Una regia scomoda e una sceneggiatura fastidiosa, che raccontano una storia più attuale che mai, esigono una riscoperta e ben altri onori e gloria di quelli finora ricevuti. Perché non è mai troppo tardi per mostrare la realtà per quel che è, senza nascondere la testa sotto la sabbia (o sotto il tappeto del soggiorno, per rimanere in tema con la trama del film).
L'efferato quadretto familiare di Solondz presenta una gamma di personaggi politicamente scorretti, protagonisti che incarnano stereotipi negativi che la società statunitense non accetta. Il modello della happy family non può sopravvivere in un mondo popolato da un esercito di degenerati, depressi, disadattati, falliti e frustrati; dal momento in cui non è più possibile negare l’evidenza della putredine umana, ma soltanto da allora, si passa all’emarginazione, all’esclusione, essendo inammissibili il perdono e l’assoluzione. Solondz invece catapulta lo spettatore all’interno della scena, obbligandolo a guardare, impedendogli di voltarsi da un’altra parte. Grazie a una regia lucida, che non giudica e non ha pretese di analizzare cause ed effetti, il pubblico diventa quindi parte integrante della vicenda. È uno sfrontato invito a “non chiamarsi fuori”, ad affrontare la realtà senza chiudersi in un morboso silenzio (sintomo della presunzione che le nefandezze accadano sempre in casa altrui). L’arma in più del regista è l’ironia, che strappa sorrisi anche nei momenti più inquietanti, rivelando così il falso pudore dello spettatore medio.
Il ritratto proposto da Happiness della famiglia americana odierna (interpretata dai benestanti Jordan) è impietoso e non lascia speranze. Con ferocia Solondz squarcia il velo di conformismo che avvolge la vita dei protagonisti, per spogliarli della loro pellicola protettiva e costringerli inevitabilmente ad agire allo scoperto; poi li accompagna nel loro viaggio allucinante, li osserva sprofondare nella melma quotidiana. Sono esseri sgradevoli, che non possono suscitare compassione. Semmai una sincera rabbia. Le tre sorelle Joy, Trish ed Helen Jordan sono donne deluse: simboleggiano tipologie femminili differenti (l’ingenua e fallita; la casalinga realizzata; l’intellettuale altezzosa) ampiamente diffuse nel tessuto sociale contemporaneo. Nonostante le loro esistenze siamo parimenti insignificanti, Helen e Trish rivendicano con prepotenza il diritto di dispensare consigli. Solo la sfigata Joy, sempre insicura e alla costante ricerca dell’amore, fa eccezione, ma non per questo risulta meno irritante.
Si intuisce una totale mancanza di comunicazione tra le tre donne, radicalmente imprigionate nei loro ruoli, causata dal venir meno del loro legame affettivo. Diseducazione sentimentale probabilmente ereditata dai genitori Mona e Lenny, coppia oramai sfatta e inutile. Arricchiscono la panoramica dell'allegra famiglia il marito di Trish, Bill Maplewood, che si rivela pedofilo e stupratore di bambini, e il figlio Billy, ragazzino imbranato che insegue la sua personale idea di felicità: poter finalmente eiaculare per la prima volta. Non sono da meno, quanto a bassezze, Allen, il vicino di Helen, ossessionato dal sesso e autore di telefonate anonime durante le quali racconta oscenità, e Kristina, altra vicina di casa, che conserva nel congelatore i resti dell'uomo che l’ha violentata.
Degrado, insoddisfazione, mediocrità e noia caratterizzano i protagonisti di Happiness, squallide macchiette invischiate nel cliché ipocrita della famiglia borghese, la quale diventa un contenitore vuoto dove rifugiarsi per salvare le apparenze, sfuggire il decadimento morale e trovare un minimo di calore umano. La scena finale del film, che vede i Jordan al completo riuniti attorno a un tavolo, sottolinea l'incapacità dei presenti (tranne, forse, del giovane Billy) di invertire la rotta, atto necessario per costruire nuove e autentiche relazioni sociali.
La convinzione che il focolare domestico sia il luogo degli affetti e dei valori grazie ai quali la società può continuare a funzionare traballa da decenni, e già in telefilm degli anni Sessanta come The Munsters e La famiglia Addams i mostri venivano accolti in casa e addirittura fatti accomodare nel salotto buono. Tuttavia, gli Addams e i Munster rappresentano pur sempre dei modelli di riferimento positivi, quasi a voler suggerire che la mostruosità, quella vera, va cercata altrove: dove dimora la normalità, appunto.
Serena Casagrande
Sezione di riferimento: America Oggi
Scheda tecnica
Titolo originale: Happiness
Anno: Usa, 1998
Regia: Todd Solondz
Sceneggiatura: Todd Solondz
Fotografia: Maryse Alberti
Musiche: Robbie Kondor
Durata: 134'
Uscita in Italia: gennaio 1999
Interpreti principali: Jane Adams, Lara Flynn Boyle, Dylan Baker, Philip Seymour Hoffman, Ben Gazzara.