Quello che di certo si può dire è che il BDSM non è mai stato parte integrante dell’immaginario collettivo erotico italiano, e questo lo si può vedere da quanto poco il cinema – da sempre manifestazione più immediata di mode ed evoluzioni – abbia trattato l’argomento ma soprattutto da come abbia, nella quasi totalità dei casi, usato questa corrente sessuale per scopi metaforici che ne snaturano la “filosofia” che la sorregge. Vale la pena soffermarci un attimo sul significato di questo, per molti criptico, acronimo.
Il BDSM identifica e definisce un insieme di pratiche relazionali e preferenze sessuali basate sulla dominazione e la sottomissione. Possiamo riunire queste pratiche in due macro-categorie. Bondage & Disciplina: il bondage comprende un elevato numero di pratiche che riguardano la costrizione fisica tramite corsetti, lacci, corde, manette, legature di vario genere e realizzate con vari materiali, bavagli, cappucci, imbracature e tutto quello che ridimensiona o impedisce la libertà fisica, non solo nel muoversi ma nel comunicare con il corpo. Si parte dal cosiddetto light bondage – che tendenzialmente riguarda la legatura dei soli mani e piedi – fino ad arrivare a forme di annodamento molto complesse come la mummification o il suspension bondage, in cui il sottomesso (detto sub) viene sospeso da terra, talvolta anche con l’uso di ganci. Dominazione & Sottomissione (D&S o DS): con il riferimento specifico a questo termine si intende sottolineare la componente maggiormente psicologica, emotiva e cerebrale, nonché quelle pratiche che esulano dal puro e semplice contatto sessuale. L'eccitazione viene infatti spesso provocata, in queste relazioni, oltre che da pratiche come il whipping o lo spanking, dal controllo e dall'autorità che il dom detiene sul sub.
Tornando alla specificità dell’argomento contingente si può notare come, verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, elementi che all’epoca si sarebbero definiti “sadomasochistici” o ancor più volgarmente “sadomaso” cominciano a contaminare la nostra cinematografia. Non avviene, naturalmente, un’improvvisa fascinazione con questa deriva sessuale. Piuttosto si tratta di uno dei molti Achei usciti fuori dal Cavallo di Troia, trascinato al di là delle mura di celluloide dalla rivoluzione sessuale in atto e dall’abbassamento degli standard censori.
Si tratta quasi sempre di escamotage comico-grotteschi piuttosto che parabole su prevaricazioni di classe o volte a raccontare la crescente insicurezza e conseguente demascolinizzazione dell’uomo medio, dovuta alla rivoluzione di cui sopra, come nel caso di certe pellicole di Pasquale Festa Campanile (la non riuscita “commedia da camera”; la sculacciata rappresenta un ottimo esempio in tal senso, in cui lo spanking è usato come tentativo disperato da parte di un marito di riacquistare una dominanza sessuale in seguito a un’improvvisa impotenza sessuale). Quindi le uniche vere tracce di BDSM, o comunque di realistiche derive sadomasochiste, riscontrabili nel cinema italiano – di genere e non – si possono trovare più negli impianti visivi o in singoli, quanto fugaci, escamotage narrativi o elementi scenografici che nel tentativo di descrivere correttamente dinamiche relazionali o codici comportamentali.
Tra le pellicole degli anni Sessanta/Settanta, il buon Femina Ridens (1969) di Piero Schivazappa è forse quello che – sul piano visivo-iconografico – risulta il meno datato nel trattare sapori e suggestioni BDSM. Se, come detto, l’interesse nel rapporto tra dominante e sottomessa non passa attraverso un’analisi sessuale quanto sociologica e quindi metaforica, il regista de La signora della notte, nel plasmare il suo delirio fetish-pop, si dimostra più consapevole di quello che sta distorcendo rispetto a molti suoi colleghi, nell’uso intelligente di iconografia, sex toys e umori.
Paradossalmente lo stesso anno di Femina Ridens escono quelle che si possono considerare le altre due pellicole BDSM italiane per antonomasia: Scacco alla regina del già menzionato Campanile e soprattutto Venere in Pelliccia di Massimo Dallamano (che si firma con il suo pseudonimo Max Dillman). In quest’ultimo troviamo dei rimandi psicologici verosimili all’interno della coppia protagonista.
Tratto dal romanzo erotico di Leopold von Sacher-Masoch (1870), il film è noto più per le sue traversie censorie che per i suoi contenuti. Nel 1969, anno della sua uscita, il film non riuscì a superare il visto censura a causa delle scene più spinte ritenute troppo scabrose per l’epoca. Denudato dai momenti più forti, fu poi ripresentato nel 1973 con il titolo Venere nuda, ma anche questa versione venne bloccata e anche a questo giro non ebbe una distribuzione nelle sale. Il film riuscì, finalmente, ad avere una vita in Italia (ricordiamo che in Germania il film ebbe un discreto successo già alla sua prima uscita e nella sua forma originale) solo due anni dopo, in una versione ancor più stravolta e sforbiciata, con il titolo Le malizie di Venere (probabilmente concepito per cavalcare l’onda del fenomenale successo del Malizia di Salvatore Samperi, sempre con Laura Antonelli).
La prima versione del film si conclude con il protagonista che nella notte nota una prostituta con i tratti somatici quasi identici a quelli di Wanda. Decide di portarla con sé in una camera di hotel, ma lì viene colto da un episodio rapsodico in cui tenta di strangolarla in quello che si può definire una sorta di transfert emotivo. Quando a sorpresa la donna ammette una certa eccitazione dinanzi alla sua violenza lui sembra sciogliersi, l’abbraccia dolcemente e le chiede di accontentarlo: si sdraia a pancia in giù al centro del letto e si fa frustare con la cintura dei pantaloni. Laura Antonelli risulta una scelta convincente proprio per il suo volto indeciso e i suoi tratti delicati, mentre è meno in parte Vallée, intrappolato in un ruolo troppo complesso e multi-stratificato per le spalle esili dell’attore francese. Da segnalare nel cast l’americano Loren Ewing (il Goliath di Terror! Il castello delle donne maledette) e Renate Kasché, già apparsa in La morte non ha sesso.
Dallamano è alla sua terza regia cinematografica, dopo una lunga carriera da direttore della fotografia e qualche documentario. L’anno prima aveva firmato proprio il proto-giallo La morte non ha sesso e quello prima ancora il suo unico western da regista, Bandidos, ma con Le malizie di Venere siamo davanti a quello che facilmente si può identificare come uno dei sui film più personali, chiave di lettura per molti dei lavori a venire. Si può infatti trovare un modus operandi analogo nei suoi successivi gialli (Cosa avete fatto a Solange? e La polizia chiede aiuto in primis) nella maniera tanto di concepire personaggi protagonisti in cui l’ambiguità è l’elemento determinante quanto nella costruzione di vicende permeate di morbosità feticiste.
L’unico distinguo da fare è che in Venere Dallamano sembra mantenere un non-giudizio nei confronti dei suoi personaggi, un distacco morale perfettamente in linea con l’origine letteraria della pellicola. Non c’è da stupirsi, infatti, che il film sia tra quelli che più riescono a mantenere una veridicità in fatto di bisogni di stampo feticista, dato proprio il suo punto di partenza. Il racconto di Leopold von Sacher-Masoch ha esercitato un enorme fascino tanto nella letteratura quanto nel cinema, arrivando a rappresentare un caposaldo dell’immaginario BDSM. Oltre a Dallamano, ad attingere dall’opera di Sacher-Masoch troviamo anche Jesús Franco – che molto liberamente lo fa con Venus in Furs – e persino Polanski con il suo ultimo film basato sull'adattamento teatrale a firma di David Ives.
Le maniere di concepire questa tipologia di sesso sono pressoché infinite, mentre nell’immaginario collettivo il BDSM è ancorato a uno stereotipo desueto e parodistico: corpetti di pelle, maschere di latex con la zip sulla bocca e tacchi neri. Il concetto di dolore, secondo una visione di massa, è del tutto unilaterale e ignora le implicazioni psicologiche. Lo scambio di ruoli, il gioco del ribaltamento delle parti e il gusto dell’anticipazione rendono, talvolta, il dolore l’effetto collaterale più puro di un gioco e non l’epicentro del piacere. La manifestazione di un desiderio feticista isolato, scollegato dal complesso mosaico di una persona o il rapporto di una coppia, nell’accezione più acattolica e lata del termine è sempre noioso e banale e le sue pretese trasgressioni, celebrate da tanta banale letteratura e cinematografia, sono spesso innocue masturbazioni, penosi retaggi che hanno superato il loro recinto puberale, pornografia a prescindere dalla presenza o assenza di rappresentazioni ginecologiche del rapporto sessuale.
Solo l'amore, una Esistenza del sesso che sia condivisa, la passione per un altro essere umano e il suo corpo, il desiderio dell'altro divenuto indissolubilmente desiderio del suo bene - anche all’interno di un rapporto che contempla il gioco sessuale del dolore - può portare alla trasgressione vera, può essere salvezza o perdizione. “La virtù non consiste nei principi, ma unicamente nell'amore”, scriveva Masoch in L’amore crudele. Speriamo che il cinema mainstream si rimetta al passo con i tempi, rinunciando a una, sette o cento sfumature.
Eugenio Ercolani
Sezione di riferimento: Italia Terza Visione
Scheda tecnica
Titolo originale: Venere in pelliccia (Venere nuda, 1973 - Le malizie di Venere, 1975)
Anno: 1969
Durata: 83'
Regista: Massimo Dallamano
Sceneggiatori: Fabio Massimo, Inge Hilger, Massimo Dallamano (non accreditato)
Fotografia: Sergio D'Offizi
Musiche: Gianfranco Reverberi
Attori: Laura Antonelli, Regis Vallée, Loren Ewing, Renate Kaschè