ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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BEATRICE CENCI – Fulci e il germe della crudeltà

7/4/2021

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​​In un’epoca in cui i cinema sono chiusi e sbarrati da inetti governanti che trattano i luoghi della cultura come zerbini su cui pulirsi le scarpe, si può almeno approfittare dell’infame divieto di accesso alle sale per recuperare alcuni fasti del passato e riscoprire gemme i cui ricordi sono magari impolverati dal tempo.
In tal senso vale senz’altro la pena di riapprocciare un’opera seminale nel ricchissimo universo filmico del glorioso Lucio Fulci, autore di cui si è ormai detto e scritto un po’ tutto, ma i cui lavori ancora oggi non mancano mai di proporre motivi di interesse ed entusiasmo.

È risaputo come Fulci abbia ottenuto buona parte del successo che meritava soltanto dopo la sua dipartita. Perennemente deriso e osteggiato in vita da tanta critica italiana altolocata, riconosciuto per le sue abilità soltanto all’estero, è diventato poi protagonista di un culto esteso a livello universale, con tanti appassionati che conservano come preziose reliquie i molteplici lavori di altissimo livello realizzati dal regista romano lungo una cospicua ed eterogenea carriera.
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Il cosiddetto “terrorista dei generi” è spesso idolatrato soprattutto per i suoi gialli/thriller (il lisergico Una lucertola con la pelle di donna, lo strepitoso Non si sevizia un paperino, il sontuoso Sette note in nero, il violentissimo Lo squartatore di New York) e per i malsani horror (i lodevolissimi Zombi 2, Paura nella città dei morti viventi, L’aldilà, Quella villa accanto al cimitero), ma ha saputo scolpire nell’eternità anche altre tipologie di pellicole, non sempre riconosciute tra i capolavori eppure indispensabili nel corpus filmico fulciano. Il romantico e bellissimo western crepuscolare I quattro dell’apocalisse, ad esempio, oppure Beatrice Cenci, dramma storico in costume realizzato nel 1969 e simbolo spartiacque di quello che sarebbe poi diventato un lungo sentiero tra i miasmi della ferocia.

Già portato sul grande schermo in varie occasioni, partendo da Mario Caserini nel 1909 fino a Riccardo Freda nel 1956, in versioni più o meno edulcorate, il tragico destino della nobildonna, condannata a morte per parricidio e prima costretta, insieme ai suoi complici, a subire terribili torture al fine di estorcere la confessione, è riproposto da Fulci con uno sguardo completamente diverso rispetto ai predecessori. Pur tra i confini di una messinscena cinquecentesca elegante e ricercata, il regista dirige infatti ogni obiettivo verso gli aspetti più macabri e morbosi della vicenda.
Tra intrallazzi illegali, untuosità di corpi e anime, bestiali desideri carnali, stupri palesemente suggeriti, interessi materiali della chiesa e scene sanguinarie, Fulci immerge le mani nella corruzione quasi in ogni inquadratura. Non lo motiva l’assunzione di Beatrice a eroina innocente da parte del popolo, né lo esalta più di tanto l’amore assoluto per la donna provato dal servo Olimpio (un misurato Tomas Milian): ciò che lui desidera è centrifugare il racconto ed estrarne i lati oscuri e abietti. Per realizzare l’intento si serve di una narrazione che viaggia avanti e indietro nei fatti, ma soprattutto sfrutta al massimo le truci facce a sua disposizione, su tutte quella di un laido e demoniaco Georges Wilson (nel ruolo del padre/padrone), impressionante per animalesca fisicità.
Inoltre, Fulci mette in gioco un aspetto sovente sottovalutato del suo cinema: l’invidiabile qualità tecnica. Alcuni momenti, come la processione degli incappucciati nel momento in cui vanno in cella a prelevare Beatrice prima del conclusivo atto di (in)giustizia, lo scambio di sguardi/non sguardi nell’ultimo incontro tra lei e Olimpio, il dettaglio delle gocce di sudore che cadono dal volto di Francesco Cenci sulla pancia di Beatrice un attimo prima dell’ignobile abuso familiare, sono di altissima perizia. Lampi di accecante bravura, utili per dimostrare già allora come Fulci fosse prima di tutto un regista di clamorosa abilità.

Film spartiacque, si diceva. Rivedendolo adesso, e confrontandolo con il seguito dell’opera fulciana, si ha la netta impressione che in Beatrice Cenci l’autore abbia iniziato a piantare i semi di quella poetica che sarebbe compiutamente deflagrata nei vent’anni successivi. Qui si aprono i prodromi del cinema della crudeltà, della spasmodica ricerca dell’estremo, dello shock. Elementi necessari per modellare il senso e la forma virulenta a cui Fulci aveva evidentemente bisogno di dedicarsi, al fine di esorcizzare i propri fantasmi interiori e al contempo sfidare convenzioni, ingerenze e incomprensioni.
Torture con ruote, corde e ferri roventi; spalle spezzate, petti bruciati; uomini sbranati da cani, chiodi conficcati negli occhi: Fulci sparge indizi del futuro che sarà e inizia a comprendere dove realmente dirigere il suo cinema. Non soltanto con scene sadiche e truculente, bensì con un impianto generale che devia da ogni deriva consolatoria per schiaffeggiare lo spettatore con il ritratto spietato dell’umana abiezione.
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Non è un caso che Beatrice Cenci (conosciuto anche come The Conspiracy of Torture) fosse particolarmente amato dallo stesso Fulci. Non è nemmeno un caso che al botteghino sia stato un flop, tanto da essere schernito sin dalle prime proiezioni e definito dal regista un film maledetto. E ancora, non crediamo accidentale che la poco espressiva protagonista Adrienne La Russa, imposta dalla produzione e detestata dal regista, appaia in scena, a montaggio ultimato, con minutaggio inferiore rispetto a quanto forse ci si aspetterebbe. Sono tutte parti uguali e contrarie dell’universo di un uomo ribelle e sfrontato, iconoclasta e ostinato, venerato e rigettato.
A noi, comunque, resta la brillantezza e la forza di un lavoro che convince e colpisce (evitando la versione distribuita in America, tagliata di diversi minuti), di cui godere singolarmente o da utilizzare come succulento punto di avvio per una corposa retrospettiva privata insaporita da tanti ottimi titoli diretti dall’autore che sapeva attraversare il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile.

Alessio Gradogna
 
Sezione di riferimento: Revival

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Scheda tecnica
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Anno: 1969
Durata: 90’
Regia: Lucio Fulci
Sceneggiatura: Roberto Gianviti, Lucio Fulci
Fotografia: Erico Menczer
Montaggio: Antonietta Zita
Musiche: Angelo Francesco Lavagnino, Silvano Spadaccino
Attori: Adrienne La Russa, Tomas Milian, Georges Wilson, Mavie Bardanzellu, Antonio Casagrande

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A BRUCIAPELO (The Sadist) - Nelle mani del sadico

13/12/2016

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​Charles Raymond Starkweather, serial killer americano nato nel 1938, uccise 11 persone tra la notte del 30 novembre 1957 e il gennaio del 1958. Quasi tutti gli omicidi ebbero come complice la giovanissima Caril Ann Fugate, quattordicenne ai tempi dei fatti. All'apice della sua furia Starkweather venne arrestato e successivamente condannato a morte. L'esecuzione avvenne nel giugno del 1959, sulla sedia elettrica.

La figura di Starkweather, uno dei più spietati e crudeli assassini della recente storia americana, è stata studiata e portata sul grande schermo da numerosi autori di culto; a lui si è ad esempio ispirato Terrence Malick per Badlands (La rabbia giovane) e lo stesso ha fatto Oliver Stone per Natural Born Killers (su soggetto peraltro scritto da Tarantino). Oltre al cinema, anche la letteratura ne ha in qualche modo riesumato le macabre gesta; Stephen King per un certo periodo ha collezionato ritagli di giornale in cui si narravano gli omicidi del ragazzo, e ha finito per modellare su di lui un personaggio (The Kid) presente nel meraviglioso romanzo The Stand (L'ombra dello scorpione).

Il primo film a prendere in considerazione la storia di Starkweather è stato il relativamente poco conosciuto The Sadist (A bruciapelo), realizzato nel 1963, diretto da James Landis, uscito per breve tempo nei cinema italiani e poi sparito dalla circolazione senza mai essere editato né in Vhs né in Dvd. Almeno fino a oggi. La creatura di Landis torna infatti a vivere grazie alla Opium Visions, giunta al suo quarto volume. La lodevole collana editoriale curata da Simone Starace e Matteo Biacca, dopo i turbamenti torbidi di L'étreinte (Maliziosamente) e i disturbanti Donald Neilson – La iena di Londra e Heartbreak Motel, aggiunge un altro tassello all'ammirabile percorso di recupero di opere dimenticate, dedicandosi a un lavoro che non lesina spunti d'interesse.

The Sadist torna dunque sul mercato, con un'ottima resa video ricavata da uno scan 2K del positivo superstite, offrendo la chance di poter riguardare il film in versione integrale sia con il doppiaggio d'epoca sia in versione originale sottotitolata (opzione comunque sempre consigliata). L'accurato impegno speso per ridare dignità a un'opera troppo presto caduta nell'oblio ci permette di immergerci in 90 minuti ansiogeni e abbastanza compatti, durante i quali assaggiamo la malvagità di cui Starkweather è stato reale protagonista. 
La trama, di per sé, risulta assai esile: tre insegnati, due uomini e una donna, si stanno recando a una partita di baseball; a causa di un guasto alla loro macchina, sono costretti a fermarsi in una stazione di servizio situata in mezzo al nulla e all'apparenza deserta; all'improvviso si trovano ostaggi di un ragazzo armato di pistola e della sua giovane fidanzata; subiranno umiliazioni di ogni tipo e dovranno lottare per sopravvivere. 
Il film di Landis, autore la cui carriera si svilupperà poi soprattutto in televisione, assomma 5 soli attori e rispetta le unità di tempo, luogo e azione. In particolare è interessante notare come i 90 minuti del film corrispondano con (quasi) totale precisione ai 90 minuti di effettivo svolgimento della vicenda. In un'atmosfera sulfurea, avvilente, nella quale i personaggi paiono come miniature al cospetto degli ampi spazi aperti di cui sono circondati, si attua un caldo ed estenuante percorso minato, durante il quale accadono pochi fatti concreti ma si respira un'atmosfera piuttosto malsana, calibrata tra sporcizia, sode, serpenti, chewing gum masticati rigorosamente a bocca aperta e carnefici che non hanno paura di niente e nessuno. Il tutto con il decisivo contributo apportato dal direttore della fotografia, quel Vilmos Zsigmond che lavorerà poi a più riprese con autori del calibro di Spielberg, Altman, Cimino e De Palma. 
Muovendosi per gran parte del film su spazi di manovra molto ristretti, i tre ostaggi “sfidano” i due aguzzini in un duello teso sul filo tra la salvezza e la morte. Tra i protagonisti, merita senz'altro una citazione particolare colui che interpreta il killer, ovvero Arch Hall Jr., attore/musicista che dopo una carriera non esaltante in entrambi gli ambiti finì per diventare pilota d'aviazione. Qui, però, la sua smodata recitazione sopra le righe sa essere efficace e riesce a restare incollata alla memoria. 
Va detto che il film non è esente da pecche: sebbene la tensione si mantenga mediamente alta, non mancano alcuni momenti di stanca; la parte finale presenta inoltre situazioni spesso forzate e poco credibili. Nonostante questo, va dato ampio credito alla Opium per aver riportato alla luce un buon esempio di quell'America grezza, sadica e psicotica che tanto orrore ha (purtroppo) generato nella realtà, ma che tanto orrore ha saputo (per fortuna) anche reinventare con ottimi esiti nella finzione cinematografica. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: The Sadist
Regia e sceneggiatura: James Landis
Attori: Arch Hall, Jr., Richard Alden, Marilyn Manning, Don Russell, Helen Hovey
Fotografia: William Zsigmond
Montaggio: Anthony M. Lanza
Anno: 1963
Durata: 95'

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MALIZIOSAMENTE (L'étreinte) - Il lato oscuro della passione

16/5/2016

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Gisèle (Nathalie Vernier), rimasta orfana, viene abbandonata anche dalla zia, che la allontana da casa a causa della sua avvenente bellezza che sembra attirare le attenzioni del marito. Le trova lavoro e da Zepperen, piccolo paese della provincia belga, la ragazza si trasferisce a Parigi, dove inizia a prestare servizio presso la casa di un giovane dandy, Michel (Daniel Vigo), ricco, eccentrico e viziato, che la ospita dandole anche vitto e alloggio in cambio del suo lavoro di cameriera.
​Il ragazzo, alla ricerca di una governante che incarnasse più una figura materna e che si occupasse dei suoi bisogni e di quelli della casa, si ritrova invece davanti una fanciulla di giovane età, di evidente luminosa e delicata bellezza, e timida di carattere. Ne è subito affascinato, ben presto scopre che la ragazza è ingenua e ignorante in materia sentimentale/amorosa, e inizia a vedere in lei qualcosa di più di una semplice domestica. 
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L'uomo, le cui abitudini sessuali ne riflettono il modo caotico, disordinato e irresponsabile di vivere, è appassionato del romanzo erotico Histoire d'O, di sottogenere BDSM, celebre scritto del 1954 pubblicato dall'autrice francese Dominique Aury, sotto lo pseudonimo di “Pauline Réage”. Ribattezza Gisèle “O”, come la protagonista del libro, riconoscendo in lei il potenziale di una “creatura da plasmare”, ovvero la chance per trasformare le sue fantasie in realtà. Una notte la sottopone a una sadica e brutale iniziazione per dare il via al concretizzarsi dei suoi intenti. Chiusa nell'atmosfera sontuosa e un po' cupa della casa, da questo momento la vicenda assomma varie situazioni in cui “O” cede e dà il consenso, vittima delle sue stesse passioni, al quasi totale annullamento della sua stessa volontà, accettando Michel come assoluto padrone, pur con un certo conflitto interiore. 
Più i nodi intorno alla libertà della sua persona vengono stretti dalla morsa dell'uomo, più la ragazza sente il bisogno di sciogliere quelli invisibili e interni al proprio Io, che le rendono un senso di confuso soffocamento e la riducono persa e brancolante nel buio dell'inconsapevolezza di un sé ancora in divenire. A un certo punto Michel le concede la possibilità di scegliere: allontanarsi o rimanere. Nonostante l'orizzonte di libertà, e forse anche a causa della mancanza di una capacità ad auto-definirsi in altro modo, Gisèle decide di restare, addentrandosi ancora di più in un atteggiamento promiscuo in cui coinvolgerà anche lo zio, recatosi presso il luogo della “scandalosa” convivenza con l'iniziale intento di dissuadere la nipote dal continuarla, e di riportarla a vivere con lui e la consorte. 
L'elaborazione interiore dell'emancipazione della protagonista, che dal ruolo di “O” mano a mano si affranca sempre più, fino a (ri)scoprirsi e a riappropriarsi della sua vera identità di Gisèle, avviene anche grazie (e soprattutto) al ruolo di Leni (Laetitia Sorel), amica di Michel, rimasta sola in casa con la ragazza dopo la partenza dell'uomo per un viaggio d'affari. La donna, da semplice complice e compagna con cui condividere dispiaceri e divertimenti, diventa una figura chiave che le dona, su vari livelli, gli strumenti per comprendere la situazione, per poi diventare anche sua amante.
​In primis le fa leggere il romanzo Histoire d'O, permettendole di rivedere tutto sotto una nuova luce a livello psicologico. In un secondo momento le regala un cucciolo di boxer, Samba, un gesto che può essere letto sia come suggello della rinascita interiore, sia come simbolica liberazione della sfera emotiva e del suo naturale bisogno epimeletico, anche auto-riferito. Nel momento in cui Michel mostra il proprio rifiuto verso il cane, infatti, è come se egli rifiutasse le emozioni stesse di Gisèle, che apre gli occhi definitivamente, non sentendosi più coinvolta dall'uomo in nessun modo. 
La narrazione può essere ripercorsa quindi come una sorta di Bildungsroman in cui si sviluppano le avventure interiori della ragazza, fino a giungere a una maturazione psicologica personale e ad una presa di coscienza, di consapevolezza e quindi, inevitabilmente, di posizione. In ultimo, infatti, la protagonista scoprirà per la prima volta il valore e il sapore, inestimabile e ineguagliabile, della libertà individuale.

Al di là di un'interpretazione in chiave libertaria femminista, che sicuramente salta all'occhio vista anche la collocazione temporale dell'opera, girata a fine anni '60, si può anche andare a decifrare, penetrando a un livello più sottile ma profondo del lavoro, una riflessione sull'animo umano e sulla sua insondabilità. Il titolo originale, L'étreinte, allude a un abbraccio, a un amplesso, a una stretta che non è solo fisica ma anche mentale e psicologica, nella quale si fa risucchiare Gisèle prima volontariamente, poi trascinata dalla passione e dal coinvolgimento emotivo.
​Astenendosi da facili giudizi sulle pratiche erotiche BDSM, entrambi i personaggi principali posseggono dentro di sé il doppio lato, chiaro e scuro, di una stessa medaglia. Entrambi sono animati e guidati da pulsioni, istinti, intenti in fondo uguali, diversi solo nell'esternazione della motivazione psicologica che li muove. Non si può inoltre affermare in modo assoluto che esistano una vittima e un carnefice, ma piuttosto un'intercambiabilità di ruoli in precedenza definiti, da entrambe le parti.
Anche se parzialmente il protagonista maschile viene mostrato come ”oppressore”, perché avrebbe voluto portare avanti la situazione a suo vantaggio in modo temporalmente indefinito (ma in realtà poi offre a lei possibilità di scelta), non si può scordare che il naturale presupposto delle pratiche BDSM, e in questo caso in modo particolare sadomasochiste, è sempre e solo l'essere consenziente delle due parti. Non a caso, al termine del processo psicologico di maturazione, quando Gisèle fa venir meno le condizioni, la vena della passione si esaurisce. In questo senso entrambi i personaggi portano dentro di sé i principi di luce/buio, bene/male, amore/odio, morte/rinascita.
Seguendo la chiave di lettura, con tono simbolistico e psicologico, si può fare un parallelismo tra lo svolgimento delle riprese, effettuate sempre all'interno della casa, come se raffigurassero il microcosmo ovattato e interno delle percezioni, evoluzioni ed elaborazioni interiori che portano a un'introspezione dell'animo umano, e il mondo esterno, macrocosmo che si intravede solo in pochissime scene. 

Il film, uscito all'epoca in Italia con molti tagli, è finalmente per la prima volta disponibile in Dvd in versione integrale, con master restaurato, grazie all'ottimo lavoro compiuto dalla Penny Video, che ha creato un'interessante collana, la neonata Opium Visions, dedicata ai cult movies degli anni 60/70, a cura di Matteo Biacca e Simone Starace. Una lodevole iniziativa, a cui offrire pieno sostegno, che renderà omaggio soprattutto a quei filoni dell'exploitation ignorati o malamente manipolati dalla distribuzione nostrana, con particolare attenzione verso il cinema italiano dimenticato e invisibile.

Amanda Crevola

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: L'étreinte
Regia e sceneggiatura: Paul Collet e Pierre Drouot
Interpreti principali: Nathalie Vernier, Daniel Vigot, Laetitia Sorel, Brigitte Kowaltchuck 
Fotografia: Guido Collet
Montaggio: Jean-Claude Serny
Musiche: Rogers Mores
Anno:1969
Durata: 104'

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L'ARMÉE DES OMBRES (L’ARMATA DEGLI EROI) - Le ombre del passato

3/9/2015

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“Tristi ricordi, siate comunque i benvenuti… voi siete la mia lontana giovinezza”. 
Il carton prégénérique con cui si apre L’armée des ombres (1) – elemento significante che ricorre più volte nella filmografia melvilliana – precisa, da subito, che si è in presenza di un’opera personale, venata di malinconia e di frammenti di memoria. Le componenti storiche, cronachistiche, belliche, politiche vengono lasciate sullo sfondo, o addirittura dimenticate, per fare spazio a un doloroso racconto intimista, nel quale i protagonisti non sono epici eroi – il titolo italiano, oltre che fuorviante, è anche ridicolmente fuori asse rispetto agli intenti del regista – bensì semplici uomini costretti alla lotta e soli di fronte all’incombere del Fato, che nello specifico è rappresentato dalla dominazione nazista in Francia durante la seconda guerra mondiale.
Al conflitto il regista transalpino prese parte per davvero, dapprima come militare regolare e col suo nome originario, Jean-Pierre Grumbach, poi come partigiano, ed è in quest’ultima veste che assume il nom de guerre di Melville (in onore dello scrittore americano Herman Melville), che porterà con sé per il resto della carriera e della vita. Più di vent’anni dopo, nel 1969, egli “ritorna” idealmente – solo come tramite il cinema è concesso – a quel periodo della giovinezza così intenso e doloroso (2).

1) Ispirato all’omonimo romanzo di Joseph Kessel, scritto nel 1943.
2) Un’immersione filmica nell’epoca della seconda guerra mondiale Melville la compie già nel 1961, con Leon Morin, prêtre, un’opera intensa, ma distante per molti versi rispetto a quelle successive, che lo avrebbero consacrato come maestro del polar. Del resto, anche in questo lavoro del ’61 di guerra non ce n’è molta, ma risalta la solitudine dei personaggi, com’è consueto nel suo cinema, accanto alle schermaglie esistenziali, in questo caso con risvolti sentimentali, filosofici e religiosi. 

L’armée des ombres, fin dall’inizio, è scandito da un senso amaro di sconfitta e desolazione: il film si apre con la marcia orgogliosa di un plotone di soldati della Wehrmacht nei pressi dell’Arco di Trionfo a Parigi. Siamo nel 1942 e la guerra sarà ancora lunga per la Francia, così come per il resto del mondo. Per tutta la sua durata, la pellicola non lascia mai presagire la possibilità di un riscatto o di una rivincita per i protagonisti né, in senso più esteso, per il popolo francese, tanto da rendere viva l’impressione che la guerra sia già terminata e che a vincerla siano stati i tedeschi.
L’incombere di un orizzonte definitivamente senza speranza né redenzione avvicina L’armée des ombres ai lavori più cupi e intensi del regista, assieme a molti altri elementi che lasciano intravedere una strettissima prossimità o, meglio, una vera e propria corrispondenza, fra questo fosco dramma bellico e i suoi precedenti noir/polar. La sequenza successiva introduce il personaggio di Philippe Gerbier (Lino Ventura), che, ammanettato all’interno di un cellulare della polizia e con un flic di guardia, viene scortato in un campo di prigionia. Non vi sono segni visuali pertinenti che rimandino alla situazione storica né al contesto specifico: una faccia nota del cinema nero francese siede di fronte a uno sbirro in divisa e tutto sembra ancorato alle dinamiche dei film melvilliani di “guardie e ladri”, come li definiva autoironicamente il regista. Solo in seguito, al momento dell’arrivo al campo, si chiarisce l’identità di Gerbier e il suo appartenere alla Resistenza anti-nazista.

In effetti, molti sono i tratti che L’armée des ombres ha in comune con film come Bob le flambeur, Le doulos, Le deuxième souffle, Le samouraï, nei quali Melville condusse il genere di cui fu maestro a livelli di eccellenza assoluta. Le vicende che vedono protagonisti Gerbier, il grande capo della Resistenza Luc Jardie (Paul Meurisse), il fratello di questi Jean-François Jardie (Jean-Pierre Cassel), Félix Lepercq (Paul Crauchet) e Mathilde (Simone Signoret) appaiono un labirinto senza via d’uscita. Ogni azione risulta titanica e impotente nello stesso tempo, in quanto pre-indirizzata dall’incombere del Fato, che viene però sfidato, nonostante l’imminenza della catastrofe e la chiarezza della sua ineluttabilità. Ulteriore elemento di contiguità con il genere d’elezione di Melville risulta dal conflitto fra il sottomondo dei partigiani e quello istituzionale dei nazisti, un conflitto che riecheggia quello ormai classico fra gangster e sbirri, con in più quel senso di tragedia diffusa, che non riguarda solo il milieu, bensì l’intera nazione. È a partire da questi elementi che si innesca lo sviluppo dell’intreccio, l’incalzare degli eventi, il procedere inesorabile della rovina.
L’orizzonte che si viene a delineare risulta perciò ancorato alle dinamiche dello scontro fra due mondi agli antipodi, che risultano vieppiù distanti (a differenza dei film precedenti, nei quali gli antagonisti, cioè i flic, presentavano a tratti una loro dignità sia di ruolo, all’interno del racconto, sia nello spessore umano mostrato), perché la demarcazione fra Bene e Male qui è netta, non sfumata: i nazisti non sono l’altra faccia della stessa medaglia, ma appartengono a una dimensione esistenziale sideralmente distante da quella degli esseri umani che opprimono; non giocano come opponenti nel medesimo campo da gioco, ma disputano una partita a sé, nella quale l’unica regola è quella del sopruso e della sopraffazione.
Di fatto, però, a Melville non interessa la dimensione emersa dei dominatori tedeschi, la loro psicologia, le loro motivazioni o aberrazioni – il tutto rimane perlopiù incombente dal fuoricampo o, tutt’al più, dallo sfondo – bensì quella sommersa dei maquisard, un microcosmo di silenzi, sguardi, rinunce, di poche regole ferree e mortali, di lealtà, oblio della propria individualità e sacrificio di sé. I partigiani di Melville sono dei guerrieri solitari e senza nome, dei ronin, più che dei samurai, il cui unico punto di riferimento è la lotta per la sopravvivenza del proprio gruppo, più che di se stessi, e (di quel che resta) della propria nazione (3). La Resistenza diviene mera esistenza di esseri umani vuotati della propria scintilla vitale, privati della propria libertà di azione e di pensiero, costretti a dimenticare il passato, essendo gettati nella misera condizione di un presente perpetuo e senza sbocchi, di un vivere alla giornata senza nemmeno sapere se sarà loro concesso di terminarla.

3) In realtà un punto di riferimento fermo, anche se appena sfiorato, è rappresentato dalla figura di de Gaulle, presente in una breve sequenza. E certamente il gruppo di partigiani attorno ai quali il racconto si sviluppa è composto di gollisti, anche se, come detto, l’aspetto politico è pressoché assente, in quanto interessa poco o nulla al regista. Nonostante questo, all’uscita del film, molte delle critiche negative che gli piovvero addosso nacquero proprio dall’accenno a de Gaulle; geremiadi puramente ideologiche.

Tale ristrettezza di possibilità, ennesima eco accorata dei racconti del milieu, fissa i personaggi, una volta di più nella filmografia melvilliana, nei loro ruoli e funzioni rispetto all’ambiente in cui sono forzati a operare, senza per questo far loro perdere un briciolo di spessore e umanità. Non sono quindi i personaggi ad attenersi ai ruoli (individuali, sociali, storici, culturali) che gli competono o che essi possono permettersi di scegliere – anche perché nessuna scelta è possibile là dove regna il Fato – bensì sono i loro ruoli/funzioni nel microcosmo in cui agiscono a collocarli come esseri umani, ad attribuire loro una posizione nella dinamica del racconto. In altre parole, il personaggio incarna un ruolo pre-destinato, vivificandolo però dall’interno, umanizzandolo, conferendogli una psicologia, un umore, ma sempre nel rispetto della coerenza esistenziale del ruolo stesso. La dignità e la grandezza del cinema di Melville, in fondo, sono tutte qui, nella capacità di evocare i sentimenti, gli stati d’animo, i conflitti interiori attraverso la semplicità e l’eloquenza dello stile, che solo i migliori possiedono.
Ecco, allora, che Gerbier e Lepercq dovranno giustiziare un giovane traditore (interpretato da un giovanissimo Alain Libolt) – in una delle sequenze più memorabili e terribili del film – col viso dolce di chi ha appena superato l’innocenza della fanciullezza, ma anche terrorizzato dalla morte imminente: il ruolo imporrà loro di eseguire la consegna senza remore, ma saranno i volti, gli sguardi, i silenzi, le posture a individuare la pena latente, a rendere il loro spessore di personaggi e di esseri umani. Allo stesso modo, quando verrà il momento di eliminare la leale e fiera compagna di lotta, Mathilde – un personaggio femminile tanto memorabile quanto raro nella filmografia di Jean-Pierre Melville – in quanto scoperta e ricattata dalle SS, per via della giovane figlia anch’ella in mano ai nazisti, nessuno esiterà nello svolgimento dell’infelice compito.
Mathilde per prima sa cosa l’attende e quando, per strada, vedrà avvicinarsi la macchina coi compagni d’un tempo pronti a ucciderla, non fuggirà. Solo lo sgomento e l’umana paura, per l’approssimarsi di un momento degno d’una tragedia d’altri tempi, segnano lo sguardo intenso della Signoret, uno sguardo che simboleggia tutta la poetica di Melville: in un mondo senza Grazia e speranza, in cui tutti gli esseri umani, fin dalla nascita, sono segnati dal loro essere-per-la-morte, da un destino irreversibilmente votato alla sconfitta, si può soltanto provare a (soprav)vivere, pur sapendolo impossibile. Quindi, una volta consapevoli di tale impossibilità, non rimane altro che correre incontro alla propria fine, senza sorriderle e senza esserne atterriti, ma semplicemente, come degli uomini.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: L'armée des ombres
Anno: 1969
Durata: 139’
Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre Melville
Soggetto: Joseph Kessel
Fotografia: Pierre Lhomme
Montaggio: Françoise Bonnot
Musiche: Éric Demarsan
Attori: Lino Ventura, Simone Signoret, Paul Meurisse, Jean-Pierre Cassel

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...E LA TERRA PRESE FUOCO - Timori d'Apocalisse

21/5/2015

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Gli anni Cinquanta per il cinema britannico di fantascienza sono un periodo qualitativamente altalenante ma fertile. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il riassetto europeo e l'inizio delle sperimentazioni atomiche, molti registi e sceneggiatori hanno intriso le loro visioni cinematografiche di immagini pregne di preoccupazione, soprattutto riguardo la situazione della loro patria. Il rovesciamento degli equilibri politici – ormai contesi in maniera esclusiva da Stati Uniti d'America e Unione Sovietica – fanno infatti temere una posizione di secondo piano della Gran Bretagna negli eventi e nelle decisioni che avrebbero successivamente influito sugli anni a venire. 
Proprio dai timori correlati ai test atomici (nel 1952 avvengono le prime sperimentazioni inglesi) prende vita la sceneggiatura di ...e la Terra prese fuoco del regista Val Guest (L'astronave atomica del dottor Quatermass, I vampiri dello spazio, Espresso Bongo), che sebbene scritta nel 1954 vede la sua realizzazione solamente nel 1961. Guest ipotizza che gli esperimenti nucleari portati avanti da sovietici e americani possano spostare il pianeta dal suo asse, causandone l'avvicinamento al sole.
Peter Stenning, giornalista del Daily Express, assieme al proprio collaboratore Bill Maguire, scopre che a causare la recente ondata di calore che ha investito Londra e la Gran Bretagna sono state le esplosioni atomiche avvenute durante i test scientifici perpetrati da Stati Uniti e Unione Sovietica. Per accertare la verità, Peter cerca di sottrarre informazioni all'Ufficio Meteorologico, dove incontra la bellissima Jeannie, che diventerà la sua amante. 
Val Guest decide di allontanarsi dai cosiddetti Bem movie (Bug-Eyed Monster), quei film in cui le radiazioni atomiche danno vita ad orribili mostri in procinto di distruggere intere città, in favore di un'opera matura in grado di riflettere sui timori derivanti da una possibile apocalisse nucleare. Per raggiungere il suo scopo, il regista decide infatti di azzerare praticamente ogni aspetto spettacolare per concentrarsi su una cronaca giornalistica sulla quale si innestano risvolti sentimentali.
...e la Terra prese fuoco può essere considerato un film di confine tra generi in cui la codificazione marcatamente fantascientifica fa da sfondo ad una vicenda che richiama gli schemi del mélo. La storia d'amore tra Peter e Jeannie è importante quanto il pericolo della fine del mondo. Questo rischio non è però vissuto con disperazione ma con impegno giornalistico. È la stesura degli articoli da parte della redazione del Daily Express a scandire la vicenda, non la paura o il caos che dilagano per le strade di Londra.
Ciò che rende il film di Val Guest tutt'oggi validissimo è certamente la sua cifra stilistica, ma anche e soprattutto quella storica. Siamo di fronte a un lucido e chiaro esempio dei timori di una nazione intera, la Gran Bretagna, che non è più in grado di competere con le nuove superpotenze internazionali capaci di causare addirittura la modificazione dell'intero clima terrestre. 
Tra Battersea Park, Fleet Street e Trafalgar Square, ...e la Terra prese fuoco corre verso una fine annunciata. Solo il rigore giornalistico e un amore che merita di essere vissuto nonostante i giorni contati fanno da contrappunto ad un pessimismo spesso latente che rimane recluso tra le righe della sceneggiatura. Il film di Val Guest ha saputo, con grande valore, collocarsi tra i risultati più interessanti del genere fantascientifico – vero e proprio fanta-mélo – britannico e internazionale nonostante la reticenza del regista a generare immagine seducenti e spettacolari. 

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Revival 60/70/80


Scheda tecnica

Titolo originale: The Day the Earth Caught Fire
Anno: 1961
Regia: Val Guest 
Sceneggiatura: Val Guest, Wolf Mankowitz
Fotografia: Harry Waxman
Musiche: Stanley Black 
Durata: 98’
Attori principali: Edward Judd, Janet Munro, Leo McKern

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