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LABBRA DI LURIDO BLU - Autopsia di un desiderio

24/10/2014

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Negli ultimi anni di vita Giulio Petroni ha cercato di modellare, smussare e mettere in ordine la sua carriera. Intervista dopo intervista, articolo dopo articolo, conferenza dopo conferenza, Petroni ha tentato di limare il ricordo di una carriera lunga e contradditoria, dove vivevano in lui, più forti, le occasioni mancate, l’inespresso e lo sfiorato. La cosa che in assoluto sembrava premergli di più era rimuovere tutto quello che per il cinema aveva realizzato dopo il 1975. Il rivale, il precedente L’osceno desiderio, le sceneggiature firmate con Massimo Franciosa ma anche le pubblicità e i documentari televisivi. 
Petroni sminuiva e depistava, e l’impressione finale è che tutto questo fosse mirato a far sì che Labbra di lurido blu venisse considerato e ricordato, da tutti, come il suo ultimo film. Il canto del cigno, l’ultima mano di una partita giocata troppo in fretta. Petroni amava i colpi di scena ma non la teatralità, i toni altisonanti. La sua anima malinconica glielo impediva e Labbra di lurido blu era il sipario perfetto con cui uscire di scena camminando. Un film incompreso, un regista amareggiato con più demoni che buon senso, una diva sul viale del tramonto, uno scandalo offuscante. Tutti gli ingredienti perfetti per la chiusura di una carriera dalla difficile collocazione. 
Si potrebbe quasi dire che tutte le scelte di Petroni lo abbiano portato, inevitabilmente, a Labbra di lurido blu, ma per capire meglio bisogna tornare all’inizio di quel folle decennio. Agli albori degli anni settanta Petroni era, come direbbero gli inglesi, “at the top of his game”. Prolifico quanto basta, viaggiando su una media di un film all’anno, il regista veniva da un decennio di successi in cui si era guadagnato budget, cast e potere contrattuale al di sopra della media. La sfilza di successi western (soprattutto il tris di Da uomo a uomo – E per tetto un cielo di stelle –Tepepa) lo aveva posto al centro dell’attenzione. De Laurentiis, in quel momento nella fase di transizione dall’Italia agli Stati Uniti, gli propose un film, le sceneggiature si accumulavano nel suo ufficio ai Parioli e le possibilità erano infinite. Vinse su tutto, però, la vena autodistruttiva di Petroni, pulsante e mimetizzata sotto il desiderio forte di emancipazione. 
“L’idea di cimentarmi nelle vesti di produttore mi era già venuta parecchio tempo prima. Il mio rapporto con questa figura è sempre stato difficile già all’epoca di Emo Bistolfi che produsse Una domenica d’estate e I soliti rapinatori a Milano. Un uomo rozzo, gretto, sprovvisto anche solo di un barlume di umorismo o autoironia. Da uomo a uomo, E per tetto un cielo di stelle e Tepepa erano stati successi incredibili e io volevo cogliere l’occasione di emanciparmi. Con Non commettere atti impuri sono riuscito finalmente a fare questo passo. Il western aveva ormai fatto il suo corso e in me è cominciato a crescere il desiderio di esplorare nuovi territori e di assumere più controllo sui miei film; non che non lo avessi avuto fino a quel momento ma, forse anche ingenuamente, volevo limitare il più possibile i compromessi. Un azzardo che ho pagato caro”. 
Cosi Petroni descrive l’idea di fondare l’Azalea, la sua casa di produzione. I tre film che lui produrrà, inframezzati soltanto dal suo ultimo western (La vita a volte è molto dura vero Provvidenza?, 1972), sono legati insieme da tematiche e suggestioni così indissolubilmente simili da comporre una sorta di trilogia. In Non commettere atti impuri (1971), Crescete e moltiplicatevi (1973) e Labbra di lurido blu (1975), tutti film per cui Petroni non ha badato a spese, le musiche di Morricone e Ortolani puntellano un’atmosfera pervasa da blasfema morbosità. Infatti, nonostante i cambi di registro tra i tre titoli nonché all’interno degli stessi, a tenerli saldamente insieme è un miscuglio, spesso agrodolce, tra religione, sessualità e famiglia, racchiuso nel microcosmo della provincia. 
Crocifissi e corpi nudi, maschere di perbenismo e desideri sussurrati, traumi inconfessabili e nuclei familiari dilaniati dallo scandalo: Petroni è impietoso nei suoi ritratti ma, al contrario dei suoi colleghi intenti in progetti analoghi, lui non assume mai un ruolo giudicante. Petroni riprende le sue creature deformi e incomprese con sguardo oggettivo, persino compassionevole. Il moralismo, specie quello appartenente a un retaggio cattolico, non esiste nel suo cinema; un esempio perfetto è proprio l’ultimo dei tre film, il più ambizioso.
Ely (Lisa Gastoni) e Marco (Corrado Pani) sono due anime rotte, due fantasmi attanagliati da traumi infantili che ancora pervadono ogni loro gesto, ogni loro decisione. Forse per trovare insieme una via d'uscita dalle loro deviazioni, forse per sostenersi a vicenda, i due si sposano. Il matrimonio, però, non risolve i loro problemi, né li facilita l'inaspettato ritorno di George, l'antiquario inglese già "amico" di Marco, che ora lotta per strapparlo a Ely. Inevitabile quanto scioccante il tragico finale, macchiato di sangue.
“Tinte gialle”, “fumettistico”, “a tratti surrealista”: questi i termini usati da molti critici dell’epoca per tentare di decifrare l’approccio stilistico di Petroni. In effetti il film sembra essere rinchiuso in una bolla, in cui tutto pare galleggiare. L'inizio ha la solennità di un western: esterno, giorno; strade di campagna isolate e vuote; silenzio; un donna in auto; alle sue spalle una desertica pompa di benzina. Un giovane in motocicletta si accosta e senza togliersi il grosso casco nero annuncia lapidariamente: “George vuole vederla”. I motori si accendono. “Mi segua”. Musica. Titoli di testa. A seguire i credits una sequenza lunga e psichedelica, grottesca e surreale, all’interno di una chiesa sconsacrata in cui la Gastoni verrà presa e picchiata, spogliata e derisa, un’umiliazione che sembra dipanarsi in una sorta di balletto i cui coreografi sono un gruppo di demoni in lattice, di fetish-punk ante litteram. Quel che balza subito agli occhi è la cura nel dettaglio, nella fotografia, i fluidi e ricercati movimenti di macchina. Petroni inizia il suo film con l’intenzione di sedurre quanto di alienare.  

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Come si diceva prima, l’autore de La notte dei serpenti non bada a spese: Ennio Morricone (alla sesta collaborazione con il regista) firma la colonna sonora, Gabor Pogany, uno dei nostri più grandi direttori della fotografia, ne cura gli acidi contrasti cromatici e il grande Giancarlo De Leonardis è responsabile del trucco e delle acconciature. A chiudere il cast invece troviamo un folto numero di volti noti: Gino Santercole, Silvano Tranquilli, la prolifica starlette Hélène Chanel, l’attore britannico Jeremy Kemp, vincitore di un Bafta per La caduta delle Aquile, la cometa Daniela Halbritter (lanciata proprio da Petroni, con cui aveva una relazione) e Armando Brancia. Petroni invece, oltre a ricoprire i ruoli di regista e produttore, cura anche il montaggio e firma sia il soggetto, insieme al sodale Franco Bottari, sia la sceneggiatura.
Se nei precedenti due film targati Azalea trovavamo un’atmosfera brillante contaminata da improvvisi sprazzi di violenza e malsana sessualità, questa pellicola è esattamente il contrario, essendo del tutto ermetica a elementi dissacranti. All’apparenza potrebbe fare eccezione la “leggerezza” delle sequenze tra il giardiniere Santercole e la cameriera Halbritter, ma sulla lunga distanza queste risultano, nel loro stridere, funzionali a creare un’ulteriore morbosità. La macchina da presa è quasi sempre stretta sui due protagonisti, in un delicato avanti-indietro tra le loro vite vicine ma separate, e sui momenti salienti dei loro dolorosi passati (ottimo l’uso, in tal senso, dei flashback).  
Sarebbe facile, e viene naturale, collocare Labbra di lurido blu (il titolo è la traduzione di un verso di Shelley) all’interno di quel macro-filone, di quel magma informe che è stato il cinema erotico-intellettualistico degli anni settanta. Per il contesto provinciale, per la presenza della Gastoni o per il tasso di erotismo, Labbra sembra infilarsi perfettamente nelle mode del cinema erotico-borghese in cui militavano registi come Salvatore Samperi (Scandalo – proprio con la Gastoni – è di pochi anni prima), Bruno Gaburro, Peter Skerl, Massimo Pirri, Maurizio Liverani, Alberto Bevilacqua, Luigi Scattini, Silvio Amadio. Autori diversi ma uniti nel tentativo di raccontare storie di nuclei familiari, tradizionali o meno, che diventassero specchio di un'Italia mutevole, condendo i loro racconti con ingredienti voyeuristici e pruriginosi. Ma il film di Petroni si discosta da questo approccio per vari motivi, rendendosi un unicum nel genere.
Innanzitutto Labbra di lurido blu è scevro da retaggi e influenze politiche. La storia si svolge nell’anno della realizzazione del film e non ci sono riferimenti alla morte dei valori sessantottini, alla controcultura giovanile, al partito comunista, alla fascismo o alla DC. Petroni è intimista fino in fondo: non troviamo il tentativo, spesso posticcio, di rendere la vita dei personaggi metafora della vita politica del paese, della morte delle ideologie. Non troviamo un simil Ugo Tognazzi, come in Nenè (esempio in tal senso perfetto, datato 1978) di Samperi la cui presenza è giustificata soltanto dal tentativo di donare forzatamente un’ulteriore chiave di lettura. 
Inoltre l’erotismo messo in scena da Petroni è repulsivo, genuinamente respingente. I nudi e le situazioni forti sono molti, ma Petroni non muove la sua macchina da presa con rustico compiacimento, con goduriosa curiosità. Lui riprende e basta. Freddo e distaccato come un’autopsia. Labbra di lurido blu è esattamente questo, l’autopsia di un desiderio. Personaggi morenti ripresi nel loro spleen maledetto, nel loro boccheggiare. I culi esposti di Gabburro e Amadio, giusto per citarne due, non hanno nulla in comune con la pelle nuda dei personaggi di Petroni. 
Se però nel riprendere la sessualità e il sesso il regista di Tepepa è distaccato, nel descrivere i suoi personaggi non lo è minimamente. La ninfomane piegata dalla vita e il marito attanagliato da un’omosessualità repressa sono ripresi ad altezza d’occhi, mai un palmo sopra. La Gastoni ricorda quanto Petroni si arrabbiasse quando lei descriveva il suo personaggio come una poco di buono: “Una volta me ne uscii definendola una puttana e Giulio si arrabbiò. ‘Non devi dire così! Lei è alla ricerca di se stessa’”. Sarà per questo modus operandi di Petroni che in Ely abbiamo il ritratto più introspettivo e veritiero della ninfomania (anche se questo termine non viene mai menzionato nella pellicola) che si possa trovare nel cinema italiano.
Quanto all’Azalea, nessuno dei tre film fu un flop ma Petroni, che notoriamente era un pessimo amministratore economico, per ogni pellicola si indebitò sempre di più. Questo, unito ad uno stile di vita sempre più costoso, fece sì che la vita della casa di produzione fosse molto breve. Nonostante le intenzioni onorevoli di volersi distaccare dalle mode cinematografiche correnti e di esplorare nuovi territori, Petroni si trovò inseguito dalle banche e con il film del ’75 il gioco finì. Si vide portar via la sua cascina in Umbria, il vasto terreno circostante e il suo allevamento di maiali. 
“Difficilmente penso alle conseguenze delle mie azioni”, scrisse in un suo libro autobiografico (Passeggiate nelle sabbie mobili), e così fu per la sua vita da produttore. Le critiche feroci a Labbra di lurido blu insieme all’inizio della vera crisi cinematografica fecero il resto. “Io non credo di aver meritato il linciaggio di cui sono stato vittima in seguito all’uscita di Labbra di lurido blu. Volevo gettare luce su un problema che a metà degli anni settanta era molto forte… una parte della società che non riusciva ad analizzarsi, a guardarsi dentro; era in uno stato conflittuale con se stessa: da una parte c’erano i desideri, le voglie, e dall’altra il peso dei tabù ancora forti che schiacciava le volontà. Il film ha avuto un discreto successo di pubblico che ha scelto di non dar peso alla critica che mi massacrava. Forse non sono riuscito nei miei intenti, ma almeno, se queste aggressioni fossero uscite fuori da un’analisi degli intenti e contenuti della pellicola, allora, sarebbe stato sopportabile; invece era tutto gratuito e immotivato. Nulla fu più come prima dopo Labbra di lurido blu”.

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione

Intervista a Giulio Petroni realizzata da Eugenio Ercolani e tratta dall'articolo apparso su Nocturno Cinema (N 92 - Aprile 2010)


Scheda tecnica

Regia: Giulio Petroni
Sceneggiatura: Franco Bottari, Giulio Petroni
Musiche: Ennio Morricone
Fotografia: Gabor Pogany
Anno: 1975
Durata: 120'
Attori: Lisa Gastoni, Corrado Pani, Jeremy Kemp, Gino Santercole, Hélène Chanel

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IL RIVALE e DJANGO 2 - Il lontano West

17/2/2014

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Gli ottanta sono stati gli anni di un decennio mutevole e contraddittorio. Tra il 1987 e il 1988 assistiamo alla rielezione, per la terza volta, di Margaret Thatcher come primo ministro. A Ginevra USA e URSS firmano uno storico trattato per la riduzione degli arsenali nucleari e la distruzione degli euromissili. Scienziati statunitensi scoprono un buco dell'ozono sopra l'Antartide dalle dimensioni preoccupanti. 
Pochi mesi dopo, il dittatore cileno Augusto Pinochet viene cacciato da un referendum popolare, conservando però la carica di comandante delle forze armate. I Pink Floyd tornano alla ribalta dopo la scissione con il bassista Roger Waters con un nuovo album denominato A momentary lapse of reason, e con una nuova tournée mondiale della durata di tre anni, con alla guida il chitarrista David Gilmour. 
Mentre tutto questo accade, in Italia, la lotta di Fellini contro l’inserimento delle pubblicità nei film sta morendo. Neanche un monumento come il regista di 8½ può nulla per contrastare la lenta e inesorabile mutazione del cinema in un paese che dorme, ignaro, sotto la lava ribollente di Mani pulite, che da lì a poco sarebbe esplosa.        
Il cinema di genere, colonna vertebrale di quell’industria che stava assumendo i primi inquietanti connotati “para-statali” che all’inizio del decennio successivo avrebbero dato il definitivo colpo di grazia, stava sparando le ultime cartucce e arrivati, per l’appunto, al 1987, molti registi si trovarono estromessi, o lo sarebbero stati da lì a breve, da un cinematografia allo sbando. Fulci, ormai assicurata la sua immortalità con la cosiddetta “trilogia del terrore” e annientato dalla malattia, era divenuto l’ombra di stesso, cercando disperatamente di riproporre quel micidiale connubio di macabra poesia che l’aveva reso grande. Lenzi, pur rimanendo prolifico, non riusciva a centrare un film. Sergio Corbucci si trovava a trastullarsi con commedie corali lontane dalle sue corde. Massaccesi stava per vedere colare a picco la sua Filmirage, evento che lo porterà definitivamente a soccombere negli squallori del porno. 
Mentre le ragazze cin-cin e le proto-veline di Drive-In insieme ai volti paciosi della televisione generalista ballavano al ritmo dei Righeira sul corpo rantolante e moribondo di una realtà in disfacimento, il cinema reagiva senza reale cognizione di causa, strategia o selettività, puntando tutto sul mercato estero. A dettare le regole del gioco erano gli americani, cosa di sicuro non nuova, ma se un tempo l’Italia aveva avuto la forza, l’inventiva e le sovrastrutture per mutare le mode statunitensi in qualcosa di completamente diverso e al contempo assolutamente italiano, qui si tratta di un cinema “pappagallo”, che semplicemente fa il verso, perdendo in partenza. Gli americani fanno Rambo, allora Mattei si va a infrattare nelle Filippine. Loro fanno 1997 Fuga da New York, noi 2019 Dopo la caduta di New York et simili. Loro Karate Kid, noi Il ragazzo dal kimono d’oro e così via. 
Si possono, naturalmente, trovare eccezioni, tra chi cercava di battere strade alternative: produttori che tentavano di dare nuova linfa vitale a generi in voga nei decenni precedenti, e registi che provavano a tornare alla ribalta. Nei due anni presi in rassegna troviamo il ritorno di una colonna portante del western italiano, Giulio Petroni, da una parte, e il tentativo di rivitalizzare, appunto, lo spaghetti che tanto ha modificato e caratterizzato il nostro cinema, dall’altra.   
“Sono molto sensibile all’andamento stagionale. Quell’anno aspettavo una primavera che si rifiutava di arrivare. Non che avessi quest’urgenza d’immergermi nel gran sole o che detestassi il rigore dell’inverno. In fondo anche la pioggia o i cieli plumbei, i venti freddi e pungenti hanno i loro punti di fascino e io non li disprezzo.”  Con queste parole vagamente malinconiche inizia il romanzo di Giulio Petroni Il rivale. Un libro, come molti dell’autore, intimamente personale in cui è difficile scindere tra finzione letteraria e vissuto personale. Troviamo New York, dove Petroni ha vissuto per molto anni, amori tormentati, e di quelli il regista di Da uomo a uomo (1968) e Tepepa (1969) ne ha avuti molti, i profumi di terre orientali e i fantasmi di una castrante educazione religiosa. 
Tutti gli stilemi insomma del Petroni letterario sono presenti, ma lo sono anche in quello cinematografico dell’ultima fase, da Non commettere atti impuri (1972), passando per Crescete e moltiplicatevi (1973) e concludendo con Labbra di lurido blu (1975). L’avventura da scrittore di Petroni ha inizio nel ’61 con il controverso La città calda, edito da Feltrinelli, e continuerà negli anni con opere tanto autobiografiche da essere una sorta di “diari di bordo”. Il rivale esce nelle librerie nel marzo del 1980. Sette anni dopo, periodo in cui Petroni, superata sia la cocente delusione di aver visto il suo Labbra di lurido blu massacrato dalla critica che il disastro produttivo de L’osceno desiderio, cercava di mettere in piedi un nuovo film. Era arrivato il momento di rompere l’autoesilio. Inutile dire quale sia stato il risultato di questi sforzi. 
Il riavvicinamento alla settima arte sarà coperto dai giornali dell’epoca. Il Giornale, Libertà e Il Lavoro dedicheranno ampio spazio alla notizia, con Avvenire che addirittura intitola il pezzo: Giulio Petroni finalmente ritorna sul set. Franco è un uomo che vive solitario, con qualche difficoltà d’inserimento nella realtà sociale che lo circonda. Un giorno incontra due sorelle americane che stravolgono la sua vita, Cinthia e Raquel, vivaci, esuberanti e con un loro candore dovuto a un'educazione puritana. Franco, da questo incontro, scopre una nuova dimensione umana, e il fiore della passione non tarda a sbocciare. Inizia un tormentato triangolo d’amore vissuto e sudato tra gli Stati Uniti e Roma. 
È chiaro, leggendo il soggetto, depositato in Siae nel ’84, che il progetto nasceva con grosse ambizioni e speranze. Petroni si prende la briga di descrivere le atmosfere, i paesaggi metropolitani, e traspira dalla lettura la voglia, il desiderio di fare le cose in grande. Come si sia esattamente concretizzato il film tre anni dopo non ci è dato sapere; quello che si sa è che è finanziato dalla C.C.T., ed entra in produzione alla metà del ’87 con un budget a dir poco limitato. Il cast vede in primis il francese Michel Rocher, attore attivo sia in televisione che al cinema, che alcuni ricorderanno tra i protagonisti de L’Insegnante di Violoncello di Lorenzo Onorati. Al suo fianco l’attore argentino Nestor Garay, scomparso nel 2003, che si può trovare in film come Il vero e il Falso di Eriprando Visconti e Sono un Fenomeno Paranormale di Corbucci. Gli appassionati del western nostrano sicuramente saranno familiari, se non con il nome almeno con il volto, di Lucio Onorato, grazie a film come Navajo Joe, Gli Specialisti e I Giorni della Violenza.  Delle attrici che interpretano le due sorelle/sirene tentatrici, Nancy Mulliken e Eva Ravnbøl, non si sa nulla, tranne che dopo questa esperienza non metteranno più piede su un set. 
Le settimane di riprese filano lisce, gli unici problemi sono legati alla mancanza di finanziamenti adeguati che porta Petroni a scontrarsi più volte con la produzione, a tagliare scene e ridimensionare la sua visione. Rocher ricorda benissimo come la piccola troupe mandata a New York correva per la città, rubando, senza permessi, piccole scene qua e là.  Quello che succede a film girato è triste e comune. I fondi finiscono, i rubinetti si chiudono e a Petroni non è neanche consentito di doppiare e concludere come meglio crede il montaggio. Quello che rimane è l’ombra di un film. Come un bambino non amato, o amato da troppo poche persone, il cui potenziale, evidente sotto la superficie, è rimasto sprecato. 
Una vita, il film sembra avercela avuta comunque. Rocher ricorda di aver prestato la sua voce per un'edizione americana, e si è vociferato in passato di un passaggio televisivo su una rete austriaca. Il rivale è, come il protagonista del suo La notte dei serpenti (1970), western tra i meno conosciuti, un essere barcollante e piegato dalla vita, che a vederlo ricorda tempi migliori e infonde molta malinconia.   
Il western era un genere morto e sepolto. Quelle poche pellicole che si erano realizzate negli anni ottanta non le avevano viste neanche i familiari di chi le aveva ideate, e il catastrofico flop di quella che doveva essere la rinascita del genere, Tex e il signore degli abissi (1985) di Duccio Tessari, aveva definitivamente messo la parola fine sulla lapide del western italico. Non a caso, quando si trattò di  produrre Django 2 - Il grande ritorno, che nasceva come concept proprio insieme al film di Tessari, il produttore Spartaco Pizzi insieme al regista Nello Rosati, che subentrò dopo il rifiuto di Corbucci che ne firma il soggetto, scelgono un’impostazione che ha poco a che vedere con il genere a cui appartiene il capolavoro del '66. 
Il nostro eroe (Franco Nero) si è ritirato da quindici anni in un convento in Sudamerica. Un giorno gli giunge notizia che la sua unica figlia, Marisol, è stata rapita dal famigerato Orlowsky (Christopher Conelly nella sua ultima apparizione), un principe ungherese, dedito alla prostituzione e allo schiavismo, noto come El Diablo. Django si mette alla ricerca della figlia con l’aiuto del Professor Gunn (l’immenso Donald Pleasence) e un manipolo di Indio. Rosati, che si firma con lo pseudonimo Ted Archer, regista attivo soprattutto nella commedia più casereccia, dirige l’azione, che va detto è presente in abbondanza, senza verve né personalità. 
Seppur in un contesto storico diciamo pure westerneggiante, sul piano iconografico c’è un lavoro di rimozione del genere. Si pensi all’aspetto di Franco Nero, codino e cinte di proiettili incrociate sul petto, al contesto naturale (il film è girato interamente in Colombia) che guarda molto più ai Rambo e analoghi made in USA che al mercenario di nero vestito, divenuto icona ultra violenta di un cinema che non tornerà più. Difatti, il primo e l’unico sequel di Django è questo, il contenitore di vetro di un'eco lontana. Corbucci, padre del vero Django, morirà due anni dopo, nel 1990. Giulio Petroni non riuscirà  più ad avvicinarsi al cinema, e poco dopo scriverà un libro intitolato, forse non a caso, Il rancore. 

Eugenio Ercolani

Sezione di riferimento: Italia Terza Visione


Schede tecniche

Titolo originale: Il rivale
Anno: 1987/88
Regista: Giulio Petroni
Sceneggiatura: Giulio Petroni
Attori: Nestor Garay, Michel Rocher, Nancy Mulliken
Fotografia: Adolfo Bartoli
Musiche: Enzo Ricca
Durata: 87 min

Titolo originale: Django 2-Il grande ritorno
Anno: 1987
Regista: Nello Rosati
Sceneggiatura: Sergio Corbucci, Franco Reggiani, Nello Rosati
Attori: Franco Nero, Donald Pleasence, Christopher Conolly
Fotografia: Sandro Marcori
Musiche: Gianfranco Plenzio
Durata: 88 min

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