Il ring è per sua natura cinegenico. Non esiste, probabilmente, nella storia della settima arte un luogo più adatto per mostrare il confronto fisico (almeno a un livello istituzionale e regolato) fra due esseri umani. Il duale/duello è peraltro la figura filmica ricorrente del cinema narrativo americano – poco importa se in un contesto di rivalità mortale, come nel western, nel gangster, nel noir, nell’avventuroso, nel poliziesco, nel bellico, o prevalentemente morale (e verbale), come nella commedia brillante, nel melodramma e nelle loro filiazioni – e il pugilato ne costituisce, probabilmente, la stilizzazione ultima, la sintesi estrema.
La boxe, d’altro canto, diviene immediatamente identificabile come metafora della lotta per la vita, anzi della vita stessa nella sua totalità, con aspirazioni di grandezza sovente mal riposte, difficoltà inevitabili e talora insormontabili, rovinose cadute e, ogni tanto, qualche trionfo, pressoché sempre effimero e di breve durata. Si pensi, a mo’ di esempio, al celebre finale di Lassù qualcuno mi ama (Robert Wise, 1956) – tra l’altro, uno dei film più leggeri, scanzonati e ottimisti sul mondo del pugilato – quando Rocky Graziano (Paul Newman) viene portato in trionfo dalla folla festante dopo il vittorioso incontro con Tony Zale e, fra applausi scroscianti e urla di giubilo, dichiara alla moglie: “Godi finché dura, tesoro, perché lo perderò il titolo prima o poi. Certo, perderò lo scatto e la forza in questo destro, è inevitabile. Ma questo non m’importa, perché quello che ho vinto non possono togliermelo. Sono stato fortunato. Lassù qualcuno mi ama.” Estrema gioia, ma anche lucida consapevolezza dell’impossibilità di sognare una grandeur a lungo termine.
In altre pellicole, il risveglio da tale sogno risulta quasi sempre ben più amaro e greve. Le opere cinematografiche che si sono fatte carico di raccontare le gesta degli atleti del ring sono spesso riuscite a descrivere in modo vivido e convincente il pugilato come un mondo di confine, in cui regnano l’incertezza, la competizione sfrenata, la paura della sconfitta, la ricerca di riscatto personale e sociale, la brevità del successo e soprattutto la sua darwinistica selettività, in quanto, a farcela, è uno su un milione. In breve, l’universo dell’arena si è spesso configurato come calzante metafora e appropriata sineddoche dell’American Dream.
Il fuoco della narrazione si è però quasi sempre concentrato sugli aspetti epici della boxe, descrivendo personaggi sul viale del tramonto sebbene in cerca di un ultimo riscatto, come in Stasera ho vinto anch’io di Wise (1949); atleti emergenti e pronti a compiere il grande balzo verso il successo: fra i più noti, il primo Rocky, girato da John Avildsen (1976); ex campioni ormai suonati e avviati alla decadenza, come ad esempio accade in Una faccia piena di pugni di Ralph Nelson (1962). Inoltre, vengono frequentemente esaminate le inevitabili dinamiche dell’ascesa e soprattutto della caduta di chi vive la breve ma intensa esperienza di indossare i guantoni per la gloria: memorabili sono, a tal proposito, Anima e corpo di Robert Rossen (1947) e ovviamente Toro Scatenato di Scorsese (1980).
In ogni caso, se il ring è congeniale al cinema, altrettanto lo è il mondo che gli ruota attorno: le attese prima della lotta, lo spogliatoio, la palestra, gli allenamenti, le rinunce, i sacrifici, il denaro con i suoi molteplici intoppi, sia quando è troppo sia quando è poco, dato che comunque non è mai abbastanza.
Fat City, pur riproponendo alcune dinamiche dei film di ambiente pugilistico che l’hanno preceduto, descrive una traiettoria narrativa, esistenziale e stilistica affatto diversa rispetto a questi, mettendo a nudo il dietro le quinte del successo, la periferia della gloria, i bassifondi della “nobile arte”, e immergendo i personaggi nello sfasciume sonnolento di una cittadina californiana di provincia, Stockton City. Il tutto a partire dal titolo ironicamente antifrastico. (1) Non vi è più spazio per l’epica (anche quella della sconfitta) o gli elementi melodrammatici, perché a dominare è la descrizione, malinconica e asciutta, di come si svolge la vita nel limbo degli eterni perdenti.
La vicenda ruota attorno a tre figure principali: Billy (Stacy Keach), Ernie (Jeff Bridges) e Oma (Susan Tyrrell). Billy è un ex pugile ormai trentenne allo sbando, da poco divorziato e rimasto privo anche del proprio lavoro “normale”; Ernie è un giovane ragazzotto senza particolari ambizioni, che però sembra avere un talento naturale per la boxe; Oma è una barfly sbandata, accoppiata con un apparentemente dimesso uomo di colore, Earl (Curtis Coke), che ben presto la lascerà sola, dopo essere stato incarcerato a causa di una banale lite, un evento che porterà la donna a cercare la compagnia di Billy. Tre solitudini che si incontrano e che, nell’incrociarsi, sembrano trovare qualche motivazione per un riscatto personale.
1) Il titolo originale, ovviamente, senza i didascalismi di quello italiano.
La cittadina californiana riveste il ruolo di prigione a cielo aperto, una gabbia trasparente su cui si infrangono le illusioni individuali, (2) che sembrano sciogliersi nel grigiore per poi disperdersi, inconsistenti, nell’aria. Nelle desolate vie di Stockton, nei palasport di quart’ordine dove si consumano le residue illusioni di atleti bruciati, nei rari e squallidi bar in cui gli avventori abbrutiti affogano le proprie delusioni nel whisky o in un bicchiere di cream sherry, o ancora negli assolati campi di cipolle a poche miglia di distanza, nei quali decine di raccoglitori bianchi e neri lavorano per pochi dollari al giorno, si respira l’aria malsana e greve del fallimento, il tanfo del cibo a buon mercato e dell’alito che odora di alcolici e cattive digestioni, mentre il buio interiore assume le sembianze di un’irredimibile sporcizia esteriore, fatta di sudore, lacrime, sangue e polvere.
2) Siamo agli inizi dei ’70, e l’idea di comunità su cui poggia le proprie fondamenta l’American Dream sembra svuotata di ogni significato; al più, è il pallido desiderio di rivalsa del singolo a palesarsi, anche se sempre più debolmente.
Emerge dunque uno squallore che diviene principio universale, determinazione unica e ultima del reale: tutto ne viene pervaso e contagiato; perciò non sono tanto i luoghi, le persone, gli oggetti a delinearsi come squallidi, ma è lo squallore sovrano ad impadronirsi di essi, a penetrare nelle loro fibre, a (s)colorirne i contorni. La fotografia di Conrad Hall non forza i cromatismi, che risultano smorzati, con predominanza di grigi, gialli spenti, marroni slavati, celesti tenui, bianchi sporchi che sconfinano in gradazioni indefinibili, mentre l’azzurro del cielo non riesce a determinare l’orizzonte e la luce del sole non sembra in grado di rivelare le forme delle cose, i cui confini appaiono sfumati, confusi.
Gli esseri umani dispersi in questa specie di purgatorio non sono altro che ombre che si muovono goffamente e vanamente, in una costruzione temporale del racconto da cui è bandito il flashback, in modo tale che i personaggi siano avvolti da un presente immutabile: uomini sospesi in una sorta di zona, senza passato e senza futuro, o meglio, per i quali passato e futuro echeggiano nei discorsi, senza il supporto di immagini. Di conseguenza, il ricordo e l’immaginazione si soggettivizzano come meri flatus vocis in perenne dissonanza rispetto al reale.
Fat City racconta una vicenda che è hustoniana a 24 carati: misfits alla deriva e alla ricerca di un riscatto che è parimenti economico, (3) sociale e personale; un destino ingrato che se ne fa beffe senza soluzione di continuità; rapporti di coppia logori prima ancora di decollare, o consunti dall’abitudine e dal disprezzo reciproco, che sfociano in una blanda e indifferente sopportazione o, peggio, in conflitti aperti e permanenti; amicizie virili marcate da affetto, ma anche rovinate dal flusso incoerente dell’esistenza.
3) La ricerca disperata di emancipazione economica (che si trasforma non di rado in avidità) come anticamera della libertà, dell’affrancamento dai vincoli imposti dalla comunità, è uno dei temi portanti della poetica di Huston, spesso il motore dei suoi racconti filmici.
Per Huston, probabilmente mai come in questo film, ogni possibilità di rivincita e redenzione risulta fallimentare, non tanto nei suoi esiti, quanto piuttosto nelle premesse. In particolare, il problematico rapporto fra possibilità e attuazione, fra desiderio e realtà trova nel film una brillante sintesi nella persistente e abissale distanza che separa la parola dall’azione. Due dei tre personaggi principali, oltre che svariati di quelli secondari, sono caratterizzati dal continuo riferimento verbale ai propri (perlopiù mancati) successi di un tempo, alle proprie sfortune, all’incomprensione da parte del mondo, e non mancano di rimarcare in continuazione la fermezza dei loro propositi di cambiare lo stato delle cose, di fuggire (Fat City può anche essere letto come il racconto di una fuga, velleitaria e perciò impossibile) dalla propria misera condizione.
Il fatto è che le loro azioni sono caratterizzate dalla stanca ripetizione di gesti ottusamente quotidiani, dall’inseguimento puramente mentale ed emotivo di chimerici orizzonti nuovi o di antichi fantasmi, dal tentativo di offuscare la ruvida concretezza delle cose tramite l’illusione (Billy) o l’alcol (Oma). L’unico personaggio centrale che saggiamente evita di fuggire la realtà, pur affrontandola passivamente e senza nerbo, è quello di Ernie, il quale, inizialmente per la giovane età e poi a causa delle circostanze della vita, (4) non avverte l’urgenza di sognare a occhi aperti (la giovinezza, fin che dura, possiede già in se stessa molti connotati del sogno) e ben presto sarà costretto a scontrarsi con l’asprezza dell’età adulta, che cancellerà, se mai vi fosse stata, ogni velleità di grandezza.
4) La ragazza con cui esce Ernie, Faye (Candy Clark), rimane incinta: il conseguente matrimonio non può che risultare un ostacolo definitivo a qualsivoglia ambizione o illusione, vista anche la precaria condizione economica del ragazzo.
Nel finale del film, l’incrociarsi fortuito di Ernie e Billy, i due amici di un tempo che avevano condiviso la passione per la boxe, l’umile lavoro nei campi fra un match di quart’ordine e l’altro, l’aspirazione di diventare (Ernie) o di tornare ad essere (Billy) pugili quantomeno dignitosi, ha il sapore amaro, per entrambi, del ritorno definitivo e consapevole a quel circolo vizioso che si chiama realtà.
Billy è ormai un dropout senza un soldo e senza un tetto, abbandonato dalla sua Oma e anche dal suo coach, nonostante il suo vittorioso rientro sul ring; (5) Ernie sta rincasando dopo un anonimo incontro combattuto a Reno e vinto ai punti: qualche match poco brillante e poi la tranquilla e dimessa routine della provincia e della famiglia. Billy intravede Ernie, nella main street di Stockton, e lo chiama; Ernie inizialmente finge di non vederlo, ma poi è costretto a salutarlo; decidono di prendere un caffè veloce, perché Ernie deve tornare dalla moglie e dal figlio; entrano in un desolato locale semivuoto e dalle luci spettrali. Billy continua a parlare, non ha fatto altro da quando ha incontrato Ernie (anche perché Billy parla sempre, con voce strascicata e sentenziosa, come se le parole gli giungessero da un Altrove separato), ed Ernie abbozza un fugace ma cortese interesse per ciò che egli dice. Billy guarda il barista, un vecchio dall’aria stralunata (6) come un pugile suonato, e chiede a Ernie: “Ti piacerebbe svegliarti alla mattina ed essere lui? Cristo, che spreco! Prima di sfondare bisogna sempre passare un periodo nero.” Ernie replica: “Magari è felice.” Billy: “Magari siamo tutti felici.” Poi, rivolto al barista, “Ho ragione?”
5) Un rientro che ha il sapore amaro della farsa tragica: l’avversario da lui incontrato e temuto è in realtà inoffensivo, in quanto gravemente e segretamente malato.
6) Oltre all’anziano barista del finale, un altro personaggio magnificamente silenzioso, e memorabile per come viene tratteggiato da Huston con poche e sapienti pennellate da fuoriclasse, è quello di Lucero, il boxeur messicano incontrato da Billy al suo rientro sul ring, a cui dà volto e corpo l’ex pugile professionista di origine portoricana Sixto Rodriguez.
Il barista lo guarda stranito e sorride, tacendo. Ecco, forse il senso del film è tutto lì, in quel sorriso abbozzato, sibillino e silenzioso – le parole spesso sono solo chiacchiere al vento, mulinare di suoni che non intaccano la consistenza del reale – che sembra farsi beffe della seriosità aforistica e alcolica di Billy: la vita è spesso tragica, mai seria; meglio andarle incontro col sorriso a fior di labbra.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Revival 60/70/80
Scheda tecnica
Titolo originale: Fat City
Anno: 1972
Durata: 100’
Regia: John Huston
Sceneggiatura: Leonard Gardner (dal romanzo dello stesso autore)
Fotografia: Conrad L. Hall
Supervisione musicale: Marvin Hamlisch
Montaggio: Walter Thompson, Margaret Booth (supervisione)
Interpreti principali: Stacy Keach, Jeff Bridges, Susan Tyrrel, Sixto Rodriguez, Candy Clark, Nicholas Colasanto
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