ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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BEATRICE CENCI – Fulci e il germe della crudeltà

7/4/2021

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​​In un’epoca in cui i cinema sono chiusi e sbarrati da inetti governanti che trattano i luoghi della cultura come zerbini su cui pulirsi le scarpe, si può almeno approfittare dell’infame divieto di accesso alle sale per recuperare alcuni fasti del passato e riscoprire gemme i cui ricordi sono magari impolverati dal tempo.
In tal senso vale senz’altro la pena di riapprocciare un’opera seminale nel ricchissimo universo filmico del glorioso Lucio Fulci, autore di cui si è ormai detto e scritto un po’ tutto, ma i cui lavori ancora oggi non mancano mai di proporre motivi di interesse ed entusiasmo.

È risaputo come Fulci abbia ottenuto buona parte del successo che meritava soltanto dopo la sua dipartita. Perennemente deriso e osteggiato in vita da tanta critica italiana altolocata, riconosciuto per le sue abilità soltanto all’estero, è diventato poi protagonista di un culto esteso a livello universale, con tanti appassionati che conservano come preziose reliquie i molteplici lavori di altissimo livello realizzati dal regista romano lungo una cospicua ed eterogenea carriera.
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Il cosiddetto “terrorista dei generi” è spesso idolatrato soprattutto per i suoi gialli/thriller (il lisergico Una lucertola con la pelle di donna, lo strepitoso Non si sevizia un paperino, il sontuoso Sette note in nero, il violentissimo Lo squartatore di New York) e per i malsani horror (i lodevolissimi Zombi 2, Paura nella città dei morti viventi, L’aldilà, Quella villa accanto al cimitero), ma ha saputo scolpire nell’eternità anche altre tipologie di pellicole, non sempre riconosciute tra i capolavori eppure indispensabili nel corpus filmico fulciano. Il romantico e bellissimo western crepuscolare I quattro dell’apocalisse, ad esempio, oppure Beatrice Cenci, dramma storico in costume realizzato nel 1969 e simbolo spartiacque di quello che sarebbe poi diventato un lungo sentiero tra i miasmi della ferocia.

Già portato sul grande schermo in varie occasioni, partendo da Mario Caserini nel 1909 fino a Riccardo Freda nel 1956, in versioni più o meno edulcorate, il tragico destino della nobildonna, condannata a morte per parricidio e prima costretta, insieme ai suoi complici, a subire terribili torture al fine di estorcere la confessione, è riproposto da Fulci con uno sguardo completamente diverso rispetto ai predecessori. Pur tra i confini di una messinscena cinquecentesca elegante e ricercata, il regista dirige infatti ogni obiettivo verso gli aspetti più macabri e morbosi della vicenda.
Tra intrallazzi illegali, untuosità di corpi e anime, bestiali desideri carnali, stupri palesemente suggeriti, interessi materiali della chiesa e scene sanguinarie, Fulci immerge le mani nella corruzione quasi in ogni inquadratura. Non lo motiva l’assunzione di Beatrice a eroina innocente da parte del popolo, né lo esalta più di tanto l’amore assoluto per la donna provato dal servo Olimpio (un misurato Tomas Milian): ciò che lui desidera è centrifugare il racconto ed estrarne i lati oscuri e abietti. Per realizzare l’intento si serve di una narrazione che viaggia avanti e indietro nei fatti, ma soprattutto sfrutta al massimo le truci facce a sua disposizione, su tutte quella di un laido e demoniaco Georges Wilson (nel ruolo del padre/padrone), impressionante per animalesca fisicità.
Inoltre, Fulci mette in gioco un aspetto sovente sottovalutato del suo cinema: l’invidiabile qualità tecnica. Alcuni momenti, come la processione degli incappucciati nel momento in cui vanno in cella a prelevare Beatrice prima del conclusivo atto di (in)giustizia, lo scambio di sguardi/non sguardi nell’ultimo incontro tra lei e Olimpio, il dettaglio delle gocce di sudore che cadono dal volto di Francesco Cenci sulla pancia di Beatrice un attimo prima dell’ignobile abuso familiare, sono di altissima perizia. Lampi di accecante bravura, utili per dimostrare già allora come Fulci fosse prima di tutto un regista di clamorosa abilità.

Film spartiacque, si diceva. Rivedendolo adesso, e confrontandolo con il seguito dell’opera fulciana, si ha la netta impressione che in Beatrice Cenci l’autore abbia iniziato a piantare i semi di quella poetica che sarebbe compiutamente deflagrata nei vent’anni successivi. Qui si aprono i prodromi del cinema della crudeltà, della spasmodica ricerca dell’estremo, dello shock. Elementi necessari per modellare il senso e la forma virulenta a cui Fulci aveva evidentemente bisogno di dedicarsi, al fine di esorcizzare i propri fantasmi interiori e al contempo sfidare convenzioni, ingerenze e incomprensioni.
Torture con ruote, corde e ferri roventi; spalle spezzate, petti bruciati; uomini sbranati da cani, chiodi conficcati negli occhi: Fulci sparge indizi del futuro che sarà e inizia a comprendere dove realmente dirigere il suo cinema. Non soltanto con scene sadiche e truculente, bensì con un impianto generale che devia da ogni deriva consolatoria per schiaffeggiare lo spettatore con il ritratto spietato dell’umana abiezione.
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Non è un caso che Beatrice Cenci (conosciuto anche come The Conspiracy of Torture) fosse particolarmente amato dallo stesso Fulci. Non è nemmeno un caso che al botteghino sia stato un flop, tanto da essere schernito sin dalle prime proiezioni e definito dal regista un film maledetto. E ancora, non crediamo accidentale che la poco espressiva protagonista Adrienne La Russa, imposta dalla produzione e detestata dal regista, appaia in scena, a montaggio ultimato, con minutaggio inferiore rispetto a quanto forse ci si aspetterebbe. Sono tutte parti uguali e contrarie dell’universo di un uomo ribelle e sfrontato, iconoclasta e ostinato, venerato e rigettato.
A noi, comunque, resta la brillantezza e la forza di un lavoro che convince e colpisce (evitando la versione distribuita in America, tagliata di diversi minuti), di cui godere singolarmente o da utilizzare come succulento punto di avvio per una corposa retrospettiva privata insaporita da tanti ottimi titoli diretti dall’autore che sapeva attraversare il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile.

Alessio Gradogna
 
Sezione di riferimento: Revival

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Scheda tecnica
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Anno: 1969
Durata: 90’
Regia: Lucio Fulci
Sceneggiatura: Roberto Gianviti, Lucio Fulci
Fotografia: Erico Menczer
Montaggio: Antonietta Zita
Musiche: Angelo Francesco Lavagnino, Silvano Spadaccino
Attori: Adrienne La Russa, Tomas Milian, Georges Wilson, Mavie Bardanzellu, Antonio Casagrande

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LA CUGINA DEL PRETE - I sogni hard di Wes Craven

29/5/2017

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​Lo spettatore meno avvezzo a certe dinamiche potrebbe chiedersi per quale motivo molti registi di culto abbiano, nel corso della loro carriera, toccato i lidi del porno, talvolta in via occasionale ma in certi casi anche con una vera e propria filmografia parallela, ricoperta dagli umori dell'hard. In quest'ultimo senso, come esempi immediati, si può pensare a Jess Franco e Joe D'Amato, che tra un vampiresco e un cannibalico, un softcore e uno splatter/gore, hanno diretto ampie quantità di produzioni pornografiche.
Le spiegazioni di tale fenomeno non sono in realtà così complesse. Per certi aspetti, l'horror e il cinema a luci rosse condividono una primordiale natura underground, oscena, clandestina e vietata, nonché alcune prerogative tematiche (l'intoccabile connubio Amor e Morte) che li rendono generi molto più affini di quanto in prima istanza si potrebbe credere. In fondo, ogni orgasmo non è un magnifico e temporaneo trapasso, a cui segue sempre una rinascita? 
Inoltre, soprattutto nei primi anni '70, in America e non solo, l'industria a luci rosse risultava assai florida e garantiva numerose possibilità occupazionali, con guadagni limitati ma sicuri, con cui potersi poi finanziare progetti più interessanti e personali. Infine, l'hard di quel periodo era libero e fantasioso, molto meno asettico rispetto all'attuale, e lasciava grandi margini di manovra con cui sperimentare, azzardare, aggirare i limiti, mettere in campo peculiarità e fissazioni personali.

La premessa rende forse molto meno sorprendente il fatto che anche un autore come Wes Craven, futuro creatore di pellicole di enorme successo come Nightmare e Scream, ma pure di notevolissime opere talvolta sottostimate come Il serpente e l'arcobaleno e The People Under The Stairs (La casa nera), abbia agli albori della carriera affondato le mani nell'hard più esplicito. Nel 1975, dopo il folgorante esordio avvenuto con il malsano L'ultima casa a sinistra, Craven ha infatti diretto La cugina del prete (in originale The Fireworks Woman), titolo che sino a oggi era reperibile in video in Italia soltanto in una orribile versione alternativa, rieditata e totalmente stravolta rispetto all'originale, intitolata Ti voglio nuda e bagnata, in cui erano state inserite scene scippate da altri porno dell'epoca e un subplot inventato per l'occasione.
Ancora una volta grande merito dunque alla Opium Visions, collana che ormai ben conosciamo, per la brillante scelta di riportare sul mercato La cugina del prete, con la condivisibile decisione di proporre il film direttamente nella versione italiana, circolata nei cinema nel 1980 e molto più completa di quella americana, vittima di consistenti tagli. 

Il lavoro di Wes Craven (che si firma con il biblico pseudonimo di Abe Snake) racconta la storia di Angela, innamorata sin dalla tenera età del cugino Peter (nella versione originale i due erano fratello e sorella, giusto per confermare come ai tempi ci si potesse perfino spingere verso i lidi dell'incesto). La ragazza cresce con l'adorato parente, in una stretta vicinanza che diviene sempre più morbosa, sino a deflagrare in un rapporto sessuale completo tra i due. Quando lui, poco dopo, indossa l'abito sacerdotale, la lontananza da Peter diviene per Angela un ostacolo greve, insostenibile, che la spinge a cercare avventure sessuali di ogni tipo, con cui provare a colmare almeno in parte l'assenza del caro congiunto. Intanto, da par suo, Peter si dibatte tra la vocazione spirituale, gli obblighi della vita clericale e il tentativo di allontanare il desiderio mai sopito per Angela. 
La trama del film, a conti fatti, è poco più che un pretesto, a partire dal quale Craven, scomparso purtroppo due anni fa, accatasta una lunga serie di sequenze hard, durante le quali c'è spazio per un'ampia gamma di attività: rapporti a tre, penetrazioni con strumenti di dominazione, urofilia, masturbazioni, cumshot sul volto, anal, perfino una scena di fisting e uno stupro. Il regista riesce comunque a rendere piuttosto eccitanti i vari momenti di sesso, grazie a una direzione tutt'altro che piatta, in grado di trovare soluzioni estrose e originali, dove in qualche caso si nota un lirico romanticismo, mentre in altri passaggi trionfa l'abiezione e prevale l'aspetto più animalesco (ad esempio la minzione nel bosco a cui Angela è costretta da una viziosa signora borghese e dal suo perverso amico).
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Deus ex machina dell'intera vicenda è lo stesso Craven, che appare anche in veste attoriale nel ruolo dell'uomo con la tuba, misteriosa e inquietante presenza transitante lungo tutto il film con significazioni indefinite (“Io sono colui che accende i fuochi d'artificio dell'amore; io sono il Destino, ma qualcuno mi chiama anche Diavolo”). È lui ad apparire nella prima immagine, in un costume da scheletro, mentre si allontana mano nella mano con una bambina nuda (scena tagliata in America ma stranamente non in Italia); è lui a guidare il delirante baccanale orgiastico del prologo; è lui ad accompagnare Angela nei suoi turbamenti, sino a guidarla verso il prevedibile epilogo. Una scelta curiosa, quella di ritagliarsi un ruolo così sinistro e sfaccettato, atta a definire i contorni di una pellicola che pur inserendosi nel filone dell'hard vuole assumere un'identità forte, in cui mostrare frammenti dell'ideologia che guiderà poi tutto il suo cinema.
Non è dunque un caso se la tematica precipua del film sia, a conti fatti, l'elemento del sogno, fulcro narrativo che l'autore svilupperà compiutamente una decina d'anni dopo con la mitica figura di Freddy Krueger. Le avventure erotiche della protagonista, interpretata da Jennifer Jordan, pornostar di successo in quel decennio, nel corso della storia deviano progressivamente dalla realtà, scivolando in un percorso visionario durante il quale immagina reiterati amplessi con Peter e con altri soggetti, incontri sovente esistenti solo nella sua mente. 
Così, in questa fusione sempre più inscindibile tra sogno e realtà, si dipana l'ossessione sentimentale e carnale di Angela e la parallela ossessione di Craven per l'elemento onirico; un'ulteriore dimostrazione di come, in quegli anni, il porno potesse essere una fonte di guadagno ma anche un valido campo di allenamento, ovvero una base da cui esprimere e sviluppare i capisaldi della propria poetica.

Alessio Gradogna


Sezione di riferimento: Revival 60/70/80

Articoli correlati recensioni Opium Visions: Maliziosamente (L'étreinte) - Donald Neilson - Heartbreak Motel - A bruciapelo (The Sadist) - Death House


Scheda tecnica

Titolo originale: The Fireworks Woman
Anno: 1975
Durata: 78' (nella versione italiana presentata dalla Opium)
Regia: Wes Craven (Abe Snake)
Sceneggiatura: Wes Craven, Hørst Badörties
Fotografia: Hørst Badörties
Montaggio: Wes Craven
Attori: Jennifer Jordan, Helen Madigan, Erica Eaton, Eric Edwards, Wes Craven

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DEATH HOUSE – La casa del dolore

5/4/2017

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​Quinta uscita per la Opium Visions, collana diventata ormai una garanzia, per la capacità di riesumare dall'oblio titoli sempre originali e interessanti e regalare loro nuova e forte dignità. Dopo L'étreinte (Maliziosamente), Donald Neilson, Heartbreak Motel e The Sadist (A bruciapelo), la creatura home video ottimamente gestita da Matteo Biacca e Simone Starace ci riporta stavolta al 1972, anno di uscita di un horror americano in grado di proporre tematiche e idee stilistiche che hanno saputo influenzare nel corso del tempo figli e figliastri dello slasher, inesauribile sottogenere tanto caro agli appassionati.
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Death House (conosciuto anche come Silent Night, Bloody Night, da non confondere con il quasi omonimo Silent Night, Deadly Night, capostipite di una saga in cui mise le mani per un paio di episodi anche Brian Yuzna), realizzato nel 1970 ma uscito nelle sale soltanto due anni dopo, instilla intuizioni di notevole fattura, codificando parzialmente un linguaggio filmico che troverà poi ampio compimento in titoli come Black Christmas, Venerdì 13 e l'indimenticabile Halloween di John Carpenter. 
Una spettrale magione in cui si compie un efferato e irrisolto omicidio. Un pericoloso killer che vent'anni dopo, nelle ore immediatamente precedenti il Natale, evade dal manicomio criminale. Il tentativo di vendere una casa teatro di eventi mai chiariti. Il ritorno di un passato intriso di sangue che scivola nel presente per glorificare la sua macabra rivincita. Una trappola incubale in cui precipitano il nipote del vecchio proprietario, lo sceriffo, la centralinista, il sindaco del luogo e la figlia di quest'ultimo.
Questi, a grandi linee, gli ingredienti di Death House, prodotto da Lloyd Kaufman (il cofondatore della Troma), diretto da Theodore Gershuny e interpretato dalla consorte Mary Woronov, ex attrice warholiana recentemente tornata in auge grazie alla partecipazione nello strepitoso The Devil's Rejects di Rob Zombie. Una trama in realtà meno semplice di quanto potrebbe sembrare, colpevole in qualche momento di arricciarsi su se stessa e risultare poco credibile, ma non priva di buone atmosfere lisergiche e improvvise dosi di violenza.
Oltre alla primitiva forza espressiva del soggetto fondante la narrazione (la casa, teatro di orrori non più rimarginabili e totem da preservare per mostrare al mondo la sua “inumanità”), il film funziona soprattutto grazie alla fotografia stordente di Adam Giffard e alla regia di Gershuny, bravo ad alternare sinuosi movimenti di macchina, accelerazioni repentine e tagli inusuali, aiutandosi con l'ampio uso di grandangoli e con la reiterazione di quello strumento per sua stessa natura disturbante, la soggettiva, che qualche anno dopo sarà portato all'assoluto trionfo da Carpenter nel suo capolavoro. 
Tra sguardi distorti, mannaie gocciolanti, argentiani guanti neri, inquietanti conversazioni telefoniche e scene immerse nella quasi totale oscurità, l'opera di Gershuny, cullandosi sulle note della dolce, malinconica e celeberrima Silent Night, si lascia apprezzare senza sforzo, trovando il suo apice in una lunga e magnifica sequenza in flashback, virata su tonalità color seppia, durante la quale si compie una dolorosa storia di abusi e vendetta. Minuti intentissimi, in cui si evidenzia lo spirito underground del film (per la presenza di alcuni attori provenienti dalla factory di Andy Warhol, voluti dalla stessa Woronov in quanto suoi amici ed ex colleghi) e si dispiega il significato ultimo di un racconto che accoglie su di sé traumi infantili, scomparse ingannevoli e misteri troppo a lungo rimasti a sedimentare sottoterra. 
L'edizione Dvd della Opium, coadiuvata da un gradevole artwork realizzato dalla disegnatrice Fabiana Trerè, ci presenta la pellicola con una traccia in lingua originale sottotitolata (non è mai esistito alcun doppiaggio italiano) e in qualità audio/video più che buona. A ciò si aggiunge un piccolo ma gustoso extra, tratto dal documentario Cult Queen Mary Woronov from Warhol to Corman, attualmente in post-produzione, in cui la protagonista di Death House, tra un drink e l'altro, ricorda alcuni aneddoti relativi alla lavorazione, senza timore di ammettere alcune abitudini non proprio edificanti che ne hanno caratterizzato la giovinezza.
​Una ciliegina in più, con cui completare il quadro di un'uscita di tutto rispetto, dedicata a un film fino a oggi quasi abbandonato nella polvere, ma in realtà capace di conquistare un posto nient'affatto trascurabile nella lunga ed epica storia del cinema horror.

Alessio Gradogna

Sezioni di riferimento: Revival 60/70/80, Into the Pit

Link correlati Opium Visions:   Maliziosamente     Donald Neilson     Heartbreak Motel     A bruciapelo


Scheda tecnica

Titolo originale: Silent Night, Bloody Night (conosciuto anche come Night of the Dark Full Moon)
Regia: Theodore Gershuny
Sceneggiatura: Theodore Gershuny, Jeffrey Konvitz, Ira Teller
Attori: Patrick O'Neal, James Patterson, Mary Woronov, John Carradine
Musiche: Gershon Kingsley
Fotografia: Adam Giffard
Montaggio: Tom Kennedy
Anno: 1972
Durata: 85'

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A BRUCIAPELO (The Sadist) - Nelle mani del sadico

13/12/2016

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​Charles Raymond Starkweather, serial killer americano nato nel 1938, uccise 11 persone tra la notte del 30 novembre 1957 e il gennaio del 1958. Quasi tutti gli omicidi ebbero come complice la giovanissima Caril Ann Fugate, quattordicenne ai tempi dei fatti. All'apice della sua furia Starkweather venne arrestato e successivamente condannato a morte. L'esecuzione avvenne nel giugno del 1959, sulla sedia elettrica.

La figura di Starkweather, uno dei più spietati e crudeli assassini della recente storia americana, è stata studiata e portata sul grande schermo da numerosi autori di culto; a lui si è ad esempio ispirato Terrence Malick per Badlands (La rabbia giovane) e lo stesso ha fatto Oliver Stone per Natural Born Killers (su soggetto peraltro scritto da Tarantino). Oltre al cinema, anche la letteratura ne ha in qualche modo riesumato le macabre gesta; Stephen King per un certo periodo ha collezionato ritagli di giornale in cui si narravano gli omicidi del ragazzo, e ha finito per modellare su di lui un personaggio (The Kid) presente nel meraviglioso romanzo The Stand (L'ombra dello scorpione).

Il primo film a prendere in considerazione la storia di Starkweather è stato il relativamente poco conosciuto The Sadist (A bruciapelo), realizzato nel 1963, diretto da James Landis, uscito per breve tempo nei cinema italiani e poi sparito dalla circolazione senza mai essere editato né in Vhs né in Dvd. Almeno fino a oggi. La creatura di Landis torna infatti a vivere grazie alla Opium Visions, giunta al suo quarto volume. La lodevole collana editoriale curata da Simone Starace e Matteo Biacca, dopo i turbamenti torbidi di L'étreinte (Maliziosamente) e i disturbanti Donald Neilson – La iena di Londra e Heartbreak Motel, aggiunge un altro tassello all'ammirabile percorso di recupero di opere dimenticate, dedicandosi a un lavoro che non lesina spunti d'interesse.

The Sadist torna dunque sul mercato, con un'ottima resa video ricavata da uno scan 2K del positivo superstite, offrendo la chance di poter riguardare il film in versione integrale sia con il doppiaggio d'epoca sia in versione originale sottotitolata (opzione comunque sempre consigliata). L'accurato impegno speso per ridare dignità a un'opera troppo presto caduta nell'oblio ci permette di immergerci in 90 minuti ansiogeni e abbastanza compatti, durante i quali assaggiamo la malvagità di cui Starkweather è stato reale protagonista. 
La trama, di per sé, risulta assai esile: tre insegnati, due uomini e una donna, si stanno recando a una partita di baseball; a causa di un guasto alla loro macchina, sono costretti a fermarsi in una stazione di servizio situata in mezzo al nulla e all'apparenza deserta; all'improvviso si trovano ostaggi di un ragazzo armato di pistola e della sua giovane fidanzata; subiranno umiliazioni di ogni tipo e dovranno lottare per sopravvivere. 
Il film di Landis, autore la cui carriera si svilupperà poi soprattutto in televisione, assomma 5 soli attori e rispetta le unità di tempo, luogo e azione. In particolare è interessante notare come i 90 minuti del film corrispondano con (quasi) totale precisione ai 90 minuti di effettivo svolgimento della vicenda. In un'atmosfera sulfurea, avvilente, nella quale i personaggi paiono come miniature al cospetto degli ampi spazi aperti di cui sono circondati, si attua un caldo ed estenuante percorso minato, durante il quale accadono pochi fatti concreti ma si respira un'atmosfera piuttosto malsana, calibrata tra sporcizia, sode, serpenti, chewing gum masticati rigorosamente a bocca aperta e carnefici che non hanno paura di niente e nessuno. Il tutto con il decisivo contributo apportato dal direttore della fotografia, quel Vilmos Zsigmond che lavorerà poi a più riprese con autori del calibro di Spielberg, Altman, Cimino e De Palma. 
Muovendosi per gran parte del film su spazi di manovra molto ristretti, i tre ostaggi “sfidano” i due aguzzini in un duello teso sul filo tra la salvezza e la morte. Tra i protagonisti, merita senz'altro una citazione particolare colui che interpreta il killer, ovvero Arch Hall Jr., attore/musicista che dopo una carriera non esaltante in entrambi gli ambiti finì per diventare pilota d'aviazione. Qui, però, la sua smodata recitazione sopra le righe sa essere efficace e riesce a restare incollata alla memoria. 
Va detto che il film non è esente da pecche: sebbene la tensione si mantenga mediamente alta, non mancano alcuni momenti di stanca; la parte finale presenta inoltre situazioni spesso forzate e poco credibili. Nonostante questo, va dato ampio credito alla Opium per aver riportato alla luce un buon esempio di quell'America grezza, sadica e psicotica che tanto orrore ha (purtroppo) generato nella realtà, ma che tanto orrore ha saputo (per fortuna) anche reinventare con ottimi esiti nella finzione cinematografica. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: The Sadist
Regia e sceneggiatura: James Landis
Attori: Arch Hall, Jr., Richard Alden, Marilyn Manning, Don Russell, Helen Hovey
Fotografia: William Zsigmond
Montaggio: Anthony M. Lanza
Anno: 1963
Durata: 95'

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HEARTBREAK MOTEL - Incubo Americano

7/10/2016

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​Terza uscita per la Opium Visions, collana home video che prosegue lungo il suo cammino nel lodevolissimo intento di riportare alla luce film maltrattati, censurati e/o dispersi nell'oblio. Dopo i turbamenti erotici di Maliziosamente (L'étreinte) e la follia omicida di Donald Neilson – La iena di Londra, la Opium ci conduce questa volta nell'America rurale del 1975, teatro di squallore e ottusità, con Heartbreak Motel, film diretto da Richard Robinson, oggetto di numerose manipolazioni nel corso degli anni e ora riproposto nella versione integrale.

Liz Wheterly, cantante di successo, decide di prendersi qualche giorno di vacanza prima del suo prossimo concerto. Si mette in viaggio da sola, ma a causa di un guasto all'automobile è costretta a chiedere soccorso in un piccolo motel situato in mezzo al nulla. Ad accoglierla trova la signora Bertha, ex stellina del burlesque ora perennemente persa tra i fumi dell'alcool, e il giovane Eddie, aspirante cantante country dalla tanta ambizione ma dal poco talento (e amante di Bertha). Appare evidente sin da subito come nella fatiscente struttura si respiri un clima malsano e pericoloso. La netta sensazione troverà pieno compimento: Liz dovrà subire gli assalti sessuali di Eddie e al contempo dovrà avere a che fare con gli altri rozzi membri della comunità locale, quasi tutti desiderosi di abusare di lei. 

Heartbreak Motel, conosciuto anche con numerosi altri titoli (tra i quali Poor Pretty Eddie) è un lavoro visionario e crudele, catalogabile al filone del rape & revenge pur con connotazioni narrative parzialmente differenti. Siamo nei territori malati di quell'America anni Settanta tanto ben dipinta in quel tempo nelle seminali opere dei vari Hooper, Craven e Zarchi, una nazione nella quale, soprattutto negli anfratti più nascosti, covavano orrori raccapriccianti e ingiustizie insopportabili causate dall'ignoranza latente e da una demenza collettiva incontrollabile. Il luogo in cui si consuma la vicenda messa in scena da Robinson, in fondo, non è per caratteristiche ambientali così lontano dal classico “motel vicino alla palude” di hooperiana memoria o da altri contenitori incubali d'epoca che tanto hanno influenzato tutto il cinema di genere degli ultimi decenni. Certo, qui non ci sono coccodrilli e nemmeno uomini con una maschera di pelle umana o mostri affamati in attesa tra le ombre, ma l'insalubre clima generale in cui si attua la storia non può che riportarci là, a quell'età d'oro dell'horror e affini che ancora oggi ricordiamo con forza. 
Da parte sua Robinson cerca di donare al film una certa originalità, sottolineando gli aspetti legati al razzismo (Liz è una donna di colore, cosa che provoca continue battute di rara stupidità), insistendo su una regia fantasiosa fatta di ralenti, dissolvenze incrociate, fermo immagine, inquadrature dal basso e zoom improvvisi, e dando corpo a personaggi infami e deprimenti: Eddie, “honkytonk man” che sfoga sulla malcapitata protagonista la propria incapacità artistica; Bertha (una magnifica Shelley Winters), che esordisce nel film guardandosi allo specchio e dicendo a se stessa “You're an ugly bitch”, per poi trascinarsi lungo la vicenda con addosso vestiti improbabili, perennemente ubriaca e terrorizzata all'idea di perdere l'unico uomo con cui può combattere la totale solitudine che la attanaglia; Keno (interpretato da Ted Cassidy, il Lurch della Famiglia Addams!), operaio tuttofare dall'aspetto inquietante ma unica figura a possedere ancora un minimo fondo di umanità. Intorno a loro gli altri membri della comunità, sceriffi, giudici e avventori del motel, tutti accomunati dal completo sudiciume, dentro e fuori, disgustanti individui pronti a fingere di aiutare Liz per poi invece saltarle addosso, al fine di soddisfare istinti di pura bestialità.
L'autore conduce così la sua attraente protagonista negli inferi della sopraffazione, iniziando con una prima parte di crescente ansia che va a esplodere in una delirante scena di stupro, realizzata in montaggio alternato con un accoppiamento canino (scelta di pessimo gusto), per poi far salire la tensione sino a un epilogo (tutto al ralenti) anticipato da macabri contrasti musicali (la marcia nuziale) ed espressivi (il viso catatonico di Liz), in cui il sangue deve inevitabilmente scorrere. 
Nonostante qualche azzardo discutibile e alcuni passaggi a dir poco confusi, il lavoro di Robinson riesce a essere disturbante ed efficace, lasciando in eredità un vago senso di repulsione e desolazione. Più che apprezzabile il lavoro compiuto da Matteo Biacca e Simone Starace, i curatori della Opium, che partendo da una vecchia copia del film lo sono riusciti a ricomporre nella sua versione completa e corretta, rendendogli finalmente giustizia.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80

Link correlati: Opium Visions 1: Maliziosamente (L'étreinte)
                              Opium Visions 2: Donald Neilson – La iena di Londra


Scheda tecnica

Titolo originale: Poor Pretty Eddie
Regia: Richard Robinson
Sceneggiatura: B.W. Sandefur
Fotografia: David Worth
Montaggio: Frank Mazzola
Anno: 1975
Durata: 82'
Attori: Leslie Uggams, Shelley Winters, Michael Christian, Slim Pickens, Dub Taylor, Ted Cassidy

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CITTÀ AMARA (FAT CITY) - La periferia della gloria

27/8/2016

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La fuga è tante cose. Qualcosa di pulito e rapido, come un uccello che lambisce il cielo. O qualcosa di sudicio e strisciante, una serie di movimenti da granchio in una melma simbolica e reale, un procedere furtivo, saltando di lato, correndo all’indietro. [Jim Thompson – The Getaway]

Il ring è per sua natura cinegenico. Non esiste, probabilmente, nella storia della settima arte un luogo più adatto per mostrare il confronto fisico (almeno a un livello istituzionale e regolato) fra due esseri umani. Il duale/duello è peraltro la figura filmica ricorrente del cinema narrativo americano – poco importa se in un contesto di rivalità mortale, come nel western, nel gangster, nel noir, nell’avventuroso, nel poliziesco, nel bellico, o prevalentemente morale (e verbale), come nella commedia brillante, nel melodramma e nelle loro filiazioni – e il pugilato ne costituisce, probabilmente, la stilizzazione ultima, la sintesi estrema. 
La boxe, d’altro canto, diviene immediatamente identificabile come metafora della lotta per la vita, anzi della vita stessa nella sua totalità, con aspirazioni di grandezza sovente mal riposte, difficoltà inevitabili e talora insormontabili, rovinose cadute e, ogni tanto, qualche trionfo, pressoché sempre effimero e di breve durata. Si pensi, a mo’ di esempio, al celebre finale di Lassù qualcuno mi ama (Robert Wise, 1956) – tra l’altro, uno dei film più leggeri, scanzonati e ottimisti sul mondo del pugilato – quando Rocky Graziano (Paul Newman) viene portato in trionfo dalla folla festante dopo il vittorioso incontro con Tony Zale e, fra applausi scroscianti e urla di giubilo, dichiara alla moglie: “Godi finché dura, tesoro, perché lo perderò il titolo prima o poi. Certo, perderò lo scatto e la forza in questo destro, è inevitabile. Ma questo non m’importa, perché quello che ho vinto non possono togliermelo. Sono stato fortunato. Lassù qualcuno mi ama.” Estrema gioia, ma anche lucida consapevolezza dell’impossibilità di sognare una grandeur a lungo termine. 
In altre pellicole, il risveglio da tale sogno risulta quasi sempre ben più amaro e greve. Le opere cinematografiche che si sono fatte carico di raccontare le gesta degli atleti del ring sono spesso riuscite a descrivere in modo vivido e convincente il pugilato come un mondo di confine, in cui regnano l’incertezza, la competizione sfrenata, la paura della sconfitta, la ricerca di riscatto personale e sociale, la brevità del successo e soprattutto la sua darwinistica selettività, in quanto, a farcela, è uno su un milione. In breve, l’universo dell’arena si è spesso configurato come calzante metafora e appropriata sineddoche dell’American Dream. 
Il fuoco della narrazione si è però quasi sempre concentrato sugli aspetti epici della boxe, descrivendo personaggi sul viale del tramonto sebbene in cerca di un ultimo riscatto, come in Stasera ho vinto anch’io di Wise (1949); atleti emergenti e pronti a compiere il grande balzo verso il successo: fra i più noti, il primo Rocky, girato da John Avildsen (1976); ex campioni ormai suonati e avviati alla decadenza, come ad esempio accade in Una faccia piena di pugni di Ralph Nelson (1962). Inoltre, vengono frequentemente esaminate le inevitabili dinamiche dell’ascesa e soprattutto della caduta di chi vive la breve ma intensa esperienza di indossare i guantoni per la gloria: memorabili sono, a tal proposito, Anima e corpo di Robert Rossen (1947) e ovviamente Toro Scatenato di Scorsese (1980).
​In ogni caso, se il ring è congeniale al cinema, altrettanto lo è il mondo che gli ruota attorno: le attese prima della lotta, lo spogliatoio, la palestra, gli allenamenti, le rinunce, i sacrifici, il denaro con i suoi molteplici intoppi, sia quando è troppo sia quando è poco, dato che comunque non è mai abbastanza.
​
Fat City, pur riproponendo alcune dinamiche dei film di ambiente pugilistico che l’hanno preceduto, descrive una traiettoria narrativa, esistenziale e stilistica affatto diversa rispetto a questi, mettendo a nudo il dietro le quinte del successo, la periferia della gloria, i bassifondi della “nobile arte”, e immergendo i personaggi nello sfasciume sonnolento di una cittadina californiana di provincia, Stockton City. Il tutto a partire dal titolo ironicamente antifrastico. (1) Non vi è più spazio per l’epica (anche quella della sconfitta) o gli elementi melodrammatici, perché a dominare è la descrizione, malinconica e asciutta, di come si svolge la vita nel limbo degli eterni perdenti. 
La vicenda ruota attorno a tre figure principali: Billy (Stacy Keach), Ernie (Jeff Bridges) e Oma (Susan Tyrrell). Billy è un ex pugile ormai trentenne allo sbando, da poco divorziato e rimasto privo anche del proprio lavoro “normale”; Ernie è un giovane ragazzotto senza particolari ambizioni, che però sembra avere un talento naturale per la boxe; Oma è una barfly sbandata, accoppiata con un apparentemente dimesso uomo di colore, Earl (Curtis Coke), che ben presto la lascerà sola, dopo essere stato incarcerato a causa di una banale lite, un evento che porterà la donna a cercare la compagnia di Billy. Tre solitudini che si incontrano e che, nell’incrociarsi, sembrano trovare qualche motivazione per un riscatto personale. ​

1) Il titolo originale, ovviamente, senza i didascalismi di quello italiano.

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​John Huston costruisce un altro – l’ennesimo nella sua filmografia – inferno dei vivi, nel quale la deriva individuale appare segnata dal fato incombente, che prende la forma di un cul-de-sac ambientale ed esistenziale che blocca le azioni individuali rendendole vane. Lo scacco è quindi doppio, giacché se da un lato è il deprimente contesto di Stockton a fungere da catalizzatore e dispersore dei sogni di fuga e rivalsa, dall’altro sono i personaggi stessi a risultare incapaci di reazione, come automi installati su un tapis roulant, marionette del fato. 
La cittadina californiana riveste il ruolo di prigione a cielo aperto, una gabbia trasparente su cui si infrangono le illusioni individuali, (2) che sembrano sciogliersi nel grigiore per poi disperdersi, inconsistenti, nell’aria. Nelle desolate vie di Stockton, nei palasport di quart’ordine dove si consumano le residue illusioni di atleti bruciati, nei rari e squallidi bar in cui gli avventori abbrutiti affogano le proprie delusioni nel whisky o in un bicchiere di cream sherry, o ancora negli assolati campi di cipolle a poche miglia di distanza, nei quali decine di raccoglitori bianchi e neri lavorano per pochi dollari al giorno, si respira l’aria malsana e greve del fallimento, il tanfo del cibo a buon mercato e dell’alito che odora di alcolici e cattive digestioni, mentre il buio interiore assume le sembianze di un’irredimibile sporcizia esteriore, fatta di sudore, lacrime, sangue e polvere. 

2) Siamo agli inizi dei ’70, e l’idea di comunità su cui poggia le proprie fondamenta l’American Dream sembra svuotata di ogni significato; al più, è il pallido desiderio di rivalsa del singolo a palesarsi, anche se sempre più debolmente.

Emerge dunque uno squallore che diviene principio universale, determinazione unica e ultima del reale: tutto ne viene pervaso e contagiato; perciò non sono tanto i luoghi, le persone, gli oggetti a delinearsi come squallidi, ma è lo squallore sovrano ad impadronirsi di essi, a penetrare nelle loro fibre, a (s)colorirne i contorni. La fotografia di Conrad Hall non forza i cromatismi, che risultano smorzati, con predominanza di grigi, gialli spenti, marroni slavati, celesti tenui, bianchi sporchi che sconfinano in gradazioni indefinibili, mentre l’azzurro del cielo non riesce a determinare l’orizzonte e la luce del sole non sembra in grado di rivelare le forme delle cose, i cui confini appaiono sfumati, confusi. 
Gli esseri umani dispersi in questa specie di purgatorio non sono altro che ombre che si muovono goffamente e vanamente, in una costruzione temporale del racconto da cui è bandito il flashback, in modo tale che i personaggi siano avvolti da un presente immutabile: uomini sospesi in una sorta di zona, senza passato e senza futuro, o meglio, per i quali passato e futuro echeggiano nei discorsi, senza il supporto di immagini. Di conseguenza, il ricordo e l’immaginazione si soggettivizzano come meri flatus vocis in perenne dissonanza rispetto al reale. 
Fat City racconta una vicenda che è hustoniana a 24 carati: misfits alla deriva e alla ricerca di un riscatto che è parimenti economico, (3) sociale e personale; un destino ingrato che se ne fa beffe senza soluzione di continuità; rapporti di coppia logori prima ancora di decollare, o consunti dall’abitudine e dal disprezzo reciproco, che sfociano in una blanda e indifferente sopportazione o, peggio, in conflitti aperti e permanenti; amicizie virili marcate da affetto, ma anche rovinate dal flusso incoerente dell’esistenza. 

3) La ricerca disperata di emancipazione economica (che si trasforma non di rado in avidità) come anticamera della libertà, dell’affrancamento dai vincoli imposti dalla comunità, è uno dei temi portanti della poetica di Huston, spesso il motore dei suoi racconti filmici.

Per Huston, probabilmente mai come in questo film, ogni possibilità di rivincita e redenzione risulta fallimentare, non tanto nei suoi esiti, quanto piuttosto nelle premesse. In particolare, il problematico rapporto fra possibilità e attuazione, fra desiderio e realtà trova nel film una brillante sintesi nella persistente e abissale distanza che separa la parola dall’azione. Due dei tre personaggi principali, oltre che svariati di quelli secondari, sono caratterizzati dal continuo riferimento verbale ai propri (perlopiù mancati) successi di un tempo, alle proprie sfortune, all’incomprensione da parte del mondo, e non mancano di rimarcare in continuazione la fermezza dei loro propositi di cambiare lo stato delle cose, di fuggire (Fat City può anche essere letto come il racconto di una fuga, velleitaria e perciò impossibile) dalla propria misera condizione. 
Il fatto è che le loro azioni sono caratterizzate dalla stanca ripetizione di gesti ottusamente quotidiani, dall’inseguimento puramente mentale ed emotivo di chimerici orizzonti nuovi o di antichi fantasmi, dal tentativo di offuscare la ruvida concretezza delle cose tramite l’illusione (Billy) o l’alcol (Oma). L’unico personaggio centrale che saggiamente evita di fuggire la realtà, pur affrontandola passivamente e senza nerbo, è quello di Ernie, il quale, inizialmente per la giovane età e poi a causa delle circostanze della vita, (4) non avverte l’urgenza di sognare a occhi aperti (la giovinezza, fin che dura, possiede già in se stessa molti connotati del sogno) e ben presto sarà costretto a scontrarsi con l’asprezza dell’età adulta, che cancellerà, se mai vi fosse stata, ogni velleità di grandezza. 

4) La ragazza con cui esce Ernie, Faye (Candy Clark), rimane incinta: il conseguente matrimonio non può che risultare un ostacolo definitivo a qualsivoglia ambizione o illusione, vista anche la precaria condizione economica del ragazzo.

Nel finale del film, l’incrociarsi fortuito di Ernie e Billy, i due amici di un tempo che avevano condiviso la passione per la boxe, l’umile lavoro nei campi fra un match di quart’ordine e l’altro, l’aspirazione di diventare (Ernie) o di tornare ad essere (Billy) pugili quantomeno dignitosi, ha il sapore amaro, per entrambi, del ritorno definitivo e consapevole a quel circolo vizioso che si chiama realtà. 
Billy è ormai un dropout senza un soldo e senza un tetto, abbandonato dalla sua Oma e anche dal suo coach, nonostante il suo vittorioso rientro sul ring; (5) Ernie sta rincasando dopo un anonimo incontro combattuto a Reno e vinto ai punti: qualche match poco brillante e poi la tranquilla e dimessa routine della provincia e della famiglia. Billy intravede Ernie, nella main street di Stockton, e lo chiama; Ernie inizialmente finge di non vederlo, ma poi è costretto a salutarlo; decidono di prendere un caffè veloce, perché Ernie deve tornare dalla moglie e dal figlio; entrano in un desolato locale semivuoto e dalle luci spettrali. Billy continua a parlare, non ha fatto altro da quando ha incontrato Ernie (anche perché Billy parla sempre, con voce strascicata e sentenziosa, come se le parole gli giungessero da un Altrove separato), ed Ernie abbozza un fugace ma cortese interesse per ciò che egli dice. Billy guarda il barista, un vecchio dall’aria stralunata (6) come un pugile suonato, e chiede a Ernie: “Ti piacerebbe svegliarti alla mattina ed essere lui? Cristo, che spreco! Prima di sfondare bisogna sempre passare un periodo nero.” Ernie replica: “Magari è felice.” Billy: “Magari siamo tutti felici.” Poi, rivolto al barista, “Ho ragione?” 

5) Un rientro che ha il sapore amaro della farsa tragica: l’avversario da lui incontrato e temuto è in realtà inoffensivo, in quanto gravemente e segretamente malato.
6) Oltre all’anziano barista del finale, un altro personaggio magnificamente silenzioso, e memorabile per come viene tratteggiato da Huston con poche e sapienti pennellate da fuoriclasse, è quello di Lucero, il boxeur messicano incontrato da Billy al suo rientro sul ring, a cui dà volto e corpo l’ex pugile professionista di origine portoricana Sixto Rodriguez. 

Il barista lo guarda stranito e sorride, tacendo. Ecco, forse il senso del film è tutto lì, in quel sorriso abbozzato, sibillino e silenzioso – le parole spesso sono solo chiacchiere al vento, mulinare di suoni che non intaccano la consistenza del reale – che sembra farsi beffe della seriosità aforistica e alcolica di Billy: la vita è spesso tragica, mai seria; meglio andarle incontro col sorriso a fior di labbra.

Gian Giacomo Petrone   

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica
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Titolo originale: Fat City
Anno: 1972
Durata: 100’
Regia: John Huston
Sceneggiatura: Leonard Gardner (dal romanzo dello stesso autore)
Fotografia: Conrad L. Hall
Supervisione musicale: Marvin Hamlisch
Montaggio: Walter Thompson, Margaret Booth (supervisione)
Interpreti principali: Stacy Keach, Jeff Bridges, Susan Tyrrel, Sixto Rodriguez, Candy Clark, Nicholas Colasanto

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HEAVEN'S GATE (I CANCELLI DEL CIELO) - L'America di Michael Cimino

26/8/2016

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​"La storia del West in generale è stimolante, rigurgita di avvenimenti, è una continua fonte di fascinazione. L'episodio di questa piccola guerra, quando mi ci sono imbattuto, mi ha affascinato, non so bene perché. Forse perché era soprattutto la morte stabilita formalmente sulle liste, ufficializzata dal governo centrale e da quello federale. Ciò che mi ha sempre interessato è capire come si prendono delle decisioni che porteranno alla morte di persone". (1)

Michael Cimino era americano, e come tale parlava della sua nazione conoscendone le idiosincrasie e amandone il chiaroscuro. Cimino sapeva bene, dunque, quanto quel mito della frontiera avesse plasmato (e plasmasse) il cinema hollywoodiano dagli albori e instancabilmente anche questa New Wave (per una volta, persino newyorkese) che si era permessa, tra il ’67 e l’80, di ribaltare produzione, censura e immaginario e allentarne i lacci emostatici. I cancelli del cielo non può che essere letto in virtù di questo reiterato attaccamento a un ideale che per un popolo si era fatto urgenza, e nel frattempo storia, e per il cinema bibbia su cui rileggere e reinterpretarne i fondali, gli iati, le scalfitture. 
La vicissitudine di un’opera mastodontica che, a riguardarla ora, appare, così ossigenata, piccola e ariosa, incapace di stridere, liberatasi dal paraocchi delle ideologie da cui è nata e da cui, spiacevolmente, fu abbattuta. Ovviamente I cancelli del cielo è un lavoro fermamente schierato, allo stesso modo in cui il Western degli anni ’40 lo era a sfavore degli Indios, similarmente rappresentati su pellicola da messicani o da figuranti con il volto dipinto. Ma, sarcastico l’appunto dell’ubriaco compagno di James Averill (indiscusso protagonista), William C. Irvine, osservando la strage che gli si compiva davanti: “It’s not like the Indians. You can’t kill them all”. È quel melting pot utopico che nel Nuovo Mondo si propone di avviare un’assimilazione totale dei nativi per procedere alla formazione di un carattere nazionale che si generi dal conflitto. 
Ma quello a cui Cimino punta, riesumando una vicenda approssimata dalle bibliografie ufficiali, è il medias res di un’americanizzazione che, a discapito della più vecchia (e pur sempre razzista) fiducia nell’immigrazione come movente per la generazione dell’uomo nuovo, fotografa un’epoca, quella tra il 1890 e il 1900, ove degli europei, generalmente poveri, non s’aveva bisogno: l’Americano esisteva, d’identità fatta e finita. Qualcuno prima di loro era stato sacrificato (e assorbito) per una buona causa. 
L’immigrazione, sotto stretto ordine (ma non vigilanza) dello Stato e dei governatori, fu ostinatamente frenata; accadde altrove, come nell’episodio della Contea di Johnson esemplificato da Cimino, che gli allevatori arrangiassero un esercito privato legittimato in modo da assassinare gli agricoltori europei della contea, già insediatasi ma supposti rei d’aver razziato il loro bestiame. Anche questa (ed è quanto perviene dal film in materia strettamente storica) è una semplificazione. In questo senso, la scelta di inquadrare una strage indiscriminata (ma ordinata in una sorta di lista nera) pose l’opera in una precisa posizione “anti-americana”, sfacciatamente schierata con l’indigente e l’oppresso – non a caso la pellicola venne definita “marxista”e lo stesso autore, spiegando il tema chiave dell’opera, riferì che “quite possibly, what the film is about, as much as anything else, is class. In a lot of ways, I think that class is emerging as a dominant theme in the film”. (2) Aspetto che, si legge, indispettì lo stesso Reagan, dal 1981 nuovamente presidente, questa volta repubblicano. 

1) Cimino su I Cancelli del cielo, “Cahiers du Cinéma”, n. 337, 1982
2) The Buffalo Film Seminars, Conversations about great film with Diane Christian and Bruce Jackson, March, 26, 2013 (XXVI: 10)

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​I cancelli del cielo subì, evidentemente, un’opera di trucido boicottaggio che interessò critici, produttori, dunque politica e, di conseguenza, spettatori; le anteprime vennero cancellate, fu ri-editato, letteralmente sbriciolato dallo stesso Cimino, mortificato ma ostinato a credere in quello che doveva essere il suo primissimo progetto da cineasta, infine ancora ostracizzato dalle sale e destinato ad essere riesumato poco dopo dalla televisione americana nella sua versione integrale e da quella italiana per mano di un altrettanto ostinato Enrico Ghezzi.
​L’impegno della Cineteca di Bologna fu costante: nel 2003, ospitò Cimino in virtù di una retrospettiva omnia delle sue opere, tra cui quella stessa integrale, ancora però distante dal restauro Criterion che nel 2016, finalmente, dopo la presentazione nella sezione Classici al festival di Venezia 2012 e conseguente commercializzazione, vede un’insperata e sfortunatamente postuma, sebbene legata a tempistiche tecnico-distributive, distribuzione nelle sale di quella che non è male definire la versione ufficiale (supervisionata dall’autore) di un’opera malinconica, eppure vaporosa, impalpabile. 
Nella revisione odierna, è d’estremo dovere dichiarare, per la fugacità con la quale si palesa agli occhi, la prassi di vera mutilazione a cui fu sottoposta l’opera da parte dello stesso autore, confuso dalla necessità di giungere a un riassetto breve e funzionale, a discapito di una narrazione che trova efficacemente sollievo nell’ampiezza dei suoi 216 minuti attuali. Di fronte alla lunga sequenza finale dello scontro armato tra americani ed immigrati facilmente si pensa alle cinque ore e 25 minuti della rough cut, consapevoli che quanto ora visionabile è parte d’un intero dal potenziale sepolto e ventre d’un taglio solo ora risanato e che appare, oggi, indegno. 
Con buona pace degli storicismi sollazzati dal suo essere tutt’ora banderuola di fine epoca, quella di una presunta stravagante libertà nel cinema, Michael Cimino si fa qui giustamente sfregio di un perfezionismo cronografico e documentario, facendosi strada con scarti temporali e ignorando volutamente quelli che altrove sarebbero assodati snodi narrativi (3), gentili vuoti di cui non s’avverte la portata, di cui il fruitore avvezzo sa riconoscere l’alterazione e ne intende la probabile secondarietà. Cimino è conscio che il fulcro monumentale del lavoro risiede nella sua ricostruzione scenografica abbagliante, impensabile in CGI (che sia la carneficina, battaglia ventosa e danzante, un campione eccellente), nel volgere compiutamente umano nei confronti dei suoi personaggi, non solo principali, e soprattutto nell’affezione che in essi si respira, nel panismo lievemente abbozzato, nell’introspezione mai didascalica che diventa protagonista in una sceneggiatura sagace, capace d’eludere lo scontato, anche all’interno di una vicenda tragico-sentimentale piuttosto classica. 

3) Già altrove evidenziata, in riferimento alla theatrical version: “a fianco di tali, felici intuizioni manca però il resto: i tagli a piene mani hanno inficiato la scorrevolezza del racconto, che presenta più di un passaggio oscuro, le intenzioni polemiche sono diluite dal prolungato soffermarsi su vicende collaterali, il film insomma manca di un respiro globale, che è invece requisito indispensabile per fare epica”, ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 91, 1981)

V’è un eroe, James Averill (Kris Kristofferson), crepuscolare e deluso com’erano i cowboy dei ’50, un amore ostacolato da un futuro di morte (con l’amante francese Ella, Isabelle Huppert), un contendente inafferrabile che lavora per i guerrafondai proprietari terrieri, Nate Champion (Christopher Walken), anch’egli destinato a un finale agghiacciante di perdita; ancor di più, v’è il soffio nostalgico del ricordo nitido e mai spentosi dell’avvocato, allora maresciallo, James, stipato nelle sue reminiscenze d’avorio, impossibilitato a guarire. Un personale fuoco prospettico ne fa narratore onnisciente, silenzioso, laddove il preambolo di gioventù ad Harvard suggella un passato proprio di ideali solo allora praticabili, intaccati. 
Ci sono gli sguardi sulla terra che Cimino coglie a passo fluido, nel perenne tentativo di superare una bidimensionalità che di scremabile ha solo il pittorico, mentre le geometrie e le accuratezze dei quadri si fanno austere ma sempre a sorprendere per elasticità, a giungere mai perentorie, inconsuete per la (simulata) spontaneità con le quali si avvolgono. Il lavoro sulla luce di Vilmos Zsigmond, negli impasti di rumore fotografico e nel chiarore indefesso che lo pervade, meriterebbe esamina altrove, insieme all’intervento di scanning digitale praticato in ottemperanza a una resa il più possibile vicina al colore dei negativi originali. Un animale peculiare e in sé un estratto dimostrativo di quanto il restauro possa realizzare. 
Quanto vi è di attuale in un lavoro che compie trentasei anni, di gestazione e tribolato processo, ma anche di numerosi apprezzamenti a ridosso (specialmente in Europa), è agli occhi di tutti, laddove Cimino, da grande narratore, ha pensato bene di estrarre le vicende umane dai loro attracchi storici, sollevandole da impietosi doveri d’obbedienza; lasciando, cioè, che fosse l’incrocio di pluralità universali, sempre valide, a sospingere una storia decadente che allora apriva veramente un’epoca, gli ’80, altrettanto nostalgici. 
Heaven's Gate svetta ora per la lucidità con la quale può guardare ai moti umani senza voler fungere da monito, o da valvola per scatenare l’iper-violenza; per la sua invidiabile semplicità e fermezza nel dipanare l’idea che “la gente povera non ha nulla da dire in questo paese”, allora come adesso; per il ritmo pacato, costante, pur nei guizzi, che è anzitutto un modello a cui guardare. Il suo essere estremamente, e prima d’ogni cosa, cinematografica, ciò che la rende una visione estatica e imprescindibile. 

Laura Delle Vedove

Sezioni di riferimento: Revival 60/70/80, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Heaven's Gate
Anno: 1980
Durata: 219 min (versione originale), 149 min (versione tagliata), 216 min (director's cut)
Regia: Michael Cimino
Sceneggiatura: Michael Cimino
Fotografia: Vilmos Zsigmond
Musiche: David Mansfield
Attori: Kris Kristofferson, Christopher Walken, John Hurt, Brad Dourif, Isabelle Huppert, Joseph Cotten, Jeff Bridges

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DONALD NEILSON - La iena di Londra

20/6/2016

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​Seconda uscita per la Opium Visions, collana della Penny Video arrivata sul mercato con il lodevolissimo proposito di regalare nuova vita a film invisibili, dimenticati, maltrattati dalla distribuzione o rimasti troppo a lungo nell'oblio. Dopo averci fatto (ri)scoprire l'interessante L'entreinte (Maliziosamente), erotico francese tratto dal romanzo Histoire d'O, la Opium ci porta questa volta in Inghilterra, per assistere alle malsane gesta di Donald Neilson, efferato pluriomicida inseguito a lungo dalla polizia britannica e arrestato nel 1975.

La storia di Neilson “merita” di essere raccontata, seppur per sommi capi. Donald Nappey (questo il suo vero nome) nacque nel 1936. La sua infanzia e la sua adolescenza non furono propriamente felici: la madre morì per un cancro quando lui aveva dieci anni, e in età scolastica il ragazzo fu perennemente oggetto di derisione da parte dei coetanei, sia per la bassa statura sia per il suo cognome (Nappey, quasi identico a Nappy, pannolino). Per trovare una via di fuga alla fosca realtà che lo opprimeva Donald entrò nell'esercito, per poi diventare tecnico nazionale di fanteria leggera dello Yorkshire; lasciò però le armi per sposare la giovane Irene Tate, da cui ebbe una figlia, Kathryn. 
Allo scopo di evitare alla primogenita gli stessi scherni da lui subiti, Nappey cambiò il proprio cognome in Neilson. L'uomo rilevò un'impresa di costruzioni, investimento che si rivelò fallimentare; successivamente lavorò come tassista, ma impossibilitato a trovare una stabilità economica, iniziò a dedicarsi ai furti. Per lungo tempo Neilson rubò in case e ville, senza mai essere catturato. Non soddisfatto dell'ammontare dei guadagni, decise di assaltare gli uffici postali; fu proprio in queste occasioni che si rese responsabile di tre omicidi nel 1974.
​La polizia lo soprannominò The Black Panther, per la destrezza delle sue “imprese” e per la divisa completamente nera che indossava in quelle occasioni. Nel 1975 Neilson rapì Lesley Whittle, giovane ereditiera di 17 anni. La imprigionò in un pozzo di drenaggio, chiese un lauto riscatto alla famiglia, ma per una serie di imprevisti la consegna dei soldi non andò a buon fine. La ragazza venne ritrovata senza vita, strangolata da un filo legato al collo. Qualche mese dopo finalmente la polizia riuscì ad arrestare Neilson. Non si è mai saputo con certezza se Lesley sia stata uccisa da Neilson o sia morta accidentalmente; in ogni caso il tribunale lo condannò a cinque ergastoli. Il killer trascorse tutto il resto della sua vita in carcere, dove morì nel 2011.

La riproduzione, piuttosto fedele, della carriera criminale della Pantera Nera, è affidata al film diretto da Ian Merrick, realizzato nel 1977, osteggiato e bloccato dalla censura subito dopo la sua uscita (in quanto violento e scioccante, nonché palesemente accusatorio riguardo all'incapacità e alla corruzione della polizia), riesumato e restaurato dalla British Film Commission nel 2012 e ora disponibile anche in Italia grazie alla Penny Video.
Il lavoro di Merrick cerca di non allontanarsi troppo dai fatti, concentrandosi su alcuni aspetti caratterizzanti il modus operandi di Neilson: la sua ossessione per l'addestramento militare, il culto per le armi, la meticolosa preparazione effettuata prima di ogni colpo, il vezzo di collezionare ritagli di giornale con la descrizione delle sue malefatte. Il ritratto che ne esce è quello di un uomo che usa il crimine non tanto per motivi economici (comunque presenti), quanto piuttosto come strumento di affermazione di sé, come rivincita nei confronti delle umiliazioni subite nel tempo, nonché come personale glorificazione autoindotta; si veda, in tal senso, la scena in cui, dopo aver incollato sul quaderno l'ennesimo trafiletto dedicato a un suo furto, Neilson si guarda allo specchio e si lascia scappare un sorriso compiaciuto. 
Merrick e il suo sceneggiatore Michael Armstrong tratteggiano il criminale come un uomo che ha fallito quasi sempre e in tutto; uno dei tanti individui allo sbaraglio in un periodo in cui la società inglese viveva una forte depressione interna, sottolineata anche da brevi ma significativi inserti diegetici, ad esempio i pestaggi in strada tra ragazzi. Neilson, interpretato da un disturbante Donald Sumpter (negli ultimi tempi visto in Eastern Promises di Cronenberg e nelle prime stagioni di Game of Thrones), è uno spirito osteggiato dalle contraddizioni: si commuove davanti a uno sceneggiato alla Tv e allo stesso tempo si lascia andare ad atteggiamenti a dir poco dispotici nei riguardi della moglie e della figlia; non usa violenze gratuite nell'atto del rapimento ma spara a bruciapelo su uomini che cercano di ostacolare le sue rapine. In lui, in fondo, lottano più anime, anche se poi a prevalere è senza dubbio la parte assassina. 
Il film si concentra soprattutto sulle rapine agli uffici postali e, ancor di più, sui vari tentativi falliti di consegnare i soldi del riscatto di Leslie. La messinscena si lascia apprezzare per la schiettezza che la domina; si tratta infatti di un'opera glaciale, ruvida, in cui alcune indovinate scelte di regia e la quasi totale assenza di dialoghi trascinano lo spettatore in un vortice grigio e opprimente, dal sapore amaro. Una realtà priva di sole e speranza, in cui si consuma un cupo e sanguinario viaggio che non potrà mai ottenere alcuna redenzione.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: The Black Panther
Regia: Ian Merrick
Sceneggiatura: Michael Armstrong
Musiche: Richard Arnell    
Fotografia: Joseph Mangine
Anno: 1977
Durata: 102'
Attori: Donald Sumpter, Debbie Farrington, Marjorie Yates, Sylvia O'Donnell, Andrew Burt

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MALIZIOSAMENTE (L'étreinte) - Il lato oscuro della passione

16/5/2016

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Gisèle (Nathalie Vernier), rimasta orfana, viene abbandonata anche dalla zia, che la allontana da casa a causa della sua avvenente bellezza che sembra attirare le attenzioni del marito. Le trova lavoro e da Zepperen, piccolo paese della provincia belga, la ragazza si trasferisce a Parigi, dove inizia a prestare servizio presso la casa di un giovane dandy, Michel (Daniel Vigo), ricco, eccentrico e viziato, che la ospita dandole anche vitto e alloggio in cambio del suo lavoro di cameriera.
​Il ragazzo, alla ricerca di una governante che incarnasse più una figura materna e che si occupasse dei suoi bisogni e di quelli della casa, si ritrova invece davanti una fanciulla di giovane età, di evidente luminosa e delicata bellezza, e timida di carattere. Ne è subito affascinato, ben presto scopre che la ragazza è ingenua e ignorante in materia sentimentale/amorosa, e inizia a vedere in lei qualcosa di più di una semplice domestica. 
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L'uomo, le cui abitudini sessuali ne riflettono il modo caotico, disordinato e irresponsabile di vivere, è appassionato del romanzo erotico Histoire d'O, di sottogenere BDSM, celebre scritto del 1954 pubblicato dall'autrice francese Dominique Aury, sotto lo pseudonimo di “Pauline Réage”. Ribattezza Gisèle “O”, come la protagonista del libro, riconoscendo in lei il potenziale di una “creatura da plasmare”, ovvero la chance per trasformare le sue fantasie in realtà. Una notte la sottopone a una sadica e brutale iniziazione per dare il via al concretizzarsi dei suoi intenti. Chiusa nell'atmosfera sontuosa e un po' cupa della casa, da questo momento la vicenda assomma varie situazioni in cui “O” cede e dà il consenso, vittima delle sue stesse passioni, al quasi totale annullamento della sua stessa volontà, accettando Michel come assoluto padrone, pur con un certo conflitto interiore. 
Più i nodi intorno alla libertà della sua persona vengono stretti dalla morsa dell'uomo, più la ragazza sente il bisogno di sciogliere quelli invisibili e interni al proprio Io, che le rendono un senso di confuso soffocamento e la riducono persa e brancolante nel buio dell'inconsapevolezza di un sé ancora in divenire. A un certo punto Michel le concede la possibilità di scegliere: allontanarsi o rimanere. Nonostante l'orizzonte di libertà, e forse anche a causa della mancanza di una capacità ad auto-definirsi in altro modo, Gisèle decide di restare, addentrandosi ancora di più in un atteggiamento promiscuo in cui coinvolgerà anche lo zio, recatosi presso il luogo della “scandalosa” convivenza con l'iniziale intento di dissuadere la nipote dal continuarla, e di riportarla a vivere con lui e la consorte. 
L'elaborazione interiore dell'emancipazione della protagonista, che dal ruolo di “O” mano a mano si affranca sempre più, fino a (ri)scoprirsi e a riappropriarsi della sua vera identità di Gisèle, avviene anche grazie (e soprattutto) al ruolo di Leni (Laetitia Sorel), amica di Michel, rimasta sola in casa con la ragazza dopo la partenza dell'uomo per un viaggio d'affari. La donna, da semplice complice e compagna con cui condividere dispiaceri e divertimenti, diventa una figura chiave che le dona, su vari livelli, gli strumenti per comprendere la situazione, per poi diventare anche sua amante.
​In primis le fa leggere il romanzo Histoire d'O, permettendole di rivedere tutto sotto una nuova luce a livello psicologico. In un secondo momento le regala un cucciolo di boxer, Samba, un gesto che può essere letto sia come suggello della rinascita interiore, sia come simbolica liberazione della sfera emotiva e del suo naturale bisogno epimeletico, anche auto-riferito. Nel momento in cui Michel mostra il proprio rifiuto verso il cane, infatti, è come se egli rifiutasse le emozioni stesse di Gisèle, che apre gli occhi definitivamente, non sentendosi più coinvolta dall'uomo in nessun modo. 
La narrazione può essere ripercorsa quindi come una sorta di Bildungsroman in cui si sviluppano le avventure interiori della ragazza, fino a giungere a una maturazione psicologica personale e ad una presa di coscienza, di consapevolezza e quindi, inevitabilmente, di posizione. In ultimo, infatti, la protagonista scoprirà per la prima volta il valore e il sapore, inestimabile e ineguagliabile, della libertà individuale.

Al di là di un'interpretazione in chiave libertaria femminista, che sicuramente salta all'occhio vista anche la collocazione temporale dell'opera, girata a fine anni '60, si può anche andare a decifrare, penetrando a un livello più sottile ma profondo del lavoro, una riflessione sull'animo umano e sulla sua insondabilità. Il titolo originale, L'étreinte, allude a un abbraccio, a un amplesso, a una stretta che non è solo fisica ma anche mentale e psicologica, nella quale si fa risucchiare Gisèle prima volontariamente, poi trascinata dalla passione e dal coinvolgimento emotivo.
​Astenendosi da facili giudizi sulle pratiche erotiche BDSM, entrambi i personaggi principali posseggono dentro di sé il doppio lato, chiaro e scuro, di una stessa medaglia. Entrambi sono animati e guidati da pulsioni, istinti, intenti in fondo uguali, diversi solo nell'esternazione della motivazione psicologica che li muove. Non si può inoltre affermare in modo assoluto che esistano una vittima e un carnefice, ma piuttosto un'intercambiabilità di ruoli in precedenza definiti, da entrambe le parti.
Anche se parzialmente il protagonista maschile viene mostrato come ”oppressore”, perché avrebbe voluto portare avanti la situazione a suo vantaggio in modo temporalmente indefinito (ma in realtà poi offre a lei possibilità di scelta), non si può scordare che il naturale presupposto delle pratiche BDSM, e in questo caso in modo particolare sadomasochiste, è sempre e solo l'essere consenziente delle due parti. Non a caso, al termine del processo psicologico di maturazione, quando Gisèle fa venir meno le condizioni, la vena della passione si esaurisce. In questo senso entrambi i personaggi portano dentro di sé i principi di luce/buio, bene/male, amore/odio, morte/rinascita.
Seguendo la chiave di lettura, con tono simbolistico e psicologico, si può fare un parallelismo tra lo svolgimento delle riprese, effettuate sempre all'interno della casa, come se raffigurassero il microcosmo ovattato e interno delle percezioni, evoluzioni ed elaborazioni interiori che portano a un'introspezione dell'animo umano, e il mondo esterno, macrocosmo che si intravede solo in pochissime scene. 

Il film, uscito all'epoca in Italia con molti tagli, è finalmente per la prima volta disponibile in Dvd in versione integrale, con master restaurato, grazie all'ottimo lavoro compiuto dalla Penny Video, che ha creato un'interessante collana, la neonata Opium Visions, dedicata ai cult movies degli anni 60/70, a cura di Matteo Biacca e Simone Starace. Una lodevole iniziativa, a cui offrire pieno sostegno, che renderà omaggio soprattutto a quei filoni dell'exploitation ignorati o malamente manipolati dalla distribuzione nostrana, con particolare attenzione verso il cinema italiano dimenticato e invisibile.

Amanda Crevola

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: L'étreinte
Regia e sceneggiatura: Paul Collet e Pierre Drouot
Interpreti principali: Nathalie Vernier, Daniel Vigot, Laetitia Sorel, Brigitte Kowaltchuck 
Fotografia: Guido Collet
Montaggio: Jean-Claude Serny
Musiche: Rogers Mores
Anno:1969
Durata: 104'

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AMADEUS - Mozart e Salieri

3/3/2016

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Quando l’irrazionale squarcia l’esile velo della realtà regolata, che l’intelletto ha concepito per proteggere le fragili fondamenta del proprio equilibrio, sovente scaturisce una reazione di diniego nei confronti dell’irrompere, nelle vicende umane, di una Natura tutt’altro che finalisticamente organizzata. Per recuperare l’equilibrio così compromesso è inevitabile la ricerca di un’altra verità, che, pur senza essere in grado di ripristinare l’ordine originario, sia capace di spiegare razionalmente l’insorgere del caos. 
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Quando Wolfgang Amadeus Mozart trapassa, il 5 dicembre 1791, all’età di 35 anni, uno sgomento senza nome si impossessa dell’immaginario collettivo dell’epoca, che non tarda a formulare l’ipotesi di una macchinazione, consumatasi ai danni del musicista salisburghese. Piuttosto che accettare l’ennesimo attestato dell’indifferenza della Natura rispetto alle sorti dell’uomo e alle più sfolgoranti manifestazioni del suo genio, è preferibile individuare qualcuno a cui addossare la colpa di un misfatto, che diviene tale solo e soltanto in una visione del cosmo teleologica, strutturata secondo una gerarchia valoriale prettamente antropica ed evidentemente distante dalle imperscrutabili leggi naturali. A volte i grandi se ne vanno presto e inaspettatamente: niente può modificare questo semplice dato. 
In ogni caso, già nei mesi appena successivi alla morte di Mozart, cominciano a circolare inquietanti voci sull’evento: svariati periodici, austriaci e non, ventilano l’ipotesi che il musicista salisburghese sia stato avvelenato; in secondo luogo, la moglie Constanze racconta di come, negli ultimi mesi di vita, il marito l’avesse messa a parte del timore che qualcuno stesse cercando di avvelenarlo; comincia a circolare poi il nome di un Fratello di Loggia di Mozart (1), fra i sospettati, tale Franz Hofdehmel, il quale, il giorno successivo alla morte del compositore, aggredisce e sfregia la propria moglie incinta, allieva di Mozart, e poi si uccide; da (buon) ultimo emerge il nome di Antonio Salieri, Kammerkomponist e Kapellmeister presso la corte asburgica, fin dalla giovane età di 24 anni (quindi dal 1774). 
Nel caso di Salieri, va precisato come sia stato egli stesso, a più riprese, ad autoaccusarsi della morte di Mozart (2) e come in alcuni ambienti altolocati – ad esempio nell’entourage di Beethoven – l’idea che Mozart fosse stato assassinato dal compositore italiano venisse presa in forte considerazione. Una volta precisato che, in ultima istanza, la verità definitiva rimarrà oscura e che, comunque, gli storici di oggi tendono a negare inappellabilmente la possibilità dell’omicidio, vanno rimarcati, in ogni caso, il forte fascino e la grande suggestività letteraria dell’ipotesi criminologica, tanto da aver originato un vero e proprio filone narrativo che arriva fino ai giorni nostri. 

1)  Il fatto che Mozart fosse un massone non è un mistero per nessuno, così come non lo è il fatto che lo fossero svariati illustri personaggi della sua epoca, di vario ceto, fama e peso politico, fra i quali, ad esempio, Haydn.
2)  Va notato come Salieri stesso, in più occasioni e in condizioni di evidente confusione mentale, abbia anche preso le distanze da tali dichiarazioni, proclamandosi totalmente estraneo alla (auto)accusa. 
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Già nel 1830, Puškin dà alle stampe un piccolo dramma teatrale in versi, dal titolo Mozart e Salieri, nel quale la rivalità fra i due musicisti, condita dall’acredine dell’italiano verso l’inarrivabile collega (il primo titolo pensato per il dramma fu Invidia), sfocia nell’omicidio. Nel novembre del 1898, a Mosca, va in scena la prima dell’opera lirica di Rimskij-Korsakov, ispirata al dramma di Puškin e col medesimo titolo di quest’ultimo. Negli anni ’70 del Novecento, il drammaturgo inglese Peter Shaffer scrive Amadeus, un’opera teatrale ispirata al dramma di Puškin, che riscuote grande successo, tanto da incuriosire anche il regista ceco Miloš Forman. Il resto è storia recente, una storia a cui Shaffer contribuisce ulteriormente, adattando per il grande schermo il proprio lavoro teatrale e curandone interamente la sceneggiatura.
Al di là di qualsiasi intento storiografico – per fortuna ben lontano dalle intenzioni sia di Shaffer che di Forman – e trascurando, quindi, le stucchevoli critiche mosse al film da storici e musicologi, l’Amadeus cinematografico si fa carico, innanzitutto, di individuare un personaggio forte, sulle cui spalle caricare il peso della morte di uno dei più grandi talenti musicali espressi dal genere umano: in tal modo l’inafferrabilità del Fato, l’ottusità della Natura e l’insorgere del Caos vengono neutralizzati in un unico gesto. Il grande nemico di Mozart (Tom Hulce), e per ciò stesso dell’intera umanità, ha un nome, un volto, un’identità: è Antonio Salieri (F. Murray Abraham). La partitura di Amadeus si dipana quindi a partire dalla forma classica cinematografica del duale/duello, per poi intessere, però, una trama avvolgente e stratificata, capace di evocare un intero mondo di finzione, che si erge a summa universale, a pantagruelica allegoria della condizione umana.

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Certamente è la disputa fra i due artisti il motore del film, che ruota attorno al vero protagonista, Salieri. Di quest’ultimo è anche il ruolo di narratore (con la multiforme performance del bravissimo Abraham nel “doppio” ruolo di Salieri adulto e anziano), attraverso l’espediente del dialogo/confessione che apre il film con l’ambientazione nel 1823 (32 anni dopo la morte di Mozart), per poi punteggiarne i vari capitoli ambientati nel ‘700, attraverso il continuo rimando al presente diegetico, che innesca la spirale del tempo cronologico, nel quale tutto ciò che lo spettatore vedrà è già compiuto, irreversibilmente. 
In quanto narratore e protagonista, Salieri si colloca immediatamente dalla parte del logos, della parola che avvolge lo spettatore per accompagnarlo, coinvolgerlo, ma anche per spiazzarlo di continuo. Ambigua è infatti la natura di quel logos, in quanto scissa e combattuta è la personalità di chi lo esprime. Salieri non è solo il nemico giurato di Mozart, ma anche il suo più fervido ammiratore ed è proprio tale ammirazione la molla che innesca il conflitto, del quale, si badi, Mozart rimarrà all’oscuro fino alla morte: l’eterno e ingegnoso fanciullo, che (quasi) letteralmente non diventerà mai adulto, non può (ri)conoscere la bassezza e la meschinità del mondo, perché non gli appartengono. 
L’invidia del musicista italiano cova, bruciante, sotto la cenere fredda della deferenza istituzionale, dell’adesione a un ruolo pubblico di prestigio e responsabilità, e soprattutto rimane celata affinché il fuoco dell’odio rimanga latente, dissimulando il perfetto e diabolico disegno della sua mente accecata: commissionare a Mozart una messa da requiem, impadronirsi dell’opera per auto-attribuirsela, eliminare l’avversario e infine dirigere il Requiem, composto da Mozart stesso, al funerale di quest’ultimo, spacciandolo come propria creazione. Il progetto si attuerà solo in parte e mancherà, beffardamente, di compiersi nel suo elemento più rilevante, quello del contrappasso: il Requiem, infatti, rimarrà incompiuto e sfuggirà alle mani di Salieri. 
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Salieri sembra ragionare come un uomo del suo tempo nel suo giudizio inappellabile sul genio di Salisburgo, ma anche relativamente ai propri meriti artistici. In una visione ottusamente geometrica e meccanica della creazione artistica, egli ritiene che la grazia di Dio debba essere commisurata alla laboriosità e alle virtù individuali e che da un grande sforzo non potrà che nascere una grande opera. 
L’opera per la quale egli si sente votato è la musica, l’espressione più alta tramite la quale l’uomo innalza il suo canto di lode al Creatore. L’incontro con la musica di Mozart – e successivamente col genio di Salisburgo in persona – non innescherà soltanto il suo risentimento personale verso l’inarrivabile avversario, ma finirà anche col far crollare lo stolido insieme di credenze su cui si era basata la sua limitata visione del mondo nonché degli imperscrutabili disegni divini; allora Dio stesso diventerà il primo nemico da umiliare, tramite l’eliminazione della sua “emanazione” incarnata, cioè di Mozart. 
Lo sforzo, il sacrificio e l’abnegazione non designano il genio né sono in grado di esprimerlo, giacché esso erompe spontaneo e inarrestabile, imprevedibile e soprattutto imprendibile. Ecco allora che, non potendo ridire alcunché sulle sublimi creazioni musicali del rivale, Salieri avrà da giudicare malignamente la sua persona, vista la mancante corrispondenza fra la personalità del giovane Mozart e l’idea astratta che di lui si era fatto il Kapellmeister, ascoltandone la musica. In sostanza, Salieri trasferisce proprio in tale idea astratta proiettata su Mozart l’immagine di sé, specchio di una personalità grigia, cupa e martire della propria pochezza: l’artefice di sublimi creazioni, manifestazioni in terra del divino, non potrà che essere un devoto sacerdote dell’arte, vissuta come una preghiera e come una mortificazione del proprio essere, dalle quali dovrà erompere l’assolutezza del dono della composizione. 
A Mozart, al contrario, non serve il sacrificio o la negazione della propria persona perché già è, e sempre è stato e sarà, un sommo spirito musicale, dal quale sgorga la vitale armonia, che non appartiene a Salieri e che quest’ultimo può cogliere con l’orecchio e col cuore, ma che la mente continua a negargli, votandolo alla sconfitta. Del resto all’uomo intelligente, ma non eccellente, non restano che gli alambicchi della ragione per giustificare il proprio scacco.
Se Salieri rappresenta l’acutezza e l’aridità del cogito incarnato nel logos, Mozart ne costituisce l’esatto opposto e, per certi versi, la nemesi. L’apparente dicotomia fra la sua personalità esuberante, infantile, ingenua, a tratti giocosamente coprolalica (3), perennemente votata allo scherzo, all’innocua facezia, e la cristallina profondità delle sue produzioni musicali è tutt’altro che bizzarra, laddove si colga in essa la necessità dell’apertura totale alla vita, affinché ne scaturisca un’apertura altrettanto totale alla creazione. Certo, non basta questo legame fra vita e arte a giustificare l’abbacinante perfezione della produzione musicale del grande salisburghese – il divino dono del genio è indispensabile, ça va sans dire – ma è probabile che essa sarebbe mancata di una parte della propria potenza, in assenza di tale legame. 

3) Su questo aspetto, può essere un utile e divertente riferimento la lettura della corrispondenza del musicista, che spesso appare come uno scanzonato poeta goliardico.

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Il tagliente giudizio di Salieri sull’avversario, definito “creatura sciocca e volgare”, “bambino osceno”, “scimmia ammaestrata”, nasce senz’altro dall’invidia, ma è dettato prevalentemente da una visione punitiva e repressa, quindi aberrante e fuori asse, del processo della creazione artistica. Per Mozart la vita è gioco, la musica è vita, quindi la musica è gioco, un gioco eccelso e serissimo. Dall’apparente semplicità di questo sillogismo, in realtà più complesso di quanto sembri, Forman si trastulla con lo spettatore, collocandolo in una scomoda posizione di contiguità col personaggio di Salieri e con la sua consapevole mediocrità (la celebre medietà/normalità dei personaggi centrali della tragedia – secondo i dettami prescritti da Aristotele – che dovevano assomigliare, come doti e carattere, allo spettatore comune), ma, allo stesso tempo, allontanandolo da esso, una volta che le sue malefiche trame si innescano. 
Intelligenza diabolica e umanissima limitatezza risultano quindi contrapposte al divino spirito ingegnoso e alla fanciullesca vitalità del genio di Salisburgo. Entrambi i personaggi presentano una doppia espressione della propria interiorità, solo che mentre quella del maestro italiano si sviluppa esclusivamente tramite la parola e la gestualità (di qui i grandi meriti dell’interpretazione di Abraham), con cui si rivelano la sensibilità dell’animo nel cogliere la bellezza della musica dell’avversario così come la colossale meschinità nel volerne la rovina, quella di Mozart si manifesta sia nella dimensione del personaggio in scena (la vita), cioè in campo, sia negli esiti del suo spirito superiore, la musica, che abita invece lo spazio sonoro e invisibile del fuoricampo, in una specie di “inquadratura sonora” del personaggio. 
In breve, la scissione di Salieri si ricompone nel ruolo di intelligenza unificatrice, che raccoglie i frammenti sparsi e in conflitto del suo io e, così facendo, riordina anche le tessere del racconto filmico, mentre l’unità di vita e arte in Mozart si sdoppia nell’immanenza della vita e nella trascendenza della musica, una musica che accompagna, sovente dalla dimensione extradiegetica, pressoché l’intero scorrere della narrazione.

​L’abilità di Forman e Shaffer si nutre di queste sottigliezze, creando anche un universo finzionale estremamente vivo, frastagliato e dinamico, nel quale tutti i comprimari, pur trovando l’alimento della loro funzione narrativa nell’interazione con le due figure principali, vivono di una propria autonomia e identità forti e ben delineate, grazie anche al cast indovinato, che può contare sulle ottime performance, fra gli altri, di Elizabeth Berridge (Constanze Weber/Mozart), Roy Dotrice (Leopold Mozart), Jeffrey Jones (l’imperatore Giuseppe II), Roderick Cook (il conte Von Strack) e Nicholas Kepros (l’arcivescovo Colloredo). 
Nel contempo, una scrittura filmica raffinatissima e invisibile tesse i fili del racconto in modo tale da condurre l’occhio dello spettatore a moltiplicare i punti di osservazione, il rapporto coi personaggi e con gli ambienti, mentre l’orecchio segue rapito un tappeto sonoro che costituisce un significativo fil rouge acustico, parallelo a quello narrativo e a tratti in conflitto con esso. Se, solo in apparenza, il racconto filmico si sviluppa come semi-soggettiva di Salieri, quando in realtà i punti di vista presenti nel film sono molteplici e tutt’altro che esclusivamente riconducibili a quello del protagonista/narratore, con un rilancio continuo del ruolo e della collocazione dello spettatore, il tessuto sonoro è un susseguirsi di alcuni brani fra i più noti del vasto repertorio mozartiano (scelti prevalentemente da quello operistico), con qualche accenno a quello rispettabile, corretto e piacevole, ma infinitamente più modesto, di Salieri: in entrambi i casi il duello è moltiplicato e rilanciato, senza soste. 
Nel confronto meramente narrativo, il personaggio che eccelle è senz’altro Salieri (vista anche la genuina inconsapevolezza dell’avversario), esaltato, beffardo e malinconico perdente, mentre in quello musicale la vittoria è tutta di Mozart, le cui armonie portano l’intero film – e con esso personaggi e spettatori – a lasciarsi scivolare addosso tutte le parole, i drammi individuali, le meschinità e le malignità terrene, per toccare una diversa e superiore dimensione dello spirito. Nel finale Salieri assolve, per una volta, tutti i mediocri – quindi, la quasi totalità degli uomini di ogni epoca – mentre la musica di Mozart li continua, ancora, a benedire.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Anno: 1984
Durata: 160’ (versione cinematografica), 180’ (director’s cut)
Regia: Miloš Forman
Soggetto e sceneggiatura: Peter Shaffer
Fotografia: Miroslav Ondříček
Montaggio: Michael Chandler, Nena Danevic, T. M. Christopher (director’s cut)
Scenografia: Patrizia Von Brandenstein
Interpreti principali: F. Murray Abraham, Tom Hulce, Elizabeth Berridge, Roy Dotrice, Jeffrey Jones

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