ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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WELCOME - La forza della disperazione

7/12/2016

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Bilal (Firat Ayverdi), diciassettenne profugo curdo fuggito da Mosul, arriva in clandestinità a Calais. Dalla costa francese desidera raggiungere l'Inghilterra dove vive Mina (Derya Ayverdi), la connazionale di cui è innamorato. Così si intrufola con alcuni compagni in un tir con la speranza di eludere i controlli doganali. Per questo motivo i ragazzi si infilano in testa un sacchetto e vi respirano all'interno per evitare che la polizia rilevi aria nel rimorchio dell'autoarticolato. Il tentativo quasi suicida però fallisce e nella mente di Bilal si insinua la folle idea di attraversare il Canale della Manica a nuoto. Inizia dunque a frequentare una piscina per prendere lezioni. 
L'istruttore, Simon (un grandioso Vincent Lindon), è un uomo brusco e poco empatico. Ha appena divorziato dalla moglie e la sua vita pare giunta a un punto morto. Se, in un primo momento, Simon mantiene una fredda distanza dall'adolescente, con il passare dei giorni cambia atteggiamento e decide di aiutarlo. La svolta avviene dopo un casuale incontro in un supermercato con l'ex moglie Marion (Audrey Dana): all'uscita un controllore blocca due profughi che chiedono di entrare per comprare da mangiare. Marion, da sempre impegnata nel volontariato, si infuria, mentre Simon non apre bocca. Quando l'accompagna alla macchina la donna gli fa notare: “Lo sai che significa iniziare a non far entrare più la gente nei negozi? O vuoi che ti compri un libro di storia?”. 
Quella stessa sera, mentre vaga in macchina per le vie di Calais, Simon incrocia Bilal e un amico che vagano a piedi senza un posto dove dormire. Allora li invita a casa per mangiare un boccone e dormire su un vero letto, anche se li avverte che sarà soltanto per una notte. Ma poi i giorni passano e i ragazzi restano. L'uomo rischia un'incriminazione per aver favorito l'immigrazione clandestina, tuttavia sembra non preoccuparsi della faccenda (anzi, continua ad allenare Bilal in piscina e in spiaggia, regalandogli persino una muta). Perché, aiutandolo, dà una mano pure a se stesso. Il coraggio di un diciassettenne, poco più che bambino lontano migliaia di chilometri dalla famiglia, costringe l'istruttore di nuoto a fare i conti con un'apatia e un'indifferenza di lunga data. La realizzazione del sogno del giovane curdo rappresenta quindi per Simon pure un modo per riscattarsi agli occhi di Marion. “Lo sai perché vuole attraversare? Perché vuole rivedere la sua ragazza. Si è fatto quattromila chilometri a piedi e ora vuole attraversare La Manica a nuoto. Io non ho saputo neanche attraversare la strada per fermarti”, le confessa ammirato durante un appuntamento. 
Gli eventi purtroppo precipitano quando Mina, disperata, telefona dall’Inghilterra per annunciare l’imminente matrimonio combinato dal padre e Bilal affronta l’impresa della traversata per bloccare le nozze. Impossibile comunque proseguire oltre senza rivelare un finale di rara bellezza. 

Welcome, uno dei migliori film del francese Philippe Lioret, è un’opera del 2009 di sorprendente attualità. Campione d’incassi in patria, denuncia i risvolti sconcertanti di una legge che punisce i cittadini che ospitano i migranti, una norma miope di fronte a un fenomeno che allora non aveva ancora raggiunto le tragiche dimensioni odierne. Pur sensibile all’argomento, Lioret non cede alla retorica e preferisce focalizzare la narrazione sugli aspetti privati delle vite di Simon e Bilal, raccontando la nascita di un’amicizia tra due esseri umani che nulla hanno in comune, ma che, passo dopo passo, imparano a conoscersi e a rispettarsi. L’acqua è l’elemento che li unisce e li rende simili, ugualmente deboli al cospetto della potenza del mare. 
Bilal restituisce a Simon un’umanità perduta nello squallore della mediocrità, mentre l’istruttore di nuoto infonde nel ragazzo la convinzione di “potercela fare”. Sullo sfondo, una Calais grigia e una Francia sospettosa, tutt’altro che civile e vittima della paura nei confronti del diverso. Una paura che si avversa con la delazione e l’aggressione, seppure meramente verbale, come il vicino di casa che denuncia Simon alle autorità, oppure come fa Simon stesso, tacendo e fingendo di non vedere. Lioret, profeta in patria e non soltanto, svela l’ipocrisia di un’Europa che si definisce tollerante sulla carta, ma che permette all’interno dei suoi confini il pericoloso proliferare di diseguaglianze e ingiustizie. 

In onda Sabato 10 dicembre, alle ore 15.20, su TV2000.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv

Altri film con Vincent Lindon recensiti su ODG:     La loi du marché     Pour Elle    Quelques heures de printemps
                                                                                                                 Les Salauds     Journal d'une femme de chambre    

Scheda tecnica 

Titolo originale: Welcome
Anno: 2009
Regia: Philippe Lioret
Sceneggiatura: Philippe Lioret, Emmanuel Courcol, Olivier Adam, Serge Frydman
Fotografia: Laurent Dailland
Montaggio: Andréa Sedlackova
Musica: Nicola Piovani
Durata: 110'
Attori: Vincent Lindon, Firat Ayverdi, Audrey Dana, Derya Ayverdi

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LASCIAMI ENTRARE - Uccidere per vivere

4/11/2016

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​“Ho dodici anni. Ma ce li ho da un sacco di tempo.”
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Svezia, primi anni Ottanta. Oskar (Kåre Hedebrant) abita con la madre, separata, in un quartiere nella periferia di Stoccolma. Dodicenne debole e solo, è preso di mira da tre compagni di classe, che lo tormentano in continuazione. Il padre vive altrove e il ragazzino non sa dunque a chi rivolgersi perché intervenga in sua difesa. Durante una gelida notte invernale, mentre si trova nel parco di fronte a casa, incontra un'inquietante bambina, pallida e con dei tratti somatici alquanto particolari, che sembra non provare freddo nonostante la temperatura. Da qualche giorno si è trasferita in compagnia di un uomo di mezza età proprio accanto al suo appartamento. Tra Oskar e la strana creatura di nome Eli (Lina Leandersson) nasce sin da subito un rapporto sincero, fatto di battute pungenti, sguardi penetranti e attenzioni premurose. Incuriosito dall'alone di mistero che la circonda, il ragazzo comprende ben presto che l'efebica vicina non fa parte del genere umano, ma questo suo aspetto latente (mostruoso e bestiale) lo affascina e lo attrae ancor di più verso di lei anziché allontanarlo. 
Nel frattempo nel circondario si verifica una serie di omicidi tanto efferati quanto inspiegabili. Oskar intuisce che l'amica è in qualche modo responsabile delle morti violente, anche se non ne capisce il motivo. In seguito, scopre che la giovane è un vampiro e, in quanto tale, condannata a uccidere per non soccombere. Una rivelazione che comunque non scalfisce il sentimento profondo che nutre per lei, dovendo tuttavia prendere atto dell'inevitabile e imminente perdita di Eli, costretta per sua natura a un'eterna fuga: “Devo andarmene per vivere o restare e morire”, gli scrive su un pezzo di cartone.
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Lasciami entrare, opera del regista svedese Tomas Alfredson del 2008, è l'adattamento cinematografico dell'omonimo libro di John Ajvide Lindqvist, che non a caso ha curato la sceneggiatura. Sebbene sia un film di genere, l’horror non prende mai il sopravvento perché l’attenzione di Alfredson si focalizza sulla tenera relazione che unisce i due preadolescenti, quasi ancora bambini. L’intera narrazione passa allora attraverso gli occhi di Oskar e Eli, mentre la suspense lascia spesso e volentieri il posto a scene di una sconfinata poesia. Ma quale potrà mai essere il legame tra una ragazzina vampiro, prigioniera in un corpo asessuato che mai cambierà, e un dodicenne insicuro? Entrambi soffrono la solitudine, sono fragili e devono lottare per la sopravvivenza (Eli succhia sangue fresco per nutrirsi, Oskar affronta quotidianamente le angherie dei compagni di classe). 
Il ruolo di Eli offre inoltre una nuova chiave interpretativa del concetto di vampiro, che si discosta da quella radicata nell’immaginario collettivo e che poco assomiglia quindi alla spaventosa creatura alla ricerca di giovani prede, avvicinandosi piuttosto alla figura dell’eroe triste. Un'eroina romantica che, va precisato, nulla ha in comune con i melensi e patinati protagonisti di Twilight. Il glaciale paesaggio dell’inverno svedese (il buio freddo della notte, i rumori attutiti dalla neve immacolata) non poteva rappresentare migliore ambientazione per raccontare questa delicata storia di amicizia, solidarietà e affinità. E semmai il pubblico fosse alla ricerca di mostri autentici, farebbe bene a cercarli tra il bestiario dis-umano, composto da miserabili, disadattati e alcolisti, che popola una periferia svedese più deprimente che mai.

Il titolo del film si riferisce al fatto che Eli può accedere all'interno di un'abitazione soltanto se è invitata a entrarvi. Un remake con un titolo simile, Let me In (Blood Story in Italia), è stato girato nel 2010 da Matt Reeves. L'originale rimane però insuperabile.

In onda su Rai Movie, domenica 6 novembre, ore 01:35.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv
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Scheda tecnica 

Titolo originale: Låt den rätte komma in (Let the Right One In)
Anno: 2008
Regia: Tomas Alfredson
Sceneggiatura: John Ajvide Lindqvist
Fotografia: Hoyte Van Hoytema
Montaggio: Tomas Alfredson, Daniel Jonshäter
Musica: Johan Söderqvist
Durata: 114'
Attori: Kåre Hedebrant, Lina Leandersson, Per Ragnar, Henrik Dahl, Karin Bergquist.

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MEDUSE - Una fiaba contemporanea

25/8/2016

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​Nella Tel Aviv contemporanea Batya (Sara Adler) fa la cameriera in un'agenzia che organizza catering per matrimoni. Il suo datore di lavoro, dispotico e maleducato, la riprende spesso e in malo modo. Keren (Noa Knoller) è invece la sposa sfortunata che si rompe la gamba durante il banchetto di nozze dove Batya presta servizio. La ragazza deve così rinunciare alla luna di miele ai Carabi per soggiornare con il marito Michael (Gera Sandler) in un mediocre hotel in città. Infine, Joy (Ma-nenita De Latorre) è una migrante filippina che si occupa di un'anziana inferma e scorbutica, che le parla soltanto nella sua lingua o in tedesco (idiomi che Joy non comprende, dato che ha studiato l'inglese). 
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Le vite delle tre donne si sfiorano e si intrecciano per puro caso, grazie anche a una serie di personaggi femminili che ruota attorno alle loro esistenze. Incontriamo dunque la scrittrice con tendenze suicide che scambia la propria suite con la stanza rumorosa e sporca di Keren e Michael; la madre di Batya, famosa promotrice di eventi per la raccolta di fondi, il cui poster campeggia accanto alla cabina telefonica dalla quale Joy chiama il suo bambino nelle Filippine; e ancora: Galia (Ilanit Ben-Yaakov), la figlia della vecchia inferma, attrice di teatro contemporaneo, che detesta l'arrogante genitrice; la misteriosa ragazzina dai capelli rossi (Nikol Leidman), un personaggio che pare appena uscito da un anime di Hayao Miyazaki, che Batya incontra in riva al mare e che la segue ovunque per poi sparire nel nulla; e, per concludere, la fotografa dei banchetti di nozze, che aiuta la collega cameriera a cercare la strana creatura scomparsa senza alcun motivo. 
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Meduse, Caméra d'Or a Cannes nel 2007 e opera prima dello scrittore israeliano Etgar Keret, diretto a due mani con la moglie Shira Geffen (che ha curato la sceneggiatura), è un delizioso collage di storie che spesso sconfinano nel surreale, una fiaba contemporanea narrata con toni lievi anche in presenza di un colpo di scena. Quando l'obiettivo inquadra con delicatezza i volti delle davvero splendide attrici, ciò che i loro sguardi comunicano vale più di mille battute; una pura poesia che emoziona lo spettatore. 
Se Tel Aviv rimane fissa sullo sfondo e non diventa mai vera protagonista, il mare sembra essere al contrario l'elemento che crea un legame tra le tre donne, meduse che si muovono senza poter effettivamente controllare il proprio destino. Il senso di spaesamento (e di solitudine) si percepisce infatti nell'arco dell'intero film, che si conclude con un (lieto) fine in bilico tra realtà e fantasia. 
Al pubblico non resta così che lasciarsi cullare dalle immagini, prestando ascolto alle parole della lettera iniziata da Keren e terminata dalla scrittrice suicida: “Una nave dentro a una bottiglia non potrà affondare mai. Nel ricoprirsi di polvere, è carina da guardare mentre naviga nel vetro. Nessuno è tanto piccolo da poterci salire, nessuno sa dov'è diretta. Il vento non può gonfiare le sue vele: non ha vele. Solo lo scafo come un vestito e sotto... meduse. La sua bocca è asciutta, nonostante sia circondata dall'acqua. Lei beve dal profondo degli occhi, che non chiude mai. Morirà senza far rumore, non si infrangerà sugli scogli. Lei rimarrà ferma... e orgogliosa. E se non hai baciato lei mentre andavi via, amore mio, se puoi bacia me quando ritorni”.
Il significato di Meduse sta tutto qui.

In onda su Rai Movie, domenica 28 agosto ore 09.30.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica 

Titolo originale: Meduzot
Anno: 2007
Regia: Etgar Keret, Shira Geffen
Sceneggiatura: Shira Geffen
Fotografia: Antoine Héberlé
Montaggio: Sasha Franklin, François Gédigier 
Musica: Grégoire Hetzel, Christopher Bowen
Durata: 78'
Interpreti principali: Sara Adler, Nikol Leidman, Noa Knoller, Gera Sandler, Ma-nenita De Latorre, Bruria Albeck

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FISH TANK - Sete di libertà

8/7/2016

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L'irrequieta adolescente Mia (Katie Jarvis) vive con la madre Joanne (Kierston Wareing) e la sorellina Tyler (Rebecca Griffiths) in un caseggiato popolare della periferia inglese. In guerra col mondo intero, in lotta contro tutto e tutti, non frequenta la scuola, insulta e picchia le coetanee, litiga con i familiari e trascorre le giornata gironzolando per il quartiere. Come un pesce imprigionato in un acquario (da qui il titolo del film, Fish Tank), procede a tentoni alla ricerca di uno scopo che la salvi dallo squallore quotidiano e da una condizione verso la quale prova solo odio e disprezzo. Una vecchia cavalla bianca, che pascola accanto a una carovana di gitani, diventa il simbolo della sua sete di libertà (tanto che rischierà di mettersi in guai seri nel tentativo di slegarla). 
Mia sembra placare la rabbia sorda che cova dentro di sé soltanto quando balla in una stanza vuota musica hip hop; la danza rappresenta l'unico elemento in grado di destare in lei un barlume di vitalità, una pulsione/passione positiva in un mare di indifferenza e insofferenza. Del resto, la svampita Joanne pare comunque più interessata a collezionare amanti disadattati che al benessere delle figlie e, purtroppo, anche la piccola Tyler sta intraprendendo lo stesso percorso della sorella maggiore. 
Le cose cambiano all'arrivo di Conor (Michael Fassbender), nuova fiamma della madre, che da subito mostra attenzione per le due ragazze, le quali lamentano la mancanza di una figura paterna che si prenda cura di loro. Ma, se l'uomo conquista all'istante Tyler con un paio di sterline e un giro in macchina, il suo rapporto con Mia non inizia nel migliore dei modi: sceso in cucina dalla stanza di Joanne, si imbatte nell'adolescente mentre sta danzando di nascosto e lei, piena di vergogna, lo aggredisce verbalmente. Nonostante le pessime premesse, Conor non si fa intimorire dall'ostilità della giovane, incoraggiandola invece a partecipare a un'audizione. Per la prima volta, Mia conosce qualcuno che desidera davvero esserle d'aiuto e starle vicino. Così, un passo alla volta, la sua barriera difensiva scricchiola e finisce per sgretolarsi, con conseguenze disastrose. L'attrazione morbosa, ricambiata, nei confronti del compagno della madre acuirà la già insostenibile rivalità con quest'ultima e causerà una serie di eventi tragici dai risvolti inaspettati.

Fish Tank, seconda opera della regista britannica Andrea Arnold, già autrice del lungometraggio Red Road e di alcuni corti (tra i quali va ricordato Wasp, Oscar nel 2005), si è aggiudicato il Premio della Giuria al Festival di Cannes nel 2009, riconoscimento già vinto nel 2005 proprio con Red Road e riconquistato quest'anno con American Honey.
Con Fish Tank la Arnold batte sentieri già esplorati da Ken Loach e racconta la storia di un'adolescente inquieta, ennesima icona dei disadattati, di coloro che non possono permettersi false speranze perché la periferia degradata dalla quale provengono ha segnato fin dalla nascita il loro destino. Ecco perché l'intera vicenda ha un leggero retrogusto di già visto e alcune scene-simbolo (il tentativo di liberare la cavalla incatenata oppure la cattura di un pesce) rischiano di apparire scontate. Lo stesso discorso vale per la scelta della musica come unica via per affrancarsi dal ghetto. Tuttavia, grazie a una regia che segue Mia ovunque, la Arnold riesce a penetrare la sfera più intima della ragazza e a carpirne i turbamenti e le sofferenze. Merito anche della freschezza interpretativa dell'esordiente Katie Jarvis, notata per caso da un'agente in una stazione ferroviaria e poi scritturata. Non sono da meno Michael Fassbender e Kierston Wareing (che ha debuttato proprio con Ken Loach). 
Tornando alla Jervis, è quasi impossibile non paragonarla ad altre giovanissime protagoniste femminili incontrate recentemente, ad esempio, nei lavori di Céline Sciamma (Naissance des pieuvres, Bande de filles) o in Rosetta dei fratelli Dardenne. Fish Tank può dunque diventare anche un'ottima occasione per riscoprire alcuni validi titoli dove splendide attrici in erba regalano emozioni vere. 

In onda su Rai Movie nella notte tra domenica 10 e lunedì 11 luglio, alle ore 01.15.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica 

Titolo originale: Fish Tank
Anno: 2009
Regia: Andrea Arnold
Sceneggiatura: Andrea Arnold
Fotografia: Robbie Ryan
Montaggio: Nicolas Chaudeurge
Musica: Phonso Martin (Steel Pulse)
Durata: 123'
Interpreti principali: Katie Jarvis, Kierston Wareing, Michael Fassbender e Rebecca Griffiths.

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FUOCHI D'ARTIFICIO IN PIENO GIORNO - L'ora del riscatto

2/6/2016

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Nel 1999, nella Cina settentrionale, emergono le parti di un corpo umano in alcuni depositi di carbone, situati a parecchi chilometri di distanza l'uno dell'altro. Nel corso delle indagini, il detective Zhang (Liao Fan), che si occupa dell'insolito caso, interroga dei giovani sospetti, ma la situazione precipita quando uno dei fermati spara, ferendo Zhang e uccidendo due suoi colleghi. Una volta dimesso, all'uscita dell'ospedale il detective trova ad attenderlo l'amico/collega Wang (Yu Ailei). Assieme portano le ceneri della vittima alla moglie Wu (Gwei Lun Mei), dopodiché l'auto di Wang inforca un tunnel e, all'uscita, una coltre di neve accoglie lo spettatore. 
Siamo nel 2004. Addormentato lungo la strada c'è Zhang, di lato una moto parcheggiata. Una passante si ferma, sembra volergli prestare soccorso, ma poi scappa con la sua motocicletta. Il poliziotto non ha mai superato il trauma della sparatoria che ha causato la morte dei compagni. Perennemente ubriaco, ha lasciato le forze dell'ordine per lavorare come addetto alla sicurezza in una fabbrica. 
Un giorno incontra Wang, che gli racconta di altre due strani omicidi accaduti nella provincia. Ancora una volta sono stati rinvenuti brandelli di cadavere, arti inferiori con addosso pattini da ghiaccio. Le somiglianze con l'assassinio del 1999 non si fermano però al modus operandi. Infatti anche le due vittime più recenti avevano una relazione con Wu, la moglie del primo uomo fatto a pezzi. La donna lavora in una lavanderia e Zhang inizia a frequentare il negozio e a seguirla per scoprire in che modo sia implicata in morti tanto cruente. Ma finisce pure per innamorarsene.

Fuochi d'artificio in pieno giorno è il terzo film del regista e sceneggiatore cinese Diao Yi'nan. Per una volta il titolo italiano è stato ripreso letteralmente dall'originale Bai Ri Yan Huo e fa riferimento a un club dove si reca Zhang nel corso delle sue indagini, nonché al celebre finale. La versione inglese invece è conosciuta come Black Coal, Thin Ice, gli elementi che caratterizzano la scena del crimine. Come ha spiegato lo stesso regista, i due titoli riassumono l’essenza del suo lavoro perché il carbone e il ghiaccio appartengono alla sfera della realtà, mentre i fuochi d'artificio con la luce del giorno sono riconducibili a un mondo fantastico, di cui noi abbiamo bisogno per sfuggire alla crudeltà della realtà stessa.
Nonostante i fuochi d'artificio, risulta difficile scovare un barlume di speranza per i protagonisti di questo cupissimo noir, dove a farla da padrone è il degrado dell'umanità. Diao Yi'nan mette in scena un dramma in cui gli attori coinvolti vivono in balia degli eventi, prigionieri dell'ambiente malsano che li circonda, capaci di atti di violenza assolutamente gratuiti e del tutto indifferenti ai bisogni e alle emozioni propri e degli altri esseri umani. Viene da chiedersi quale sia il loro scopo nella vita, cosa li spinga ad alzarsi dal letto al mattino. L'inutilità dell'uomo (anche il caso non si risolve certo per i meriti della polizia) e la sua condizione di miserabile insetto che galleggia in una pozza di melma colpiscono più dei corpi smembrati. La Cina, come d'abitudine nelle produzioni dei suoi più autorevoli registi, ne esce con le ossa rotte. 
Non sono allora le foto dei piedi mutilati che calzano pattini da ghiaccio o le braccia che emergono dal carbone l’aspetto più terrificante di quest’opera, bensì i minatori che ridono perché pare sia stato ritrovato anche un seno in mezzo al carbone, o Zhang che tenta di abbracciare la sua amante e una collega di lavoro anche se le donne lo respingono con violenza (in quest'ultima occasione gli altri uomini presenti applaudono e non intervengono). E ancora: il cielo coperto da una putrescente coltre di smog, gli enormi bacini carboniferi, i quartieri anonimi e alienanti dove la presenza umana diventa quasi impercettibile, i muri all'interno degli edifici coperti da una patina stratificata di sporco e l'ingrediente “estraneo” rinvenuto in una zuppa servita in un bus arrugginito riconvertito in ristorante. 
Pur rispettando gli stilemi del genere noir, Fuochi d'artificio in pieno giorno è dunque e soprattutto un’amara riflessione sui mali della società contemporanea, premiata con l'Orso d'oro per il miglior film e l'Orso d'argento per il miglior attore a Liao Fan al Festival di Berlino nel 2014.

In onda su RaiMovie, venerdì 3 giugno, ore 23.15.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Bai Ri Yan Huo
Anno: 2014
Regia:  Diao Yi'nan 
Sceneggiatura:  Diao Yi'nan
Fotografia: Dong Jingsong 
Montaggio: Yang Hongyu 
Musica: Wen Zi 
Durata: 106'
Interpreti principali: Liao Fan, Gwei Lun Mei, Wang Xuebing, Wang Jingchung, Yu Ailei.

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PUSSY RIOT - Una preghiera punk per la libertà

7/12/2015

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Nel febbraio 2012 il collettivo russo Pussy Riot organizza un'incursione nella Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca per recitare una “preghiera punk” che contiene slogan come: “Madre di Dio diventa femminista” e “Madre di Dio liberaci da Putin”. La performance però dura soltanto trenta secondi, poiché la polizia interviene all'istante.
​Tre attiviste, Maria Alyokhina, Nadezhda Tolokonnikova e Yekaterina Samutsevich, sono accusate di atti di teppismo e istigazione all'odio religioso. Pochi giorni dopo vengono arrestate e condotte in carcere. Le autorità non vogliono concedere sconti. Anzi, va inflitta loro una condanna esemplare per non creare pericolosi precedenti. Anche perché il clero russo non ha affatto gradito, per usare un eufemismo. 
Durissima è pure la reazione del popolo, offeso perché considera un sacrilegio e una blasfemia l'esibizione delle tre donne. Nonostante questo, Masha, Nadia e Katia continuano la loro battaglia e, durante l'intero corso del processo, osano sfidare, alla luce del sole e con ammirevole coraggio, il potere politico ed ecclesiastico. Spiegano che l'atto eversivo delle Pussy Riot non intendeva mancare di rispetto alla religione, ma denunciare l'alleanza tra Stato e Chiesa, di cui la Cattedrale è, secondo il loro punto di vista, la simbolica rappresentazione. Attaccano Putin su tutti i fronti, adottano un linguaggio esplicito, usando termini quali regime totalitario, repressione e processo farsa (che sa tanto di vendetta personale dello stesso Presidente). 
In effetti alle attiviste non è quasi mai concessa la parola e il verdetto (emesso nell'agosto del 2012) le condanna a due anni di reclusione da scontare in una colonia penale. Fuori dall'aula (e in Occidente) non mancano i sostenitori delle giovani. Chiedono a gran voce la loro scarcerazione e una Russia senza Putin, che dal canto suo dichiara di dover proteggere i sentimenti dei credenti, già così tanto provati dall'ateismo imposto dai bolscevichi (nel 1931 un ministro di Stalin fece abbattere la Cattedrale di Cristo Salvatore e in seguito sulla stessa area venne costruita un'enorme piscina).
Presentato nel 2013 al Sundance Festival, Pussy Riot – A Punk Prayer di Mike Lerner e  Maxim Pozdorovkin (Capital) è un documentario che regala un interessante spaccato della Federazione Russa dei giorni nostri. Un Paese, prigioniero della tradizione, dove sono tollerate frange estremiste ortodosse che indossano magliette con la scritta “Ortodossia o morte” e si considerano le tre Pussy Riot come peccatrici da punire se non, addirittura, come pericolosi demoni. 
Attraverso le interviste ai genitori delle ragazze, il pubblico ha l'occasione non solo di conoscere particolari dell'infanzia di Nadia, Masha e Katia, ma anche gli eventi storici che  hanno segnato e cambiato per sempre la vita del popolo russo. I parenti delle Pussy Riot rispecchiano quella parte di popolazione che si sta svegliando dopo un lungo torpore, trova inaccettabili i metodi putiniani e prende finalmente coscienza dell'intolleranza e del sessismo diffusi, nonché delle continue violazioni dei diritti umani.

Nell'ottobre 2012, Yekaterina Samutsevich è scarcerata dopo il processo d'appello. Le altre due attiviste, Maria Alyokhina e Nadezhda Tolokonnikova, sono invece rilasciate nel dicembre 2013, grazie a un'amnistia concessa dalla Duma (e nonostante il parere contrario di Vladimir Putin). 

Serena Casagrande

In onda su Laeffe, mercoledì 9 dicembre ore 00.10

​Sezione di riferimento: Film in Tv

 
Scheda tecnica

Titolo originale: Pussy Riot – A Punk Prayer
Anno: 2013
Regia: Mike Lerner, Maxim Pozdorovkin
Fotografia: Antony Butts
Genere: documentario
Durata: 88'
Interpreti principali: Maria Alyokhina, Nadezhda Tolokonnikova, Yekaterina Samutsevich

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À BOUT PORTANT (Point Blank) - All'ultimo respiro

30/6/2015

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L'allievo infermiere Samuel Pierret (Gilles Lellouche) è sposato con Nadia (Elena Anaya), che è in attesa della loro prima figlia. Sono una coppia come milioni di altre, con una vita forse monotona ma tranquilla. L'esistenza dei Pierret subisce un cambiamento radicale e traumatico quando, senza un apparente motivo, Nadia viene rapita. I sequestratori in seguito contattano Samuel e gli sottopongono un odioso ricatto. Per garantire l'incolumità della moglie e della loro bambina, dovrà aiutare un pregiudicato gravemente ferito. Hugo Sartet (Roschdy Zem), questo è il nome dell’uomo, è ricoverato in un reparto dell'ospedale dove l’infermiere lavora. Qualcuno ha tentato di ucciderlo e i suoi complici vogliono che esca sano e salvo dal nosocomio. 
Nonostante il delinquente sia sorvegliato da un agente di polizia, Pierret non può far altro che assecondare le richieste dei rapitori, che gli hanno concesso soltanto tre ore per portare a termine la missione. Diventato suo malgrado complice del criminale e incastrato da un manipolo di poliziotti corrotti, Samuel finisce per trasformarsi in un perfetto capro espiatorio. Caduto in una trappola mortale, può contare solo sul sostegno di Sartet, a cui è legato da un destino beffardo. Ma intanto il tempo scorre inesorabile e la vita di Nadia è appesa a un filo.

Dopo Pour Elle, suo primo lungometraggio, Fred Cavayé ripropone la storia di una famiglia qualsiasi, la cui serenità è distrutta da un episodio improvviso e imprevisto, un evento che comunque non dipende dalla volontà dei protagonisti. Un inizio quasi fotocopia accomuna infatti À bout portant (conosciuto anche con il titolo Point Blank) e il film d'esordio del regista francese. I punti in comune non si fermano qui: Samuel, come Julien Auclert (Vincent Lindon) in Pour Elle, dopo il comprensibile trauma della prima ora, supera il senso d'impotenza e la frustrazione per difendere con le unghie e con i denti ciò che ha di più caro. L'uomo qualunque diventa una sorta di eroe pronto a tutto pur di salvare la moglie. Samuel appare più maldestro di Julien, ma entrambi sono disposti a sconfinare nel mondo dell'illegalità per ottenere una giustizia che la legge non può garantire. Non a caso sarà grazie al pregiudicato Sartet che Pierret riuscirà a liberare Nadia e dimostrare la propria innocenza. Ecco dunque che il ruolo di giusto va senz'altro assegnato al malvivente spietato, che adotta però un codice morale assente tra i membri corrotti delle forze dell'ordine.
Per tutta la durata del film si respira l'ansia vissuta da Samuel, preoccupato di arrivare troppo tardi; il ritmo frenetico scandisce la folle corsa contro il tempo, che si concluderà in una stazione di polizia. Ma se in Pour Elle la metodicità e l'acquisita freddezza consentono a Julien di raggiungere la meta, in À bout portant prevale la confusione e il lieto fine arriverà soltanto dopo una serie di caotiche vicissitudini. Non sempre la sceneggiatura riesce a stare al passo con la vertiginosa sequenza degli eventi e non mancano incongruenze nella trama, specie nei momenti risolutivi della vicenda, che Cavayé sembra volere concludere con troppa fretta.
Tuttavia À bout portant è un polar per nulla disprezzabile, che non merita l'etichetta di brutta copia di Pour Elle, sebbene il primo lungometraggio del regista francese sia senza dubbio più efficace. L'ottima interpretazione di Vincent Lindon fa di sicuro la differenza anche perché il Samuel di Gilles Lellouche non convince fino in fondo. Colpisce invece la figura di Hugo Sartet, probabilmente il vero protagonista del film, di cui esiste un remake sudcoreano uscito in patria nel 2014 con il titolo Target (Pyojeok).

In onda su Rai 4, sabato 4 luglio, ore 12.55.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Televisione

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Scheda tecnica

Titolo originale: À bout portant
Anno: Francia, 2010
Regia: Fred Cavayé
Sceneggiatura: Fred Cavayé, Guillaume Lemans
Fotografia: Alain Duplantier
Durata: 84'
Interpreti principali: Gilles Lellouche, Roschdy Zem, Gérard Lanvin, Elena Anaya, Mireille Perrier, Claire Pérot.

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13 ASSASSINI - Samurai, ultimo atto

18/12/2014

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Non è facile scrivere, senza risultare banali, di Takashi Miike, autore eclettico e imprevedibile tra i più talentuosi del cinema contemporaneo. La sua produzione filmica, sterminata se non ipertrofica, spazia dall'horror allo splatter, dal thriller allo “yakuza film”, dal western alla trasposizione cinematografica di manga. Rainy Dog (1997), Audition (1999), Dead or Alive (1999), Visitor Q (2001), Ichi The Killer (2001), Gozu (2003) e Izo (2004) sono solo alcuni tra i titoli più significativi del regista giapponese.
Con 13 Assassini (2010), remake dell'omonima pellicola diretta da Eiichi Kudo nel 1963, Miike dà vita a un capolavoro complesso e raffinato, dove la ricerca estetica e la cura del particolare si notano in ogni inquadratura. Il cineasta si spinge fino alla perfezione per realizzare il suo personalissimo “cappa e spada” (Jidai geki in giapponese), restando però fedele alla tradizione del genere.
Giappone, 1844: Naritsugu, fratellastro dello shogun, è un signore feudale spietato, privo di umanità. Per porre fine alle sue nefandezze, lo shogun in persona convoca il nobile samurai Shinzaemon Shimada e gli ordina di uccidere il fratello. Shinzaemon arruola quindi un manipolo di valorosi guerrieri e organizza un'imboscata ai danni dell'esercito del feudatario, attirando i militari in un isolato villaggio di montagna. Il piano purtroppo fallisce miseramente a causa della superiorità numerica dei duecento uomini comandati dal perfido Hanbei, nemico di vecchia data di Shimada. Per i tredici samurai, caduti in una trappola micidiale, esiste un'unica soluzione: avventurarsi in una missione suicida. Ma la morte sopraggiungerà soltanto al termine di un'estenuante battaglia.
Le vicende narrate si svolgono durante il periodo Tokugawa (altrimenti conosciuto come periodo Edo, 1603-1868). A breve, le trasformazioni in atto nel Paese del Sol Levante proietteranno i Giapponesi dal medioevo alla modernità; un cambiamento inevitabile e traumatico. 13 Assassini è un omaggio alla figura del samurai, o meglio, alla sua inesorabile decadenza. Nell'inutile carneficina finale, il combattente senza macchia, che preferisce perdere la vita che l'onore, non può far altro che andare incontro alla morte. È il canto del cigno del guerriero puro, che perde così la propria funzione nella società, sostituito da un esercito regolare durante la Restaurazione Meiji (ciò nonostante il Bushidō, il codice etico dei samurai, gioca ancora un ruolo importante nel Giappone odierno). Rispetto a Sukiyaki Western Django (2007), dove prevale il gusto per il pulp, in 13 Assassini Miike smorza in parte i toni per mettere in scena un'opera epica, il poetico addio a un eroe romantico entrato oramai nella leggenda.
Ottimi gli attori, con una menzione speciale a Kōji Yakusho, splendido Shinzaemon, e a Koyata (Yūsuke Iseya), il tredicesimo “assassino”, che non è un autentico ronin, ma un vagabondo che si unisce in seguito al gruppo. Più scemo del villaggio che soldato, è l'elemento comico della tragedia, protagonista principale degli episodi in cui più emerge il caratteristico humour nero di Miike.
A giudizio di chi scrive, uno tra i più riusciti film di samurai, in ideale compagnia di classici come Rashomon (1950) di Akira Kurosawa e Seppuku (1962) di Masaki Kobayashi.

In onda su Rai 4, lunedì 22 dicembre alle 00.45.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Jûsan-nin no shikaku
Anno: 2010
Regia: Takashi Miike
Sceneggiatura: Kaneo Ikegami, Daisuke Tengan.
Fotografia: Nobuyasu Kita
Durata: 141'
Interpreti principali: Kōji Yakusho, Hiroki Matsukata, Takayuki Yamada, Kazuki Namioka, Tsuyoshi Ihara.

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L'UOMO SENZA PASSATO - La fiaba dell'altruismo

2/11/2014

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Appena giunto alla stazione ferroviaria di Helsinki, M. (Markku Peltola) viene derubato e brutalmente picchiato da un gruppo di teppisti. Ricoverato in fin di vita all'ospedale, si risveglia all'improvviso, si toglie le bende e scappa. La sua fuga termina in riva al mare, dove due bambini lo scovano tra gli scogli, privo di sensi. I ragazzini avvisano i genitori, che curano lo sconosciuto e lo accolgono nella loro casa, un container. 
L'uomo si riprende completamente, ma non ricorda più nulla del suo passato, nemmeno il proprio nome. Si stabilisce quindi nella baraccopoli e inizia una nuova vita tra gli indigenti della capitale finlandese. Prende in affitto un container abbandonato da Anttila, avido guardiano corrotto, lo arreda con mobili usati (riuscendo persino a recuperare un juke box) e coltiva un orticello. 
Una sera conosce Irma (Kati Outinen), una volontaria dell'Esercito della Salvezza e se ne innamora. La donna, che lo ricambia da subito, gli procura degli abiti “decenti” e gli trova un impiego. Coinvolto senza essere colpevole in una rapina in banca, viene scagionato dall'accusa di furto, ma ugualmente trattenuto dalla polizia, che non crede alla temporanea amnesia. Un avvocato inviato dall'Esercito della Salvezza riesce a farlo rilasciare, ma la sua foto viene divulgata sui giornali e la moglie lo riconosce. M. non vuole abbandonare Irma, ma lei lo convince a tornare a casa, dove però scopre di essere separato da tempo. Dopo aver abbracciato l'ex consorte, raggiunge immediatamente Helsinki, per iniziare una nuova vita con la donna che ama.
Secondo capitolo della trilogia dedicata alla Finlandia, che comprende anche Nuvole in viaggio (1996) e Le luci della sera (2006), L'uomo senza passato concede forse uno spiraglio di speranza alla decadenza dell'umanità, che sembra subire un'inversione di tendenza attraverso il riscatto degli indigenti; un riscatto che premia coloro che sono mossi dal coraggio e dall'amore. Il cineasta contrappone l'altruismo, la disponibilità e il forte spirito di solidarietà che contraddistinguono i reietti all'avidità del guardiano e all'insensibilità dei poliziotti. La ricchezza materiale si accompagna dunque alla povertà spirituale e di ciò si accorge ad esempio Hannibal, il “temibile” cane di Anttila, che senza indugio abbandona il padrone per seguire M. nel container. 
L'uomo senza passato è il film che colloca irrevocabilmente Aki Kaurismäki tra gli assoluti maestri del cinema contemporaneo. Un'opera intensa dove la fotografia del fedele Timo Salminen, i dialoghi essenziali e malinconici alternati a battute fulminanti, un consolidato team di attori senza pari e una meravigliosa colonna sonora si incastrano alla perfezione regalando al pubblico una splendida fiaba con un (probabile) lieto fine. 
Kaurismäki, convinto pessimista e sostenitore dell'ineluttabile declino dell'umanità,  racconta appunto una storia incantata, avvalendosi anche dell'inusuale utilizzo di colori caldi; ma l'unica vera nota positiva risiede nel presente, nella possibilità di concedersi una seconda occasione e di ricominciare daccapo. L'happy end si dissolve però con i titoli di coda, perché M. e Irma camminano mano nella mano verso un futuro che di certo fiabesco non sarà.
Alcune curiosità: la foto incorniciata di Matti Pellonpää compare in un'inquadratura all'interno di un bar: è un omaggio del regista al suo amico e attore feticcio, protagonista di tante sue opere e deceduto nel 1995. Cantante molto nota in Finlandia, Annikki Tähti, la direttrice del magazzino dell'Esercito della Salvezza, si esibisce interpretando il brano che l'ha resa celebre. Hannibal sembra sia figlio e nipote dei cani apparsi in precedenti film di Kaurismäki. Il film ha ricevuto il Gran Premio della Giuria e la Palma per la miglior interpretazione femminile a Kati Outinen al 55° Festival di Cannes. 

Serena Casagrande

Su Rai Movie, mercoledì 5 novembre, ore 00.35.

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: Mies vailla menneisyyttä
Anno: 2002
Regia: Aki Kaurismäki
Sceneggiatura: Aki Kaurismäki
Fotografia: Timo Salminen
Durata: 97'
Interpreti principali: Markku Peltola, Kati Outinen, Juhani Niemelä, Annikki Tähti, Kaija Pakarinen, Sakari Kuosmanen.

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THE STORY OF MIKKO NISKANEN - Otto colpi mortali

1/10/2014

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The story of Mikko Niskanen è un documentario girato per la televisione finlandese dal cineasta di rara intelligenza Peter von Bagh, scomparso lo scorso 17 settembre a soli 71 anni. Il film, strutturato in tre parti, vuole essere un omaggio che von Bagh tributa a un regista, sceneggiatore e attore semisconosciuto al di fuori dei confini del suo Paese natale, lo straordinario Mikko Niskanen. 
Figura fondamentale nel panorama cinematografico della Finlandia, Niskanen ha diretto più di quaranta pellicole, tra le quali campeggia Eight Deadly Shots (Kahdeksan surmanluotia, 1972), una miniserie televisiva di cinque ore e 16 minuti considerata il capolavoro assoluto del cinema finnico (opinione condivisa anche da un altro mostro sacro della regia nordica: Aki Kaurismäki). Ispirato a una storia vera, il film racconta le vicende di Pasi (lo stesso Niskanen), un povero contadino che uccide quattro poliziotti intenzionati ad arrestarlo per ubriachezza molesta. Il primo episodio si apre con il rumore secco di colpi di fucile, otto spari che si disperdono nella campagna innevata; in seguito un lungo flashback rivela le disperate circostanze che hanno condotto l’omicida all’alcolismo e alla violenza: Pasi è il simbolo dei cambiamenti sociali avvenuti in Finlandia a partire dal secondo dopoguerra, e rappresenta la conclusione di un'era, il decadimento di un modello economico basato sull'agricoltura. Non a caso, von Bagh ha definito Eight Deadly Shots un dramma epico, dove Niskanen narra le difficoltà esistenziali con uno stile tipico di Zola. 
Nel pregevole documentario si comprende chiaramente come l'infanzia del cineasta coincida con un periodo chiave della storia finlandese, dato che ha vissuto in prima persona il doloroso processo responsabile della scomparsa della vita rurale (tematica da sempre cara al regista). Von Bagh analizza il contesto all'interno del quale è stato concepito e si è sviluppato Eight Deadly Shots, attraverso filmati e conversazioni con familiari e amici, interviste e stralci di pellicola, mettendo in evidenza come vi sia una sorta di identificazione tra il maestro e il contadino Pasi. 
The story of Mikko Niskanen è dunque un documento eccezionale, ricco di umanità, indispensabile per avvicinarsi all'opera di un artista che merita senza dubbio di essere (ri)scoperto. Ed è pure un'imperdibile occasione per apprezzare ancora una volta l'immenso talento del compianto Peter von Bagh, un'autorevolissima figura di riferimento per la cinematografia finlandese e mondiale. 
Regista, sceneggiatore, attore, scrittore, critico e storico del cinema, von Bagh è nato ad Helsinki nel 1943. Ha girato più di cinquanta documentari (tra i quali Helsinki Forever del 2008), ha diretto il Finnish Film Archive dal 1966 al 1969 ed è stato caporedattore della rivista di cinema Filmihullu. A von Bagh è attribuita la scoperta di Aki Kaurismäki, con il quale ha avviato svariate collaborazioni: dalle apparizioni in alcuni dei suoi film (Nuvole in viaggio, Juha, L'uomo senza passato) alla fondazione, con Aki e il fratello Mika, del Midnight Sun Film Festival, di cui è stato direttore artistico fino alla morte. Di von Bagh è inoltre il soggetto di Ho affittato un killer. Infine, all'interno della sua ricca produzione letteraria, trova posto il libro Aki Kaurismäki, tradotto in tutto il mondo.
Dal 2001 Peter von Bagh era il direttore artistico del Cinema Ritrovato di Bologna.

In onda su Rai Tre, domenica 5 ottobre ore 01.40

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film in Tv


Scheda tecnica

Titolo originale: The Story of Mikko Niskanen/Mikko Niskanen tarina - Ohjaaja matkalla ihmiseksi
Anno: 2010
Regia: Peter von Bagh
Sceneggiatura: Peter von Bagh
Fotografia: Arto Kaivanto 
Genere: Documentario
Durata: 178'

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