofilia 

14/1/2014

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Tra il 2000 e il 2006 è stata condotta, su Internet e in maniera del tutto anonima, una ricerca sulla sessualità a cui hanno partecipato circa 76500 soggetti. Questi sono stati i risultati:  l’11,3% dei rispondenti si è dichiarato bestiality-curious: hanno cioè ammesso una forte curiosità nei confronti di pratiche zoofile; il 6% bestiality-mild e il 4,1% bestiality-heavy. I rispondenti erano per il 67% maschi, per il 31% femmine; il 12.1% era sotto i 18 anni, il 55.0% aveva un'età compresa fra i 18 e i 30 anni, il 32.9% aveva più di 31 anni. In una seconda ricerca condotta sempre su Internet, che ha coinvolto 6000 persone, alla domanda “hai mai fatto sesso con un animale?” addirittura il 13% ha risposto “qualche volta” e il 2% “frequentemente”. 
La zoofilia, però, non è certo una devianza del nuovo millennio, e, se per questo, neanche riconducibile al lembo più distante del Novecento. Il rapporto e le interconnessioni psicosessuali che legano uomo e animale aleggiano nelle zone più ombrose della nostra natura primordiale, e, quindi, trattasi di una parafilia che poco ha che fare con la trasgressività dei tempi moderni. Chi scrive non ha certamente nessun desiderio o impulso nel fare l’apologia della bestialità, ma bisogna pur ammettere che, per quanto possa risultare - e di certo lo è - un desiderio, quello zoofilo, grottesco e deprecabile, lo si può notare di continuo, ed è più comune nelle sue ramificazioni più lievi di quanto siamo disposti ad ammettere. 
La signora che veste il suo quadrupede, il padrone che ci dorme avvinghiato e, in generale, tutta la morbosità che porta a iper-umanizzare un animale non è, forse, il terreno fertile su cui la zoofilia affonda le proprie radici? Del resto, il rapporto tra animale e uomo è composto da proiezioni e transfert, rifugi e ipocrisia. Per la sua grande capacità di prestarsi alla metafora umana e sociale, la zoofilia è stata spesso usata all’interno di opere artistiche. Il cinema ha di rado affrontato il discorso di petto, per una ovvia questione di presentazione scenica, che facilmente scadrebbe nell’osceno e nel pornografico. Un posto d’onore all’interno di quello che si può, quasi, identificare come un vero e proprio filone lo si deve lasciare a Bestialità, pellicola realizzata nel 1976 e diretta da Peter Skerl. 
Skerl, svedese, è un personaggio enigmatico e misterioso del nostro cinema, di cui poco si sa, e di cui tanto si suppone. Attore adolescente, doppiatore e adattatore dialoghi (anche per film di Ingmar Bergman), sceneggiatore (spesso insieme a Gianni Martucci), e, infine, anche regista (innumerevoli i film annunciati e mai realizzati; il più famoso è senz’altro Zoorastia, 1978, pellicola ferma a causa di problemi finanziari). Mai intervistato, ora vive a Los Angeles. La fama di questo italo-svedese risiede totalmente in Bestialità. 
Iniziamo, quindi, con il chiarire il primo equivoco: Virgilio Mattei, che risulta avere la paternità del film, è solo un prestanome, necessario per questioni di quote produttive, dato che Skerl non è di nazionalità italiana. Quanto al fatto (come si può leggere su alcuni siti) che alla regia possa aver collaborato Luigi Montefiori/George Eastman, trattasi di falsità assoluta senza fondamento. Montefiori, nel suo periodo di maggior prolificità, firma comunque sia il soggetto che la sceneggiatura. 
L’architetto Paul (Philippe March) si trasferisce, per ragioni di lavoro, con sua moglie Yvette (Juliette Mayniel), su un’isola mediterranea abitata da pochi turisti, dal pescatore sciancato Ugo (Enrico Maria Salerno) e da una ragazzina, Jeanine (Leonora Fani), traumatizzata nell’infanzia dalla vista della madre che s’accoppiava con il suo dobermann. La giovane che, scappata di casa, vive tra le rovine del castello di famiglia (incendiato dal padre per vendicarsi del cane, che fu poi salvato da Ugo) si lega, anche a letto, con Paul e sua moglie, risvegliando i sopiti sensi del primo. Ma il dobermann, con cui anche a Jeanine piace far l’amore, mostra possessivi segni di gelosia. 
Crisi della borghesia, decadenza morale, dubbi esistenziali, controcultura spicciola e datato maledettismo di grana grossa: temi spesso ricorrenti in film inclassificabili, sospesi tra il prodotto meramente commerciale e l’opera di presunta critica sociale. Messa in scena povera e personaggi stilizzati, cui vengono affidati dialoghi incredibili. Inconsistenza ampollosa. Queste, riassumendo, sono le critiche e le osservazioni più comuni che si possono trovare nei confronti di questo film, che usa il tema della zoofilia come metafora della corruzione morale dell’uomo occidentale, e, in particolare, della coppia borghese. Non si può negare che almeno i toni di tali critiche siano legittimi, ma, come accadde spesso nel cinema italiano di genere di quegli anni, nonostante tutto, la pellicola si pervade di un inafferrabile fascino, e, improvvisamente, le musiche melò a firma di Lallo Gori, la fotografia spenta e monocromatica, i dialoghi astrusi e artefatti (“Tu invece sei una mignotta che cerchi il cazzo più lungo della lingua per prolungare il ponte che ti separa dall’effimera sponda del successo”), il mare mosso del Mediterraneo e la desolazione delle scogliere si animano di una forza narrativa contagiosa. 
Quello che Skerl sembra capire a fondo, e su cui si concentra maggiormente, è il rapporto tra la bellissima e conturbante Jeanine e il suo cane. Skerl, che collabora alla sceneggiatura, sembra comprendere la vera natura della zoofilia. Non assume un tono moralista e non giudica il suo personaggio. Skerl affronta il tutto comprendendo che la zoofilia è, in realtà, un sentimento multi-stratificato e più complesso di quanto si possa pensare. Non si tratta soltanto di sfogo sessuale o della voglia di infrangere tabù. 
Per quanto sia difficile da accettare o comprendere pienamente, la componente emotiva gioca un ruolo molto forte nella psicologia di chi è attratto da un animale. Spesso gli zoofili attribuiscono all’animale delle qualità superiori che non riscontrano negli esseri umani, come l’onestà, la fedeltà, l’innocenza o la saggezza, e così via. Le emozioni verso gli animali possono essere reali, relazionali, autentiche, e non solo sostitutive di partner umani. Anzi, il quadro che emerge è composto da persone che molto spesso hanno avuto, o hanno, relazioni umane a lungo termine. Persone fragili che vedono nell’animale meno bestialità e più purezza che in tanti esseri umani.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Bestialità
Anno: 1976
Regia: Peter Skerl
Sceneggiatura: Luigi Montefiori, Peter Skerl
Fotografia: Giuseppe Bernardini
Musiche: Lello Gori
Durata: 75 min
Attori: Philippe Marsch,  Juliette Mayniel, Leonora Fani, Enrico Maria Salerno, Paul Muller, Ilona Staller

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L'OCCHIO SELVAGGIO - Cavara e i Mondo Movies

4/12/2013

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Per poter parlare di questo dimenticato film di Paolo Cavara bisogna fare un piccolo, ma significativo, passo indietro e tornare dal 1967 all’inizio del decennio. Infatti, parlare del film più personale e sofferto del regista bolognese senza soffermarci prima sui famigerati mondo movies, e in particolare sul loro padre Gualtiero Jacopetti, vuol dire moncare l’intensità della visione de L’occhio selvaggio.
"Le cose non si possono risolvere con la nonviolenza. La nonviolenza permette ai più forti di dormire, la violenza ci vuole, io amo la violenza, sono un apostolo della violenza..." Queste sono le parole, sospese tra il serio e l’ironico, tra il senso di sfida e l’amore per la provocazione, di Gualtiero Jacopetti, in risposta ad un giornalista che poco dopo l’uscita di Mondo cane (1962) gli chiese se si reputava un istigatore alla violenza. 
Jacopetti era così, un animale da palcoscenico, un sardonico padre-padrone che non consentiva mezze misure: o con lui o contro di lui. La lunga lista di nemici, beghe, liti, rancori e odi lo dimostrano e parlano chiaro. Forse, però, nessuno ha nutrito così tanto risentimento quanto Cavara, che confeziona un film “d’attacco” crudo e spietato, dipingendo con ferocia il suo ex-collaboratore. Si, perché nonostante molti non se lo ricordino, a firmare il primo Mondo cane sono stati, oltre che i sempre citati Jacopetti e Franco Prosperi (l’unico dei due che si discosterà dal filone per firmare l’eco-vengeance di pura finzione Wild Beasts - Belve feroci nel 1984), anche Cavara.
Non è un caso che le strade di Jacopetti e del regista di Virilità (1974) si incrocino. L’attività di Cavara come documentarista, infatti, aveva avuto inizio, per conto suo, già negli anni cinquanta, quando ancora studiava architettura presso l'Università di Firenze. Questa professione scaturì dall'attività parallela di operatore subacqueo, ed ebbe un primo riconoscimento con la spedizione all'isola di Ceylon nel 1951, condotta assieme a Carlo Gregoretti e Franco Prosperi, aiutati sul posto dalla Film Unit di Giulio Petroni. L’attività in questo ambito proseguirà fino all’incontro con Jacopetti, e in seguito confezionerà circa quaranta documentari, tra cui una serie destinata alla televisione, in qualità di collaboratore di Giorgio Moser e suo corrispondente in Indonesia e alle Maldive. 
Per quanto riguarda Mondo cane, al di là di quelli che ora possiamo inquadrare nel sotto-filone "Mondo Sexy" (come Europa di Notte, 1958, di Alessandro Blasetti, o Il Mondo di Notte, 1959, di Luigi Vanzi, entrambi sceneggiati da Jacopetti - il primo con Ennio De Concini), la creatura di Jacopetti, Prosperi e Cavara non era che il perfezionamento, o se vogliamo l’accordatura, di un non-cinema pseudo-documentaristico, pseudo-scientifico, che già aveva trovato vita sotto tendoni rossi nelle sperdute lande americane del sud, decenni prima. Film come The Inside of the White Slave Traffic (1913), tanto per citarne uno, erano pellicole in cui furbamente si condivano elementi di attualità, di natura antropologica e sociale, con immagini di forte impatto visivo. Quindi, in un’era di transizione, anni luce prima di qualsiasi codice Hays, in un epoca in cui il cinema era ancora un giocattolo nuovo e tutto da scoprire, decadenti side-shows itineranti davano la possibilità di vedere sullo schermo immagini altrimenti impossibili da visionare.
Mondo Cane ha una struttura da diario di viaggio, ed è retta da ben poca continuità, in quanto si pone come display caleidoscopico di sconvolgente contenuto piuttosto che presentazione di un argomento strutturato. A parte la voce narrante off di Stefano Sibaldi, l’unico filo rosso concettuale che unisce i vari episodi del film potrebbe essere questo: "Tutte le scene che vedrete in questo film sono vere e sempre riprese dal vero. Se spesso saranno scene amare è perché molte cose sono amare su questa terra. D'altronde il dovere del cronista non è quello di addolcire la verità, ma di riferirla obbiettivamente.” Questa frase mostra il vero cinismo su cui si regge l’intera operazione. Infatti la critica più forte nei confronti dell’opera è l’eccessiva inclinazione al cinismo, che si esprime sia attraverso un impianto visivo crudele che attraverso i commenti ispirati a un violento sarcasmo dissacratorio. Come scrisse un critico all’epoca di Mondo Cane 2 (uscito l’anno seguente): “le incursioni feroci nel regno dell’orrido e le compiacenze per il dettaglio sensazionale” sono gli ingredienti di un impianto fortemente antiumanistico.
La violenza spietata e rituale nei confronti degli animali, elemento che diverrà poi parte integrante di un filone-costola dei mondo, i cannibal-movies, (la mattanza dei maiali nella Nuova Guinea, la nutrizione forzata di birra ai vitelli in Giappone e di ricci velenosi agli squali in Malesia), e la violenza che l’uomo infligge su se stesso (la casa della morte di Singapore, la scarnificazione dei calabresi al Venerdì santo) vengono mischiate insieme in una sorta di perverso frullatore, cosa che ad esempio non viene fatta in Africa Addio (1966), dove invece l’uccisione di animali (tremenda la sequenza dettagliatissima di un elefantino estratto morto dal cadavere della madre) viene separata dalla crudeltà sull’uomo.
Di conseguenza, nei primi due Mondo Cane si può trovare un atteggiamento non documentaristico o antropologico nei confronti delle propensioni umane, bensì zoologico, vale a dire che il comportamento dell’essere umano è analizzato alla luce della più ampia famiglia animale. In questo senso viene alla mente il monologo interiore finale del protagonista de L’isola del Dottor Moreau di Wells: “Non riuscivo a persuadermi, per esempio, che le donne e gli uomini che incontravo non fossero, come io credevo, dei mostri, sia pure d'aspetto più umano, animali trasformati solo esteriormente in uomini, e che presto o tardi avrebbero cominciato a degenerare mostrando la loro origine bestiale.” Proprio su Mondo cane 2 il rapporto tra Jacopetti e Cavara si incrina, tanto che quest’ultimo gira svariate sequenze senza essere accreditato. Le ragioni date da Prosperi, assoluto difensore di Jacopetti, tendono verso motivazioni di salute. “Cavara era debole di costituzione e non adatto per questo genere di lavoro.”
Con il suo primo lungometraggio di pura finzione Cavara, finalmente, racconta la sua. L’occhio selvaggio è un attacco nei confronti proprio di quel cinema con cui aveva da poco chiuso amaramente i ponti. Un grido di spietata lucidità nei confronti dei suoi ex-compagni di viaggio e sulla rappresentazione della violenza sensazionalistica da parte di documentaristi senza scrupoli, nonché sul dualismo verità/finzione.
La trama non lascia dubbi: Paolo (il bravo Philippe Leroy che ha più volte dichiarato che forse non aveva ancora raggiunto una maturità artistica tale per poter interpretare un personaggio così complesso) è un carismatico e coriaceo documentarista che si sposta tra i meandri sperduti del pianeta alla ricerca di rituali, usanze e spettacoli sensazionalistici. Il suo desiderio di scioccare ed il suo cinismo non danno segni di cedimento dinanzi a qualsiasi ostacolo, pur di portare a casa il suo ultimo documentario. E quando la realtà delude le sue aspettative e non disseta la sua voglia di bizzarro, non esita a manipolarla, a distorcerla artificiosamente, solleticando o provocando situazioni shock. Fa sì che lui e la sua troupe rimangano senza benzina nel deserto pur di avere un’ulteriore agonizzante odissea su pellicola; provoca la morte di un bonzo che si brucerà vivo davanti agli occhi sbigottiti dei suoi fratelli (sequenza che non può non riportare alla mente la crudele scena di Mondo Cane 2, che si è dimostrato essere un ben orchestrato fake); organizza falsi attentati dinamitardi; arriva a far spostare un condannato alla fucilazione da un muro scuro a un muro bianco per accentuare il contrasto cromatico (episodio raccontato da Carlo Gregoretti sulle pagine de "L'Espresso" a proposito del film Africa Addio e del suo regista Jacopetti).
Ma il protagonista, per quanto disumano e ripugnante, è dotato di sguardo critico e di una notevole consapevolezza di sé e del prodotto che sta tentando di confezionare. Paolo non è il generale Kurtz, di coppoliana memoria, ma è un uomo di rigorosa coerenza teorica e pratica; la sua non è follia. Quando viene catturato dai Vietcong, la prima cosa che chiede al suo operatore, dopo essere stato picchiato a sangue, è se ha filmato tutto; così come nello splendido finale, dove dopo la morte della propria compagna (l’unico essere umano per cui sembra nutrire un qualche tipo di rispetto, interpretato dalla sempre bella Delia Boccardo), sollecita il suo operatore a filmare il suo dolore mentre tiene stretto a sé il corpo inerme e privo di vita della donna.
Le implicazioni e dinamiche psicologiche dello spettatore sono quelle che denuncia Cavara, autore complesso e tutto ancora da storicizzare, che con quest’opera raggiunge il massimo della sua espressione artistica. L’opera di Cavara (il cui script, ricordiamo, porta la firma anche di Tonino Guerra e Alberto Moravia, noto nemico di Jacopetti), non solo punta il dito fermamente verso il suo ex-collega, ma può essere letta come una sorta di mea culpa ante litteram (è un caso il nome del protagonista?), come innanzitutto un grido disperato verso il pubblico. Perché l’occhio selvaggio è, innanzitutto, il nostro.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica:

Titolo originale: L’occhio selvaggio
Anno: 1967
Regia: Paolo Cavara
Sceneggiatura: Paolo Cavara, Tonino Guerra, Alberto Moravia
Fotografia: Marcello Masciocchi, Raffaele Masciocchi
Musiche: Gianni Marchetti
Durata: 98 min
Attori principali: Philippe Leroy, Delia Boccardo, Gabriele Tinti

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BISTURI - La mafia bianca

17/11/2013

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Chi scrive è orgoglioso, con questo articolo, di dare inizio ad una nuova rubrica, in cui si andranno a trattare film, di produzione esclusivamente nostrana, caduti in secondo piano, ingiustamente mal ricevuti al momento della loro uscita nelle sale o dimenticati negli anni a seguire. Magari pellicole che meritano di essere riviste o rilette da un nuovo, moderno, punto di vista. Nel suo piccolo questo spazio, pur trattando un cinema molto specifico e poco conosciuto, vuole essere un luogo dove si raccontano delle storie. Storie di cinema. Film dopo film, regista dopo regista, aneddoto dopo aneddoto, l’intento è quello di creare un mosaico che getti luce su un modo di concepire l’industria cinematografica che non esiste più.

Si inizia con Bisturi - La mafia bianca (1973) di Luigi Zampa. La storia ruota attorno al professor Daniele Vallotti (Gabriele Ferzetti), chirurgo di chiara fama, bravo nella sala operatoria quanto lo è ad ignorare il giuramento di Ippocrate. Bramoso di potere, circondato da collaboratori senza midollo, pronti ad assecondarlo su tutto, servo delle case farmaceutiche e con un spasmodico amore per il denaro, Vallotti è in vendita al miglior offerente. Anche all’interno della clinica, di cui è proprietario, la sua condotta è quella del perfetto barone: pazienti scelti in base alle loro disponibilità economiche e un operato approssimativo quando si tratta di malati “minori”. Tutto questo, naturalmente, curando con dedizione la sua reputazione “mediatica” che è quella di benefattore e figura paterna per la povera gente. 
Nel suo entourage solo una voce sembra essere sempre pronta a dire le cose per come stanno, seppur con tono cinicamente sarcastico e con l’alito alcolico. Il dottor Giordani (Enrico Maria Salerno) è un uomo trasandato, amaro, ma paradossalmente,  nonostante l’alcool, è l’unico che sembra avere lucidità nell’analizzare quel che lo circonda. Sbeffeggiato e tenuto da parte Giordani può contare solo sull’appoggio e la silenziosa comprensione di una giovane suora (Senta Berger) che, forse, per lui nutre sentimenti più profondi della stima.        
Luigi Zampa è un regista che ha non mai goduto di grande considerazione da parte della critica, soprattutto quand’era in piena attività. Si vuole perché il regista romano ha sempre percorso la sottile linea tra autorialità e genere, tra compromesso commerciale e denuncia. Cosa che in questo paese, oggi come ieri, è pericolosissima. Motivo che ha portato anche firme come quella di Damiani o di Loy a non essere collocate li dove meriterebbero. 
Nel caso di Zampa la situazione si fa ancora più complessa, dato che il regista di Anni difficili e Anni facili è sempre stato controcorrente, stravolgendo le regole del neo-realismo prima e della commedia italiana poi. Un esempio su tutti la maniera di sfruttare la presenza di Sordi ne Il vigile, che vede per la prima volta il “perdente” vincere su tutti. Il cinema di Zampa è sempre stato il più cinico tra quello dei suoi contemporanei, quando si è trattato di leggere i tempi che correvano. 
Anche quando uscì nelle sale questo Bisturi - La mafia bianca, che fu presentato al Festival di Cannes di quell’anno, non molti si aspettavano che Zampa tornasse su un argomento già trattato cinque anni prima, con Il medico della mutua (1968). La maniera di raccontare la malasanità, che già era stata impietosa nel film con Sordi, qui si tinge di un'asciuttezza persino disturbante. Desolante, feroce, nero, Zampa non batte ciglio. La macchina da presa zooma sul pianto dei sopravvissuti, sugli occhiali dei chirurghi che riflettono i corpi aperti, sul bambino deceduto perché il macchinario che avrebbe potuto salvarlo non c’è più, sul momento in cui viene portato via sulla barella, sul volto sofferente e disilluso di Salerno mentre si porta alla bocca un altro bicchiere di whiskey. La sceneggiatura, scritta a quattro mani da Massimo de Rita e Arduino Maiuri, segue un filo rosso piuttosto labile ma che consente di mettere in scena un corollario di nefandezze, senza mai scadere nell’episodico. Il tutto puntellato dalla colonna sonora trascinante di Riz Ortolani.
La macchina da presa, come già detto, si muove con sguardo lucido ma senza dare il via a virtuosismi. Ed è forse proprio questo minimalismo registico (che ha sempre contraddistinto Zampa) che ha portato molti, in passato, a etichettarlo come tecnicamente sciatto, statico, povero. Bisturi è un ottimo esempio di come, invece, Zampa sappia non solo muovere la mdp, ma sappia soprattutto quando farlo. Un esempio su tutti il piano sequenza dall’alto delle varie operazioni o la scena finale, in cui, ad un certo momento, il nostro punto di vista è raso terra, a filo con il tappetto, creando quasi la sensazione che stiamo spiando il protagonista. Da apprezzare le interpretazioni di tutti i coinvolti, che talvolta riescono a salvare momenti vicini a scadere nel melò, come il confronto tra la Berger e Salerno, nella casa di quest’ultimo; una scena che non tocca mai il ridicolo solo grazie alle performance dei due interpreti.

Eugenio Ercolani 

Sezione di riferimento: Italia: Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo: Bisturi-la mafia bianca
Anno: 1973
Regia: Luigi Zampa
Sceneggiatura: Massimo de Rita, Arduino Maiuri
Fotografia: Giuseppe Ruzzolini
Musiche: Riz Ortolani
Durata: 105 min
Uscita in Italia: Maggio 1973
Attori principali: Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno, Senta Berger          

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