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GOODBYE & AMEN - L'uomo della CIA

10/3/2014

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Immagine
Se non fosse che l’ordine non è proprio una sua caratteristica, l’Italia potrebbe essere rappresentata tranquillamente come un enorme magazzino, di quelli giganteschi e metallici. Un luogo dove non arriva rumore e gli scatoloni si osservano in silenzio, con i loro volti di cartone marrone. Tutto archiviato ed etichettato. Tutto impacchettato secondo canoni e misure misteriose. Tutto giace, stretto e contenuto; ogni avvenimento politico, ogni film, libro, articolo di giornale, pensiero, indumento, ideologia, anche quella priva di motivazione e di fini controversi e secondi. Anche per questi ci sono scatoloni appositi. 
Ogni persona, figura politica, intellettuale, pensatore, pittore e poeta, ogni scrittore e regista si trova da qualche parte, dietro una parete di cartone. Alcuni scatoloni sono nell’ombra più totale, racchiusi in massicce dita di polvere e attraversati da strati di nastro adesivo spesso e nero. Pensare di aprire questi ultimi, solo l’idea di chiedere di sbirciarci dentro, è impensabile. Qualcuno, di tanto in tanto, prova persino a spostarle, ma le scatole, oramai, sanno dove è il loro posto, e, strusciando come su di un invisibile tapis roulant, tornano alla loro collocazione. Un paese-magazzino che accumula la propria storia, il proprio potenziale e le proprie genti nel silenzio sacrale di scatole semoventi. Il paese delle scatole e delle etichette. 
Il cinema, come è ovvio che sia, non esula da tutto ciò, e, come si è già detto, anche i registi sono vittime inconsapevoli di questi meccanismi (anche se tanti, adesso come un tempo, cercano il ventre confortante di un contenitore). Tra gli autori ce ne sono alcuni che vagano tra una scatola e l'altra, spettri del magazzino dalle etichette intercambiabili secondo il momento e il contesto. Damiano Damiani è senz’altro tra questi. Le definizioni che si sono susseguite sui vari titoli di giornale, usate per descrivere Damiani nei giorni a seguire la sua morte (avvenuta il 7 marzo del 2013, nella capitale), e per definire il suo cinema, sono state, più o meno, sempre le stesse: “Regista di denuncia”, “Il padre de La Piovra”, “Regista di stampo politico-civile”.  
Ma quando poi si arriva al dunque, a dover entrare nel merito del suo approccio registico e della sua filmografia, molti giornalisti si trovano in difficoltà. Il regista friulano sembra creare una sorta di corto circuito in molti che si ritrovano a dover scrivere di lui. Inevitabilmente, infatti, finiscono per parlare degli stessi film, la mini-serie del ’84 in primis, ma anche Il giorno della civetta (1968) e Pizza connection (1985), certamente perché più noti, ma anche e soprattutto perché guardare la sua filmografia in toto rende la questione ben più complessa e persino contraddittoria. Questo anche escludendo le anomalie o gli unicum, e concentrandosi esclusivamente sul genere che lo ha reso famoso. L’action e il poliziesco si mischiano talvolta al dramma famigliare come nel caso di Un uomo in ginocchio (1980), oppure alla spy-story internazionale che guarda al cinema di Pollack e Pakula, come nel caso di Goodbye & Amen; troviamo il dramma carcerario (L’istruttoria è chiusa: dimentichi), il noir, e persino il trash (involontario) più spinto (Alex l’Ariete). 
Nel suo approccio alla materia, il regista de L’avvertimento (1980) non perde mai di vista la spettacolarità, il gusto del “genere”, il ritmo e la commerciabilità di un film, parola questa che qui in Italia, e solo qui, sembra quasi una bestemmia. Inoltre, la maniera di Damiani d’aver fuso la denuncia con il cinema di genere è stata naturale, con la creazione di film muscolari ma che, volendo essere anglofoni, si potrebbero definire dei ‘thinking man’s action movies”. 
Tralasciando per il momento Il sicario (1961), il cui incipit vagamente noir in realtà rivela un dramma intimista, il primo film del filone maestro del cinema di Damiani è Il giorno della civetta, che si aggiudicò una nomination al festival di Berlino di quell’anno. Nella Sicilia dei primissimi anni sessanta, il capitano Bellodi (Franco Nero), carabiniere ed ex partigiano, si ritrova in servizio in un piccolo paese a indagare sull'omicidio di Salvatore Colasberna, un impresario edile, ucciso per essersi rifiutato di lasciare un appalto a una ditta protetta dalla mafia. La sceneggiatura, scritta oltre che dal regista anche da Ugo Pirro, è tratta dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, che a sua volta prende spunto dall'omicidio del sindacalista Accursio Miraglia, ucciso a Sciacca nel 1947. Uno dei punti di forza del film è la calma apparente e la minacciosa tranquillità che Damiani infonde alla pellicola, riuscendo inoltre a descrivere, mai banalmente, l’omertà strisciante nel paese e la sensazione di corruzione assoluta in qualsiasi ambito, sia politico che giudiziario, nonché ecclesiastico. 
Due anni dopo, Damiani torna in terra sicula con La moglie più bella, accompagnato dalla debuttante Ornella Muti, ma stavolta analizza la macchina dell’omertà dal suo interno. L’anno successivo inizia a sviluppare una nuova estetica personale e uno stile unico all’interno del filone, con il primo capitolo di un'ipotetica trilogia, con protagonista sempre Franco Nero, le cui location sono evidenti fin dai titoli: Confessione di un commissario di polizia al procuratore della repubblica (1971), L'istruttoria è chiusa: dimentichi (1971), il cui incipit ricorda non poco il bellissimo Detenuto in attesa di giudizio di Loy uscito lo stesso anno, e Perché si uccide un magistrato (1975), il meno riuscito in ritmo e tensione. 
Con il pressoché sconosciuto Goodbye & Amen - l’uomo della CIA (1978), Damiani rimane in un territorio simile, ma anche profondamente diverso dai film sopracitati. Anche qui la vicenda ruota intorno a un protagonista, o un gruppo di personaggi, nel tentativo di creare un affresco più ampio, un mosaico dal respiro internazionale. Qui, però, il tutto è molto più claustrofobico e il regista sembra giocare soprattutto con le suggestioni. Roma, ad esempio, se non nei titoli di testa, che si srotolano su una panoramica del centro storico, è obliterata, è un posto fatto di uffici e vetri (anche nelle scene in esterna Damiani non ricorre mai ai campi larghi), accentuando quel senso di non-luogo e di incertezza.   
Tratto dal romanzo di Francis Clifford, Sulla pelle di lui, edito nella collana Mondadori I segretissimi, il film ruota intorno a un distaccamento della CIA a Roma che sta preparando un attentato in un Paese africano. Le operazioni sono condotte dall’agente John Dannay (il sempre efficace Tony Musante), il quale scopre che Harry Lambert (Wolfango Soldati) è colpevole di atti di spionaggio e sta cercando di sabotare il loro piano. Nel frattempo, Douglas James Grayson (John Steiner, che ruba la scena a tutti) armato di fucile si barrica nell’Hotel Hilton prendendo in ostaggio la nobildonna romana De Mauro (Claudia Cardinale) e il suo giovane amante (Gianrico Tondinelli). Una serie di coincidenze fa pensare che il cecchino sia proprio Lambert, e mentre la polizia italiana intrattiene un duro braccio di ferro con il sequestratore, Dannay si rende conto del disguido, dovendo ora risolvere ben due situazioni spinose, con poco tempo a disposizione. 
Damiani abbandona quindi il tema della mafia, per firmare una pellicola che inizia come una classica spy - story, e che progressivamente diviene un thriller politico, puntellato da un'ossessiva e funzionale colonna sonora dei fratelli de Angelis. Asciutto e claustrofobico, Goodbye & Amen, girato back-to-back come il più noto Io ho paura, è uno dei migliori film di Damiani degli anni settanta. Da sottolineare anche la secchezza dei dialoghi, a cui manca del tutto la retorica che ci si potrebbe aspettare da un film di questo genere. In tal senso, va detto che nelle pellicole di Damiani non ci sono i connotati paternalistici e la ruffianaggine insita, ad esempio, in un certo cinema di Giuliano Montaldo o di un Giuseppe Ferrara. In sostanza, il suo cinema, per quanto certamente politicizzato, non è mai stato ‘di partito’ e, quindi, non è mai arrivato a usare il genere esclusivamente come confezione per veicolare tesi di matrice propagandistica. A dimostrazione di questo, si può notare quanto poco e per niente male siano invecchiati i suoi lavori rispetto a quelli di molti suoi colleghi. 
Da notare, inoltre, che questo è l’unico film in cui si parla e si fa menzione della presenza della CIA su suolo italiano. Tema che sarebbe interessante venisse trattato maggiormente, se certi scatoloni non fossero così irraggiungibili. L’ombra in certi angoli del nostro magazzino è davvero troppo fitta. 
  
Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Scheda tecnica

Titolo originale: Goodbye & Amen- l’uomo della CIA
Anno: 1978
Regia: Damiano Damiani
Sceneggiatura: Nicola Badalucco, Damiano Damiani
Fotografia: Luigi Kuveiller
Musiche: Guido e Maurizio de Angelis
Durata: 103 min
Attori principali: Tony Musante, Claudia Cardinale, John Steiner, John Forsythe, Wolfgango Soldati

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