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HEAVEN'S GATE (I CANCELLI DEL CIELO) - L'America di Michael Cimino

26/8/2016

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​"La storia del West in generale è stimolante, rigurgita di avvenimenti, è una continua fonte di fascinazione. L'episodio di questa piccola guerra, quando mi ci sono imbattuto, mi ha affascinato, non so bene perché. Forse perché era soprattutto la morte stabilita formalmente sulle liste, ufficializzata dal governo centrale e da quello federale. Ciò che mi ha sempre interessato è capire come si prendono delle decisioni che porteranno alla morte di persone". (1)

Michael Cimino era americano, e come tale parlava della sua nazione conoscendone le idiosincrasie e amandone il chiaroscuro. Cimino sapeva bene, dunque, quanto quel mito della frontiera avesse plasmato (e plasmasse) il cinema hollywoodiano dagli albori e instancabilmente anche questa New Wave (per una volta, persino newyorkese) che si era permessa, tra il ’67 e l’80, di ribaltare produzione, censura e immaginario e allentarne i lacci emostatici. I cancelli del cielo non può che essere letto in virtù di questo reiterato attaccamento a un ideale che per un popolo si era fatto urgenza, e nel frattempo storia, e per il cinema bibbia su cui rileggere e reinterpretarne i fondali, gli iati, le scalfitture. 
La vicissitudine di un’opera mastodontica che, a riguardarla ora, appare, così ossigenata, piccola e ariosa, incapace di stridere, liberatasi dal paraocchi delle ideologie da cui è nata e da cui, spiacevolmente, fu abbattuta. Ovviamente I cancelli del cielo è un lavoro fermamente schierato, allo stesso modo in cui il Western degli anni ’40 lo era a sfavore degli Indios, similarmente rappresentati su pellicola da messicani o da figuranti con il volto dipinto. Ma, sarcastico l’appunto dell’ubriaco compagno di James Averill (indiscusso protagonista), William C. Irvine, osservando la strage che gli si compiva davanti: “It’s not like the Indians. You can’t kill them all”. È quel melting pot utopico che nel Nuovo Mondo si propone di avviare un’assimilazione totale dei nativi per procedere alla formazione di un carattere nazionale che si generi dal conflitto. 
Ma quello a cui Cimino punta, riesumando una vicenda approssimata dalle bibliografie ufficiali, è il medias res di un’americanizzazione che, a discapito della più vecchia (e pur sempre razzista) fiducia nell’immigrazione come movente per la generazione dell’uomo nuovo, fotografa un’epoca, quella tra il 1890 e il 1900, ove degli europei, generalmente poveri, non s’aveva bisogno: l’Americano esisteva, d’identità fatta e finita. Qualcuno prima di loro era stato sacrificato (e assorbito) per una buona causa. 
L’immigrazione, sotto stretto ordine (ma non vigilanza) dello Stato e dei governatori, fu ostinatamente frenata; accadde altrove, come nell’episodio della Contea di Johnson esemplificato da Cimino, che gli allevatori arrangiassero un esercito privato legittimato in modo da assassinare gli agricoltori europei della contea, già insediatasi ma supposti rei d’aver razziato il loro bestiame. Anche questa (ed è quanto perviene dal film in materia strettamente storica) è una semplificazione. In questo senso, la scelta di inquadrare una strage indiscriminata (ma ordinata in una sorta di lista nera) pose l’opera in una precisa posizione “anti-americana”, sfacciatamente schierata con l’indigente e l’oppresso – non a caso la pellicola venne definita “marxista”e lo stesso autore, spiegando il tema chiave dell’opera, riferì che “quite possibly, what the film is about, as much as anything else, is class. In a lot of ways, I think that class is emerging as a dominant theme in the film”. (2) Aspetto che, si legge, indispettì lo stesso Reagan, dal 1981 nuovamente presidente, questa volta repubblicano. 

1) Cimino su I Cancelli del cielo, “Cahiers du Cinéma”, n. 337, 1982
2) The Buffalo Film Seminars, Conversations about great film with Diane Christian and Bruce Jackson, March, 26, 2013 (XXVI: 10)

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​I cancelli del cielo subì, evidentemente, un’opera di trucido boicottaggio che interessò critici, produttori, dunque politica e, di conseguenza, spettatori; le anteprime vennero cancellate, fu ri-editato, letteralmente sbriciolato dallo stesso Cimino, mortificato ma ostinato a credere in quello che doveva essere il suo primissimo progetto da cineasta, infine ancora ostracizzato dalle sale e destinato ad essere riesumato poco dopo dalla televisione americana nella sua versione integrale e da quella italiana per mano di un altrettanto ostinato Enrico Ghezzi.
​L’impegno della Cineteca di Bologna fu costante: nel 2003, ospitò Cimino in virtù di una retrospettiva omnia delle sue opere, tra cui quella stessa integrale, ancora però distante dal restauro Criterion che nel 2016, finalmente, dopo la presentazione nella sezione Classici al festival di Venezia 2012 e conseguente commercializzazione, vede un’insperata e sfortunatamente postuma, sebbene legata a tempistiche tecnico-distributive, distribuzione nelle sale di quella che non è male definire la versione ufficiale (supervisionata dall’autore) di un’opera malinconica, eppure vaporosa, impalpabile. 
Nella revisione odierna, è d’estremo dovere dichiarare, per la fugacità con la quale si palesa agli occhi, la prassi di vera mutilazione a cui fu sottoposta l’opera da parte dello stesso autore, confuso dalla necessità di giungere a un riassetto breve e funzionale, a discapito di una narrazione che trova efficacemente sollievo nell’ampiezza dei suoi 216 minuti attuali. Di fronte alla lunga sequenza finale dello scontro armato tra americani ed immigrati facilmente si pensa alle cinque ore e 25 minuti della rough cut, consapevoli che quanto ora visionabile è parte d’un intero dal potenziale sepolto e ventre d’un taglio solo ora risanato e che appare, oggi, indegno. 
Con buona pace degli storicismi sollazzati dal suo essere tutt’ora banderuola di fine epoca, quella di una presunta stravagante libertà nel cinema, Michael Cimino si fa qui giustamente sfregio di un perfezionismo cronografico e documentario, facendosi strada con scarti temporali e ignorando volutamente quelli che altrove sarebbero assodati snodi narrativi (3), gentili vuoti di cui non s’avverte la portata, di cui il fruitore avvezzo sa riconoscere l’alterazione e ne intende la probabile secondarietà. Cimino è conscio che il fulcro monumentale del lavoro risiede nella sua ricostruzione scenografica abbagliante, impensabile in CGI (che sia la carneficina, battaglia ventosa e danzante, un campione eccellente), nel volgere compiutamente umano nei confronti dei suoi personaggi, non solo principali, e soprattutto nell’affezione che in essi si respira, nel panismo lievemente abbozzato, nell’introspezione mai didascalica che diventa protagonista in una sceneggiatura sagace, capace d’eludere lo scontato, anche all’interno di una vicenda tragico-sentimentale piuttosto classica. 

3) Già altrove evidenziata, in riferimento alla theatrical version: “a fianco di tali, felici intuizioni manca però il resto: i tagli a piene mani hanno inficiato la scorrevolezza del racconto, che presenta più di un passaggio oscuro, le intenzioni polemiche sono diluite dal prolungato soffermarsi su vicende collaterali, il film insomma manca di un respiro globale, che è invece requisito indispensabile per fare epica”, ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 91, 1981)

V’è un eroe, James Averill (Kris Kristofferson), crepuscolare e deluso com’erano i cowboy dei ’50, un amore ostacolato da un futuro di morte (con l’amante francese Ella, Isabelle Huppert), un contendente inafferrabile che lavora per i guerrafondai proprietari terrieri, Nate Champion (Christopher Walken), anch’egli destinato a un finale agghiacciante di perdita; ancor di più, v’è il soffio nostalgico del ricordo nitido e mai spentosi dell’avvocato, allora maresciallo, James, stipato nelle sue reminiscenze d’avorio, impossibilitato a guarire. Un personale fuoco prospettico ne fa narratore onnisciente, silenzioso, laddove il preambolo di gioventù ad Harvard suggella un passato proprio di ideali solo allora praticabili, intaccati. 
Ci sono gli sguardi sulla terra che Cimino coglie a passo fluido, nel perenne tentativo di superare una bidimensionalità che di scremabile ha solo il pittorico, mentre le geometrie e le accuratezze dei quadri si fanno austere ma sempre a sorprendere per elasticità, a giungere mai perentorie, inconsuete per la (simulata) spontaneità con le quali si avvolgono. Il lavoro sulla luce di Vilmos Zsigmond, negli impasti di rumore fotografico e nel chiarore indefesso che lo pervade, meriterebbe esamina altrove, insieme all’intervento di scanning digitale praticato in ottemperanza a una resa il più possibile vicina al colore dei negativi originali. Un animale peculiare e in sé un estratto dimostrativo di quanto il restauro possa realizzare. 
Quanto vi è di attuale in un lavoro che compie trentasei anni, di gestazione e tribolato processo, ma anche di numerosi apprezzamenti a ridosso (specialmente in Europa), è agli occhi di tutti, laddove Cimino, da grande narratore, ha pensato bene di estrarre le vicende umane dai loro attracchi storici, sollevandole da impietosi doveri d’obbedienza; lasciando, cioè, che fosse l’incrocio di pluralità universali, sempre valide, a sospingere una storia decadente che allora apriva veramente un’epoca, gli ’80, altrettanto nostalgici. 
Heaven's Gate svetta ora per la lucidità con la quale può guardare ai moti umani senza voler fungere da monito, o da valvola per scatenare l’iper-violenza; per la sua invidiabile semplicità e fermezza nel dipanare l’idea che “la gente povera non ha nulla da dire in questo paese”, allora come adesso; per il ritmo pacato, costante, pur nei guizzi, che è anzitutto un modello a cui guardare. Il suo essere estremamente, e prima d’ogni cosa, cinematografica, ciò che la rende una visione estatica e imprescindibile. 

Laura Delle Vedove

Sezioni di riferimento: Revival 60/70/80, Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Heaven's Gate
Anno: 1980
Durata: 219 min (versione originale), 149 min (versione tagliata), 216 min (director's cut)
Regia: Michael Cimino
Sceneggiatura: Michael Cimino
Fotografia: Vilmos Zsigmond
Musiche: David Mansfield
Attori: Kris Kristofferson, Christopher Walken, John Hurt, Brad Dourif, Isabelle Huppert, Joseph Cotten, Jeff Bridges

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L'ANNO DEL DRAGONE - Shame of a Nation

23/5/2015

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Il Sogno Americano, anziché incarnarsi in una verità fattuale e storica, che spesso ne ha mostrato i limiti e le deformazioni paradossali, ha trovato una possibilità espressiva pressoché illimitata nei mythoi cinematografici. Come scrive Deleuze: “[…] il cinema americano non ha smesso di girare e rigirare uno stesso film fondamentale, che era Nascita di una nazione-civilizzazione […], il fiorire della nazione americana. Negli americani, la rappresentazione organica non conosce evidentemente sviluppo dialettico, è essa stessa, da sola, la storia intera […]: essere un crogiolo in cui le minoranze si fondono, essere un fermento che forma capi capaci di reagire a tutte le situazioni”(1). Spesso, però, proprio il cinema americano ha messo anche in discussione le radici di tale mito fondativo, dissezionandolo, evidenziandone le contraddizioni insanabili e ribaltandone, sovente, gli esiti.

1) G. Deleuze, Cinema1 - L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, 5^ ed. 2002, pp. 174-175.

Il western classico, cioè il racconto epico, ha narrato, almeno fino agli anni ’50, l’epopea dei pionieri e della conquista del West, l’occupazione/civilizzazione di un territorio aspro e selvaggio ad opera di un popolo nascente, ma già ricco di intraprendenza e volontà, e dei suoi eroi. Già negli anni ’30 e ’40, prima col gangster poi col noir, si è venuto a delineare anche un controcanto tragico al mito della Frontiera, in cui i protagonisti sono degli antieroi: criminali perversi, ambiziosi avventurieri, duri e disincantati detective privati, dark ladies; il tutto sotto il segno ineluttabile del destino funesto e della fatalità. In quest’ultimo caso vi è un preciso elemento morale/moralistico, che riunifica sotto lo stesso orizzonte culturale e teorico queste diverse forme del racconto: l’elemento sanzionatorio. 
Mentre la comunità delineata nel western è la forma originaria di quella attuale (dell’armonico melting pot di culture, razze, religioni diverse, che tuttora costituisce il principio fondativo e portante del sogno americano), capace di esprimere e supportare gli eroi che la difenderanno dalle minacce interne ed esterne, quella delineata nel gangster e nel noir è il microcosmo marcio e malato, che tenta di intaccare l’integrità di tale comunità. Laddove il macrocosmo sano agisce sinergicamente in funzione dei bisogni collettivi, il microcosmo criminale è mosso da pulsioni individuali e private, spesso inconfessabili; di qui i tradimenti, i sotterfugi, gli inganni e l’inevitabile rovina dei suoi protagonisti: la sanzione, appunto. L’evoluzione del racconto filmico americano, la nascita e lo sviluppo di nuove forme narrative porteranno però a un rimescolamento e a una rielaborazione delle categorie espressive, morali e alle convenzioni di genere tradizionali (2), tali da minare alla base le coordinate di senso su cui si fonda l’American Dream. 

2) Si pensi, a tal proposito, solo a titolo d’esempio, ai western più maturi di Ford, alle originalissime declinazioni del genere operate da Anthony Mann, Monte Hellman, Arthur Penn, Sam Peckinpah, al cinema Off Hollywood o alla nascita del New Horror alla fine degli anni ’60 e per tutti i ’70. 

L’anno del dragone si inserisce pienamente in questo solco concettuale e, anziché costituire un mero ritorno in tono minore dell’epica di Michael Cimino – un’epica che, inevitabilmente, si riallaccia alla tradizione del grande racconto della nazione americana – dopo il fallimento commerciale de I cancelli del cielo (1980), ne delinea invece un’avvenuta maturazione ed evoluzione a livello sia tematico che narrativo. 
Il cacciatore (1978) evidenziava una concezione per molti versi ancora classica della società statunitense, in cui le varie comunità particolari – quella russa della cittadina di Clairton in Pennsylvania, nello specifico – potevano, nel contempo, sia mantenere i propri usi, costumi, tradizioni e rituali, sia aderire all’American Way of Life, credere nella bandiera a stelle e strisce e offrire i propri eroi per la guerra (del Vietnam, in questo contesto) contro i nemici esterni. Il tema portante era, in questo caso, l’incommensurabilità fra la dimensione vitale dell’esistenza quotidiana e quella da incubo del conflitto. Era inoltre presente una notevolissima riflessione sul tema dell’istituzionalizzazione della violenza (la caccia al cervo), nonché sulle sue derive e sulle sue implicazioni etiche (i modi dei diversi personaggi di rapportarsi alla preda e all’utilizzo delle armi). I cancelli del cielo esamina invece le origini, tutt’altro che pacifiche e civili, che hanno condotto alla nascita della nazione americana. Il film torna indietro di un secolo circa rispetto a Il cacciatore e racconta il massacro di una comunità di immigrati europei dell’Est nel Wyoming di fine ‘800, ad opera dei grandi latifondisti locali e col beneplacito del governo. Le radici del sogno americano, in questo caso, affogano nel sangue e di qui, probabilmente, nasce il clamoroso flop nelle sale del film stesso (3).

3) Il tracollo commerciale del film portò, come è noto, al fallimento della United Artists e ad un brusco stop della carriera di Cimino.

L’anno del dragone indaga invece le dinamiche che sembrerebbero consentire alla nazione americana di imbrigliare i molti elementi eterogenei e i particolarismi per giungere a incarnare il sogno dell’unità non solo politica, ma anche spirituale del paese, e ne trae la conclusione che alla base di tutto non c’è un sogno, ma un patto. Un patto criminale. A confrontarsi, nel film, sono la grande comunità cinese di Chinatown, a New York, e le istituzioni cittadine. L’impermeabilità e la chiusura di una cultura millenaria e unica come quella cinese a qualsivoglia tentativo di colonizzazione culturale e giuridica conduce a un apparente paradosso: per coesistere in pace, anziché ricorrere alla categoria moraleggiante dell’integrazione – ancor oggi abusata, senza riuscire a intravederne il portato imperialista e colonialista – è necessario mantenere invece le distanze, le differenze, le alterità. 
Il problema vero, però, non riguarda la micro-comunità cinese nel suo rapporto col tessuto cittadino, ma il tacito accordo di non ingerenza reciproca fra le autorità cittadine e quelle cinesi, rappresentate dai vecchi capifamiglia delle triadi, associazioni criminali di antichissima origine. La popolazione di Chinatown non segue il corso della vita e della giustizia statunitensi, ma è costretta (e, per certi versi, propensa) a mantenere il ritmo dei propri cicli temporali ed esistenziali. Questo significa anche, però, sottostare all’autorità dei propri capi e supportare, in molti casi, le loro attività delittuose, che vanno dal gioco d’azzardo al traffico della droga al riciclaggio di denaro, con gli effetti, tutt’altro che collaterali, del sopruso e dell’omicidio.
A rendere ancora più fosco un orizzonte già di suo scevro di polarità positive o possibilità di scelta alternative, provvedono in modo sostanziale i due antagonisti: lo sbirro bianco Stanley White (Mickey Rourke) e il potente boss cinese Joey Tai (John Lone). Entrambi si fanno portatori di istanze di rinnovamento, che, lungi dal condurre all’auspicato, ambizioso e personalissimo nuovo ordine, genereranno caos, violenza, distruzione.
Stanley è un reduce (ancora una volta) dal Vietnam, diventato poliziotto, a cui viene affidata la zona di Chinatown. Il suo compito di tutore dell’ordine costituito si trasforma ben presto in una crociata ottusa e personale contro il nemico “giallo” (cinese o vietnamita, per lui, non fa differenza). Il suo scopo diviene allora quello di rompere il patto perverso fra cinesi e occidentali per imporre la legge dello stato, di cui egli si autoproclama l’unico autentico detentore. Compito lodevole solo in apparenza, visto che, oltretutto, richiama alla mente, neanche tanto alla lontana, i molti tentativi passati e presenti di imposizione della pax americana in ogni angolo del globo. 
Joey è invece un sacerdote e un missionario del crimine, votato unicamente al raggiungimento della sommità della piramide del potere e determinato a eliminare uno ad uno tutti gli anziani capi, che si frappongono fra lui e i suoi scopi. Lo scontro fra i due risulta quindi inevitabile, in un crescendo di violenze e vendette reciproche, in cui gli avversari finiscono col mettere in gioco tutto ciò che hanno, sovrapponendosi specularmente e finendo con l’annullarsi a vicenda. La hýbris che pervade entrambi li condurrà a perdere di vista i loro obiettivi primari, per dedicarsi totalmente all’annullamento dell’avversario, muovendosi fianco a fianco verso la vicendevole distruzione. Un gioco di morte, in cui non potranno esservi vincitori. Joey perderà il proprio potere, la ricchezza e la vita, mentre Stanley perderà la propria personale battaglia con Chinatown e vedrà uccidere, davanti ai propri occhi, anche la moglie Connie (Caroline Kava) e il giovane cadetto infiltrato Herbert Wong (Dennis Dun), mentre l’amante Tracy Tzu (4) (Ariane Koizumi) verrà violentata dagli uomini di Joey. Il duello finale fra i due è una corsa verso l’annientamento reciproco, anche se a morire sarà solo Joey. 

4) Si noti che sia Herbert che Tracy sono, di fatto, degli apolidi, utilizzati da Stanley come leve per sollevare la coltre che ricopre il marciume di Chinatown. Due giovani cinesi che tentano di essere, a pieno titolo, cittadini americani, rimanendo però pur sempre altri, sia agli occhi degli americani bianchi che a quelli dei loro connazionali di Chinatown. 

La sequenza conclusiva, edulcorata dal produttore De Laurentiis, ma tutt’altro che consolatoria, a ben guardare, pur restituendo uno Stanley spossato e ferito, ma vivo, a braccetto con Tracy che lo consola, mentre si svolgono i funerali di Joey a Chinatown, ci riporta, circolarmente, a quella iniziale, dove un altro funerale ritmava ritualmente lo svolgersi calmo della quotidianità nella comunità cinese. Tutto sembra essere tornato al punto di partenza, il nastro pare essere stato riavvolto. Stanley viene esautorato dalla sua carica e tutto ritorna all’origine, ancorché a prezzo di lutti e rovina. Comunque fosse finita, a trionfare non sarebbero state (e, quindi, non saranno) la pace e la giustizia. Questa volta la circolarità della concezione orientale del tempo e della storia ha avuto la meglio sulla concezione lineare ed evolutiva occidentale. Ora tutto può ripresentarsi come è sempre stato e il pactum sceleris può essere rinnovato.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: Year of the Dragon
Anno: 1985
Durata: 129’
Regia: Michael Cimino
Sceneggiatura: Michael Cimino, Oliver Stone
Fotografia: Alex Thomson
Musiche: David Mansfield
Montaggio: Noëlle Boisson, Françoise Bonnot
Interpreti: Mickey Rourke, John Lone, Ariane Koizumi, Caroline Kava, Dennis Dun, Raymond J. Barry

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