Lungi dall’essere l’ennesima variante di quelle storie “da ring”, che il cinema americano ha spesso frequentato, talvolta con esiti memorabili(1), The Wrestler è una ghost story, una storia di fantasmi o, meglio, di un fantasma, che sanguina, soffre, ama, invecchia e, soprattutto, ricorda; è proprio questa memoria persistente a staccarlo progressivamente dalla dimensione del quotidiano, per gettarlo nell’abisso senza scampo di un passato che non tornerà. Mai più.
1) Ricordiamo di sfuggita almeno questi titoli: Anima e corpo di Robert Rossen (1947), Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise (1956), Rocky di John G. Avildsen (1976), per certi versi il contraltare di The Wrestler, e due titoli che hanno invece con quest’ultimo alcuni punti di contatto, cioè Una faccia piena di pugni di Ralph Nelson (1962) e lo splendido Città amara di John Huston (1971), forse il più contiguo in assoluto al film di Aronofsky.
Nel cinema di Aronofsky, il corpo dei personaggi, perennemente in campo, è l’unico vettore possibile con il regno invisibile, quindi fuoricampo, della coscienza, del pensiero, della memoria. Nel caso di quest’ultima – vera protagonista della pellicola insieme al personaggio che letteralmente la incarna, il wrestler ultracinquantenne al tramonto Robin Ramzinski, meglio noto come Randy “The Ram” Robinson – alla dimensione del fuoricampo si aggiunge quella del fuori-tempo, il passato come assenza lancinante che riempie la mente e svuota progressivamente il fisico. Inoltre, la scelta di Mickey Rourke per la parte di Randy, probabilmente l’unica possibile, crea un cortocircuito ulteriore fra realtà e rappresentazione, innescando una mise en abîme, che non necessita di sovrastrutture narrative o visive, ma che nasce e permane nell’adesione totale dell’attore al personaggio e viceversa.
Anche Rourke, come Randy, conosce il ring, il tempo, l’inesorabile decadenza del corpo e, per questo film, non serve altro. È trascorso un ventennio dai gloriosi e decadenti anni ’80 e lo sanno entrambi. A parte la compenetrazione reciproca fra attore e personaggio, The Wrestler vive di innumerevoli scarti, dualismi, conflitti, che avviluppano il protagonista in una spirale mortifera, progressivamente sempre più ampia e inafferrabile.
Sia la dimensione pubblica che quella privata di Randy sono marcate dall’incapacità di accettare il quotidiano, l’abitudinario, la fine dell’età magica delle promesse, delle possibilità, il sopraggiungere della maturità e, con essa, come spesso accade, della fine dei sogni. Le due donne della sua vita sono entrambe, sia pure in modi diversi, distanti da lui. La figlia Stephanie (Evan Rachel Wood) cova un sordo rancore nei confronti del padre, che l’ha di fatto trascurata e dimenticata, per poter seguire l’onda del proprio personale successo e, probabilmente, anche per non doversi sentire padre, quindi adulto. Una serie di tentativi di riavvicinamento da parte di Randy, coronati inizialmente da un parziale successo, falliscono poi miseramente, allorché egli si dimentica di un appuntamento con lei, per una serata di gozzoviglie, per sentirsi nuovamente come molti anni prima, come se il tempo potesse, almeno e ancora una volta, fermarsi.
Più complesso risulta il rapporto con la matura spogliarellista Pam, in arte Cassidy (Marisa Tomei), che lui frequenta come cliente di uno dei locali dove ama ciondolare. Sono legati da un lungo rapporto di affetto e confidenza, lo si capisce fin dalla prima sequenza in cui si incrociano. E si piacciono, parecchio. Entrambi sono corpi esibiti su un palco, oltraggiati dal tempo, costretti a mostrarsi per essere riconosciuti dagli altri. Per essere riconosciuti è però indispensabile non cambiare mai, non invecchiare o fingere di riuscirci; è necessario forzare le prestazioni del proprio organismo fino al limite, con tutte le risorse, naturali o artificiali, di cui si dispone. Non importa il prezzo da pagare, perché spesso la meta, ancorché fugace e letale, è troppo dolce e inebriante per poter essere cancellata dal proprio orizzonte. La finzione e le lusinghe del successo sono però al capolinea per Pam, che decide di abbandonare la propria attività, semplicemente accettando la propria nuova condizione di donna ultraquarantenne, snobbata ormai dalla maggior parte dei clienti. È fatale che il diverso atteggiamento nei confronti della vita e, ancora una volta, del tempo, porti questa bellissima coppia di spostati a separarsi.
Randy è un inattuale, una macchina gloriosa e consunta di carne, che vive per il pubblico, per la rappresentazione spettacolare, esclusivamente fisica, di sé. Non perché egli sia senza coscienza o senz’anima, ma perché il suo corpo è l’unico luogo dove la sua coscienza accade e dove il tempo ferisce mortalmente. Il fisico immenso di The Ram, roccioso ma fragile, demolito da anni di stravizi e abusi, si muove a proprio agio solo sul ring oppure là dove la grazia e la tenerezza hanno ancora un esiguo spazio per esprimersi (le due splendide sequenze in cui danza per Pam e con Stephanie).
Per il resto, gli ambienti quotidiani, gli oggetti, i muri, persino gli abiti sembrano assediarlo, insieme alle inquadrature ravvicinate a cui lo costringe Aronofsky. Inoltre, quando egli non indossa i panni del guerriero, del wrestler, nessuno sembra riconoscerlo (salvo qualche raro vecchio fan) o, peggio, accorgersi della sua esistenza. Fuori del ring, Randy è un fantasma. Per lui, la rappresentazione è la verità e la vita, il resto è ombra. I ring del wrestling – allucinato, frastornante, adrenalinico ibrido fra sport, lotta, esibizione circense, teatro(2), spettacolo gladiatorio – sono i templi pagani dove i lottatori, novelli capri espiatori, danno il corpo e l’anima in pasto al pubblico per poter sentire, almeno una volta ancora, chiamare forte il proprio nome e percepire l’energia della platea come la fonte del proprio potere. Essi vogliono assaporare tutto l’inebriante calice del sacrificio senza rivolgere lo sguardo supplichevole a un cielo vuoto, perché il paradiso è lì, nella grande sala tuonante, ed è cosparso di lacrime, sangue, sudore e cicatrici.
2) Ogni wrestler ha un nome di battaglia, un ruolo di personaggio positivo o negativo, un background biografico, naturalmente inventato per le folle, sintetizzato in alcuni segni distintivi alquanto semplificati e immediatamente riconoscibili, come tatuaggi, gadget, stemmi, capi d’abbigliamento e colori dominanti di questi ultimi. Inoltre, ogni incontro è strutturato attorno a una vera e propria trama narrativa, il cui esito è predeterminato come in teatro o al cinema.
È inevitabile, quindi, che anche dopo un infarto, che mina irreparabilmente la sua già traballante carriera, e dopo aver tentato vanamente di tornare a una vita normale, Randy, col fisico a pezzi e una nuova cicatrice sul petto, dovuta al suo malore, questa volta – un nuovo segno sul corpo che lega, questa volta inscindibilmente, la vita alla rappresentazione – decida di tornare sul ring. Non riuscendo a distogliere il proprio sguardo da quell’allettante e tragica illusione prospettica che è il passato, a Randy non resta che tentare di riattualizzarlo, reincarnarlo: tornare in paradiso, parlare al proprio pubblico un’ultima volta, combattere e poi tacere per sempre.
Tutto il film è percorso dall’impossibilità, non solo per i personaggi, ma anche per il cinema stesso, almeno secondo Aronofsky, di riportare in vita il passato. Nella sua poetica, c’è spazio per l’allucinazione, naturale o indotta da farmaci, per la distorsione percettiva, a volte per una iper-visibilità totale e, a tratti, forzata, ma non per il ricordo. Il suo è un cinema senza flashback. Questo giova immensamente a The Wrestler, dove il peso del passato è tutto nel fuoricampo, nelle voci over dei cronisti degli anni ’80 e soprattutto nella musica. Il film di Aronofsky, oltre alla splendida ballata finale di Springsteen che chiude il film, è un tripudio di sonorità glam e hard rock, dai Quiet Riot(3) ai Cinderella, dagli Scorpions ai Guns N’ Roses, passando per i Ratt, i Firehouse, gli Accept: l’unica musica possibile per un wrestler, per un guerriero che gioca a fare la guerra, ma le cui ferite sono vere, fanno male e, a volte, sono mortali.
3) Bang Your Head (Metal Health), uno dei loro cavalli di battaglia, apre il film e costituisce anche la “colonna sonora” di Randy, quando sale sul palco, prima di ogni incontro.
Forse a Randy sarebbero piaciute anche le parole di un’altra memorabile ballad di quegli anni, When The Crowds Are Gone dei Savatage, perché parlano anche di lui:
I don't know where the years have gone / Memories can only last so long / Like faded photographs, forgotten songs / And the things I never knew / When the skin is thin, the heart shows through / Please believe me what I tell you is true.
Where's the lights, turn them on again / One more night to believe and then / Another note for my requiem / A memory to carry on / The story's over when the crowds are gone […]
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: America Oggi
Scheda tecnica
Anno: 2008
Durata: 105’
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Robert D. Siegel
Fotografia: Maryse Alberti
Colonna sonora: Clint Mansell
Montaggio: Andrew Weisblum
Interpreti principali: Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Ernest Miller, Mark Margolis