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4:44 LAST DAY ON EARTH - L'Apocalisse silenziosa

18/9/2014

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The angel of love was upon me
And Lord, I felt so small
The legs beneath me weakened
I began to crawl
Confused and contented 
(Depeche Mode, Angel)


“Ci sarà una grande luce, ma non avere paura. È il nostro amore. È la nostra saggezza. Andremo insieme verso la grande luce. Il mio cuore è stretto al tuo.
Insieme stiamo assorbendo tutti gli esseri con noi, li stiamo proteggendo, li stiamo amando, li stiamo portando con noi. 
Siamo insieme. E ci abbandoniamo completamente a Dio. 
Siamo protetti e siamo insieme, è questo tutto quello che abbiamo adesso. 
Tutto quello che abbiamo siamo noi. 
Ti amo. Siamo angeli. Lo siamo già”.


Un loft newyorkese fa da teatro alle ultime ore di una coppia di amanti, una pittrice, Skye (Shanyn Leigh) e Cisco (Willem Dafoe), un attore di successo. Un’unica certezza: la prossimità della fine del mondo, senza possibilità di scampo. Alle 4:44 di una giornata che non vedrà mai il sorgere del sole, il mondo finirà; artefice della catastrofe, costruita con meticolosa lentezza nel corso dei secoli, l’uomo. 
L’inquinamento è la causa dell’apocalisse: il buco dell’ozono, nonostante gli avvertimenti degli ecologisti, causa il collasso finale; come recita sibillino il titolo, è l’ultimo giorno della Terra. 
La mdp di Abel Ferrara indugia nello scrutare la quotidianità della fine, filmando gli ultimi momenti della Terra quasi interamente dall’interno di un appartamento, ccme un occhio che si apre sull’intimità umana; la vita che continua il suo corso verso il tracollo è raccontata invece dai media, la tv, la radio e il pc, organi domestici del vivere giornaliero. Ciò che conta è l’amore, anche e soprattutto negli ultimi istanti dell’esistenza; due corpi che si cercano, si toccano, scivolano l’uno sull’altro, l’uno nell’altra, alla ricerca di quella esplosione vitale fino all’ultimo ostinatamente inseguita. La vertigine del desiderio ciba i sensi e allontana la morte, relegandola nel buio come accessorio funzionale all’eternità dell’amare. 
Intorno alla coppia si affacciano la disperazione e la solitudine umana. Basta guardare oltre il vetro della finestra, sottile membrana che divide la calda alcova dei due amanti dalla ferocia della fine; fuori dalla loro nicchia privilegiata, persone sole condividono l’ultimo pasto della loro misera vita con il fedele compagno a quattro zampe, sguardi persi nel vuoto scrutano il cielo, e l’amaro sapore di un’ultima sigaretta impregna la bocca e si stampa sulle labbra di chi non ha nessuno da baciare. L’interno dell’appartamento di Skye e Cisco è un piccolo utero in cui la disperazione non riesce a fare capolino sovente, ma rimane sullo sfondo di piccoli gesti d’amore, rivolti tra gli stessi amanti e verso i cari lontani e rimpianti. 
Il computer è l’organo più vitale della casa: crea contatti umani, arriva a toccare i cuori intirizziti, destruttura le distanze in fremiti; realtà e virtualità si sovrappongono e si fondono in battiti reali e concreti.
La dialettica politica continua fino all’ultimo a invadere lo schermo della tv, uno spazio caotico e sospeso che non scalfisce la realtà inscenata da Ferrara, la quale scorre invece pacata come un flusso intorno all’essere umano, al suo bisogno di amare per restare-tornare in vita, anche trascendendo dalla materia o costruendo un’anima cui infondere le proprie emozioni.
La notte fagocita tutto, avvolge nel buio ogni cosa; sembra essere eterna ma conduce alla fine, l’ultima notte, popolata da sospiri, da gambe che si spalancano al desiderio, da corpi che si lasciano cadere abbandonandosi all’abisso, al vuoto. Tutto precipita verso un eterno nulla. Frammenti di vita fluiscono verso una ridefinizione del reale significato esistenziale, in un processo inverso rispetto allo scorrere della narrazione, in cui l’apocalisse lascia spazio a un realismo umano che si veste di intimità quotidiana. Sulla tela di Skye, da un’astrazione pollockiana prende vita la forma perfetta del cerchio, una placenta pronta a ospitare gli amanti, protetti e sorvegliati, che si perdono per poi ritrovarsi nella luce.
La struttura narrativa si muove in modo tale da seguire un flusso emozionale privato; l’appartamento e la figura di Cisco sono ora metafora, ora alter ego dell’autore, che opta per una narrazione pacata e intimista, un viaggio interiore alla scoperta di ciò che realmente conta. Cisco scruta l’orizzonte, il suo sguardo si perde in un cielo che si tinge lentamente di verde, ma alla fine è rapito dalle visioni terrene, da quella povertà umana chiusa negli alveoli domestici dei propri appartamenti; uno scrutare che si immerge nelle tele di Vilhelm Hammershøi, in quegli spazi privati illuminati da una luce lunare, in un’atmosfera polverosa che racconta di solitudini munchiane. Non ci sono esplosioni, urla, non c’è combattimento alcuno se non quello con la propria coscienza; c’è l’uomo con le sue imperfezioni e le sue debolezze, riflesso della caducità dell’esistenza.
Il film è la messa in scena del caos della morte, coperto da un candore catastrofico, e del passaggio alla vita eterna, verso una nuova forma puramente spirituale, forse divina, o creata dalla volontà di due amanti che desiderano restare uniti nell’eterna perpetuazione del loro presente. 
Il realismo a sostegno della struttura narrativa filmica, perseguito da Abel Ferrara, si traduce in un nichilismo esasperato, specchio della realtà del vivere quotidiano, in cui la fine è l’unica certezza dall’inizio dei giorni. Non stupiscono dunque le parole di Cisco, quando dichiara: “Il mondo sta finendo da quando è cominciato, noi stiamo finendo da quando siamo venuti al mondo”.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: America Oggi

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Scheda Tecnica

Titolo originale: 4:44 Last Day on Earth
Anno: 2011
Regia: Abel Ferrara
Sceneggiatura: Abel Ferrara
Fotografia: Ken Kelsch
Musica: Francis Kuipers
Durata: 84 min
Uscita in Italia: luglio 2014 (Dvd)
Interpreti principali: Willem Dafoe, Shanyn Leigh

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ADAM RESURRECTED - Dog Affliction

5/9/2013

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Paul Schrader è uno dei grandi funamboli visionari della New Hollywood, della quale fu uomo chiave e ideologo tra i più rilevanti. Non solo lo sceneggiatore prediletto di Martin Scorsese e l’uomo dietro agli eccessi al fulmicotone di Taxi Driver e L’ultima tentazione di Cristo, ma anche il regista di capolavori in odore di misticismo quali Mishima, Lo spacciatore, American Gigolò. Questi ultimi due accomunati addirittura dal bellissimo finale, praticamente identico, rubato in entrambi i casi a Pickpocket di Robert Bresson. Una scelta folle, praticamente una fotocopiatura. Emblema di una libertà oggi impossibile e impensabile. 
Eppure, Paul Schrader continua ancora a essere un regista autarchico e baciato dalla grazia dissacrante della follia. Mentre arriva a Venezia il suo nuovo e già chiacchieratissimo The Canyons, per ridare peso a tale affermazione basta ripensare a quell’Adam Resurrected risalente ormai a cinque anni fa, uno dei film più insoliti sul tema della Shoah mai realizzati, il parto lunatico e dissonante che ci si aspetta sempre da uno col nome e col vissuto di Paul Schrader. Uno spirito alieno dalla normalizzazione dell’immaginario, un cineasta meravigliosamente retroattivo rispetto alla contemporaneità e dunque sempre in grado di spiazzare in profondità.

Il film inizia con un dettaglio degli occhi di Adam che s’inebriano nel ricordo di un Ich Liebe Dich lontano nel tempo, un avvio già di suo avulso da molti canoni (che il film abbia faticato a trovare un’aspettativa di pubblico negli Usa non deve pertanto stupire). Adam, dal canto suo, è un ex clown deportato in un campo di concentramento che adesso risiede in una clinica in cui si curano i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. L’esperienza vissuta da Adam nel suo lager è sadica e curiosa oltre ogni limite: egli fu costretto in più di un’occasione a prostrarsi dinanzi a un gerarca nazista di nome Klein, incarnato meravigliosamente da un luciferino e mellifluo Willem Dafoe, assumendo le movenze e le pose di un cagnolino. Adam abbaiava e ansimava zufolando per lo stesso pasto di un pastore tedesco, gli veniva intimato di mettersi a quattro zampe perché “è più buffo così”. “Avanti, Adam, fai un numero, facci ridere”. Suonò perfino il violino mentre la moglie e la figlia andavano a morire. E Adam (un incredibile Jeff Goldblum) non si riprenderà più dalla cosa, con addosso per sempre il senso di colpa lancinante per essere sopravvissuto alla morte delle due donne da lui più amate.
La crudezza dell’esperienza vissuta si ripercuote in rapporti sessuali deviati all’interno della struttura, in cui Adam induce la sua partner a fare la cagnolina assumendone la postura prima di consumare il coito anale in segreto. Sarà la conoscenza di un bambino incatenato che crede di essere un cane, a differenza sua che fu costretto ad esserlo, a dare per la prima volta un senso a quella mortificazione della propria dignità che l’ha segnato senza possibilità di scampo.
L’infanzia tenuta al guinzaglio e il passato imprigionato tornano così a influenzare pesantemente il presente. Un leitmotiv assai caro al regista, direttamente connesso alla sua ossessione per quel calvinismo castrante che gli impedì di vedere film fino all’età di diciott’anni, recludendolo dentro i parametri rigidi di un’educazione religiosa bigotta per quasi un ventennio. Una tensione che permea Adam Resurrected producendo una parabola messianica di resurrezione, come suggerisce il titolo, all’insegna però dell’onirismo e dell’iconoclastia.
Schrader non rinuncia alla sua cinefilia d’assalto, puntella il film di meravigli inserti ora circensi, relativi dunque al passato lavorativo di Adam, ora tragici (le scene con Klein). Visivamente il film è un trionfo, i flashback in bianco e nero avvolgono l’opera in una lattiginosa sospensione, magnetica e naturalmente cristologica come tutte le parabole schraderiane che si rispettino. Una forza dirompente che lo rende, ancora oggi, una delle personalità più di spicco di quel cinema americano reietto, tenuto a forza ai margini del sistema perché provvisto, al suo interno, di tutti gli elementi per scardinarne i pilastri rassicuranti e le certezze più accomodanti. 
Con Adam Resurrected Schrader è riuscito ancora una volta a stupirci, anche con un tema indubbiamente già sviluppato e abusato come la Shoah. Onore al merito.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Regia: Paul Schrader 
Attori: Jeff Goldblum, Willem Dafoe, Derek Jacobi, Moritz Bleibtreu 
Fotografia: Sebastian Edschmid
Montaggio: Sandy Saffeels
Sceneggiatura: Noah Stollman, dal romanzo di Yoram Kaniuk
Anno: 2008
Durata: 106’
Uscita italiana: 27 gennaio 2010

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NEW ROSE HOTEL - La crisi del racconto

12/6/2013

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«E la cosa buffa, Sandii, è che qualche volta non mi sembri neppure vera. Fox una volta ha detto che tu sei un ectoplasma, un fantasma richiamato dalle forze dell’economia. Fantasma del nuovo secolo, coagulato su mille letti […]». (New Rose Hotel, La notte che bruciammo Chrome, Mondadori 1993).

Rimosso, trascurato, a volte odiato, New Rose Hotel di Abel Ferrara è un'opera filmica di quelle che non possono lasciare indifferenti. Tratto dall’omonimo racconto breve di William Gibson, apparso nella splendida raccolta La notte che bruciammo Chrome, questo adattamento del 1998 aspira solo lontanamente a mettere in scena il mondo cyberpunk di uno degli scrittori più importanti e dotati degli anni Ottanta. Anzi, evita accuratamente di farlo. Ferrara infatti non intende innervare il suo film con tutte le visioni appartenenti al genio di Gibson, ma lo usa come pretesto – e pre-testo – per un adattamento cinematografico teso alla problematizzazione del racconto, e del raccontare, tramite il linguaggio filmico.
Fox (Christopher Walken) e X (Willem Dafoe), rapitori professionisti, novelli cacciatori di taglie dei sobborghi metropolitani, prelevano gli scienziati dalle loro vite professionali per metterli al servizio di altre compagnie. Fox è profondamente ossessionato da un uomo di nome Hiroshi, un vero e proprio genio. I due professionisti sono ingaggiati dalla potente Hosaka per sottrarre il brillante scienziato alla concorrente Maas; per fare questo si avvalgono della prostituta di origine italiana Sandii (Asia Argento), di cui, però, si innamora anche X. Una volta eseguito il rapimento e il trasferimento un’epidemia uccide Hiroshi e tutti gli scienziati dell’Hosaka. Gradualmente si scopre che era stata la Maas a sacrificare il proprio genio per poter eliminare in un sol colpo tutti i propri avversari. Tutto ciò con l’aiuto della suadente Sandii.
Il racconto breve di Gibson, che può contare circa dieci pagine, viene messo in scena da Ferrara per poco più di un tempo (la prima ora circa); la restante mezz’ora appartiene interamente alla soggettività di X che, rinchiuso nel New Rose Hotel, riflette sui fatti degli ultimi giorni cercando di ricordare e di ricostruire gli eventi che hanno portato alla sua rovina e al suicidio di Fox. Questa ricostruzione, supportata da una lunga serie di flashback, appare però sfocata e incerta; da possibilità chiarificatrice del racconto – tipica del cinema classico – questa analessi, ripresa di frammenti del passato, va a complicare e inficiare irrimediabilmente la comprensione da parte di X.

«Sette notti a pagamento in questa bara, Sandii. New Rose Hotel. […] Rivivo tutto adagio, dolcemente e crudelmente. Riesco quasi a sentirlo. […] Fox è morto Sandii. Fox mi aveva detto di dimenticarti».

Abel Ferrara decide quindi di investire la figura retorica del flashback con tutte quelle problematiche moderne e postmoderne che ne minano la portata e la forza chiarificatrice. Come in maniera semplice ed efficace Gianni Canova mostra nel suo L’alieno e il pipistrello (Bompiani 2000), questa figura retorica narrativa, da semplice risorsa tecnica, diventa «cornice strutturante e figura-chiave della significazione nella fase a cavallo tra il cinema classico e il cinema moderno». Nel cinema contemporaneo, invece, la crisi del flashback si compie nel momento in cui esso – e in questo splendido New Rose Hotel si avverte in maniera lancinante nel dramma di X – perde ogni connotato narrativo che possa aiutare lo spettatore a ricostruire un passato diegetico intelligibile, in cui il rimosso possa tornare con forza come personaggio, informazione o evento.
New Rose Hotel è questo e molto altro. La modernità di quest'opera sta nel suo lavoro sul testo che, come si è già accennato, viene usato come pre-testo esaltando la peculiarità riproduttiva dell’apparato cinematografico, mettendo in evidenza tutti quei rapporti tra film e materiali a esso connessi; in questo caso specifico il racconto di William Gibson. Una vera e propria azione congiunta tra prassi realizzativa e prassi teorica. In questo Ferrara dà il meglio, affrancandosi dall’obbligo morale di illustrare il testo originario in favore di una messa in scena problematica e schizofrenica.
Capolavoro o no, New Rose Hotel è un lavoro di grande potenza, che non evoca eroi e miti del fenomeno cyberpunk, bensì echi e spettri del cinema di oggi.

«Va tutto bene bambina. Ma torna, ti prego. Prendimi la mano».

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: America Oggi


Scheda tecnica

Titolo originale: New Rose Hotel
Anno: 1998
Regia: Abel Ferrara
Sceneggiatura: Abel Ferrara, Christ Zois
Fotografia: Ken Kelsch
Musiche: Schoolly D
Durata: 93’
Uscita in Italia: 05/09/1998
Attori principali: Christopher Walken, Willem Dafoe, Asia Argento

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