La curiosità morbosa certamente è una componente del desiderio che l’uomo ha nel mostrare e nel vedere la morte nelle sue molteplici forme, ma sarebbe fin troppo riduttivo fermarsi qui. In primis c’è il desiderio forte, naturale quanto ingenuo, di assuefarsi, di anestetizzarsi al concetto di morte. L’intimità della morte, nella sua finzione cinematografica, può talvolta, creare una sottile emozione e un conseguente senso di colpa, similare a quello procurato dalla pornografia. Pornografia e morte, le due facce di un’ oscena quanto umana medaglia. Fottere e morire.
Il cinema, in questo senso, è il rifugio per antonomasia. Perché il cinema è, sì, una forma d’arte, un intrattenimento per masse e per nicchie, un gioco, una valvola di sfogo, un grande esperimento tecnico-visivo in progressiva e continua evoluzione, un archivio storico in perenne aggiornamento, un raccoglitore di istantanee, una macchina del tempo, la nostra memoria collettiva; ma nell’essere tutte queste cose, è anche generatore di fantasmi. Carne di celluloide che continua a muoversi costretta a una ritualità ossessiva. Un contenitore, appunto, di fantasmi catturati su pellicola, destinati a ripetere per sempre gli stessi gesti, gli stessi errori, gli stessi dolori, a raggiungere la stessa sorte, triste o gioiosa che sia, di nuovo e di nuovo ancora, e poi ancora un’altra volta; e sono le nostre aspettative, i nostri dolori, i nostri occhi che mettono in moto questi purgatori virtuali, questa ripetizione di gesti su cui proiettiamo noi stessi. Perché quando guardiamo o rivediamo un film non stiamo solo assistendo a uno spettacolo di fantasmi, ma stiamo vivendo anche tutto quello che su quell’opera è stato proiettato da altri.
Il cinema rimane tanto una passione solitaria, fatta di salotti e sale buie, quanto un silenzioso scambio di aspettative tradite e sogni, morte e speranze. Alla fine, a muoversi insieme a quei personaggi-burattini ci siamo anche noi. Perché un’opera, dal momento che viene contaminata, sporcata dagli occhi di un pubblico, smette di essere di chi l’ha diretta e concepita: il regista non ha controllo e il film inizia il suo percorso nel mondo e nella storia. Una malinconica affermazione bisbigliata dal protagonista di L’occhio che uccide di Michael Powell riassume perfettamente il gesto di riprendere e il ruolo del creatore di fantasmi: “Everything I photograph, I always lose…”
Che fantasmi ha sguinzagliato sul mondo e su tutti noi Ruggero Deodato ? Spettri dolorosi e violenti, tranquilli dietro una controllata facciata civilizzata, crudeli freaks ignari delle proprie deformità, incravattati professionisti del dolore certi dell’essere nel giusto o, come direbbe lo stesso Deodato, semplicemente versioni distorte di noi stessi. Questo vale se si prendono in rassegna i film per cui il regista (Potenza, 7 maggio 1939) è più conosciuto su suolo italiano ma, soprattutto, all’estero: in primis Ultimo mondo cannibale , Cannibal holocaust e La casa sperduta nel parco; ma è impossibile non citare, in seconda battuta, pellicole come Ondata di piacere, Uomini si nasce, poliziotti si muore e Concorde Affaire ’79. Il primo dei film citati è anche il primo vero e proprio cannibal-movie (nel precedente Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi, considerato il precursore, l’aspetto antropofago è troppo marginale per considerarlo un “cannibalico” puro).
Rolf e Robert si perdono nella giungla e, nel tentativo di ritornare al campo base via fiume, costruiscono una zattera che però finisce per infrangersi contro le rocce sfasciandosi. Robert si mette in cammino ma viene catturato da una tribù di indigeni non cannibali e imprigionato in una caverna. Lì viene spogliato, umiliato e deriso da tutti gli indigeni, che lo fanno assistere ad alcuni riti tribali, come uccisioni di animali, stupri e violenze di ogni genere. Sarà grazie a una bella indigena, incuriosita e attratta dall’uomo ( Me Me Lay ) che Robert riuscirà a fuggire.
Ultimo mondo cannibale (1977) nel suo essere atipico, sporco, documentaristico, quasi claustrofobico nella maniera di riprendere il contesto naturale, ha delineato il blueprint a cui tutti i film appartenenti al filone si atterranno: l’utilizzo di animali e l’uccisione reale di quest’ultimi, un gusto “da reportage” nella regia, scene di violenza grafica in cui assistiamo a famelici cannibali in azione, e la strumentalizzazione di queste tribù indigene al fine di una denuncia con conseguente morale. Se si guarda il migliore e più riuscito cinema di Deodato, e Ultimo mondo rientra sicuramente in questa categoria, si potrebbe definire il regista un “autore di pancia”: poche idee ben eseguite, sapienza tecnica e una narrazione solida. Un cinema d’immagini, in cui le parole sono fastidiose perché ridondanti rispetto alla immagini.
Tornando a UMC, in origine il film doveva essere diretto da Umberto Lenzi, che veniva dal successo del già citato Il paese del sesso selvaggio. Si può perfino trovare un trailer (ad esempio nel DVD tedesco del film) in cui appare proprio il nome di Lenzi. Quindi non c’è da stupirsi se ritroviamo i due protagonisti del precedente film, gli attori Ivan Rassimov e Me Me Lay. Se però Lenzi si è approcciato al filone sia con il suo primo titolo apripista, sia nel decennio successivo (Mangiati vivi e Cannibal Ferox) come a qualsiasi altro genere, in maniera distaccata, Deodato si trova nel suo contesto ideale. Le caratteristiche del contesto scenografico e la tipologia di storia permettono al regista di realizzare film in cui la tecnica è la narrazione. Gli danno la possibilità di mettere in scena un cinema selvaggio quanto essenziale, asciutto. Avesse esordito alla regia qualche anno prima, Deodato sarebbe stato un ottimo regista western.
L’eredità dei mondo movies, palese nel suo cinema cannibalico, è ravvisabile non soltanto nelle location esotiche e nei relativi contesti tribali, ma soprattutto nel continuo interscambio tra realtà e finzione, previa una differenza di intenzioni: mentre registi come Jacopetti e Prosperi mostravano fiction tentando di farla apparire reale, spacciandola per tale, Deodato nel suo film più noto, nonché vera e propria summa del cannibal-movie, ovvero Cannibal holocaust (1980), allestisce, inserendolo nel diegetico, un vero “film nel film”. Così facendo, realizza uno dei film più influenti degli ultimi quarant’anni.
Vale però considerare un aspetto: secondo molti scritti, il filo rosso che infiocchetta la sua filmografia è dato dai generi da lui esplorati e da un modo di girare “più americano che italiano”. Seppure vere, queste considerazioni sono limitative. Certo, Deodato ha di rado firmato le sceneggiature dei suoi film e come nella migliore tradizione “di genere” si è dovuto piegare alle esigenze di mercato, prodigandosi nei generi più disparati: dal musicarello al post-atomico, dall’erotico allo slasher. Ma Deodato ha sempre portato avanti la sua particolarissima estetica della violenza. Il suo cinema non gronda sangue e non è popolato da urla ancestrali, ma è animato dai lamenti di umani, vittime del sadismo di altri umani. “Pariolini” (termine, molto conosciuto dal regista, che deriva da una zona di Roma e che sta a indicare persone che nei soldi e nell’immagine trovano il senso della loro esistenza), proletari violenti che divengono inconsapevoli strumenti di una borghesia bene, cinica e dissoluta, coppie anestetizzate in cerca di stimoli e pronte a tutto per averli, giornalisti la cui ambizione diventa un cancro che li divora.
Nel miglior cinema di Deodato non ci sono scuse né salvezza, il che rende i suoi fantasmi schiavi di un ritualità ancor più dolorosa a cui assistere. Perché “noi” è l’unica risposta alla domanda, ridondante ma memorabile, di chiusura a Cannibal holocaust. Sempre e solo dannatamente noi.
Eugenio Ercolani
Sezione di riferimento: Italia Terza Visione
Scheda tecnica
Titolo originale: Ultimo mondo cannibale
Anno: 1977
Durata: 88 min
Regista: Ruggero Deodato
Sceneggiatore: Tito Carpi, Ruggero Deodato
Fotografia: Marcello Masciocchi
Musica: Ubaldo Continiello
Attori: Massimo Foschi, Ivan Rassimov, Me Me Lay