In tal senso vale senz’altro la pena di riapprocciare un’opera seminale nel ricchissimo universo filmico del glorioso Lucio Fulci, autore di cui si è ormai detto e scritto un po’ tutto, ma i cui lavori ancora oggi non mancano mai di proporre motivi di interesse ed entusiasmo.
È risaputo come Fulci abbia ottenuto buona parte del successo che meritava soltanto dopo la sua dipartita. Perennemente deriso e osteggiato in vita da tanta critica italiana altolocata, riconosciuto per le sue abilità soltanto all’estero, è diventato poi protagonista di un culto esteso a livello universale, con tanti appassionati che conservano come preziose reliquie i molteplici lavori di altissimo livello realizzati dal regista romano lungo una cospicua ed eterogenea carriera.
Il cosiddetto “terrorista dei generi” è spesso idolatrato soprattutto per i suoi gialli/thriller (il lisergico Una lucertola con la pelle di donna, lo strepitoso Non si sevizia un paperino, il sontuoso Sette note in nero, il violentissimo Lo squartatore di New York) e per i malsani horror (i lodevolissimi Zombi 2, Paura nella città dei morti viventi, L’aldilà, Quella villa accanto al cimitero), ma ha saputo scolpire nell’eternità anche altre tipologie di pellicole, non sempre riconosciute tra i capolavori eppure indispensabili nel corpus filmico fulciano. Il romantico e bellissimo western crepuscolare I quattro dell’apocalisse, ad esempio, oppure Beatrice Cenci, dramma storico in costume realizzato nel 1969 e simbolo spartiacque di quello che sarebbe poi diventato un lungo sentiero tra i miasmi della ferocia.
Già portato sul grande schermo in varie occasioni, partendo da Mario Caserini nel 1909 fino a Riccardo Freda nel 1956, in versioni più o meno edulcorate, il tragico destino della nobildonna, condannata a morte per parricidio e prima costretta, insieme ai suoi complici, a subire terribili torture al fine di estorcere la confessione, è riproposto da Fulci con uno sguardo completamente diverso rispetto ai predecessori. Pur tra i confini di una messinscena cinquecentesca elegante e ricercata, il regista dirige infatti ogni obiettivo verso gli aspetti più macabri e morbosi della vicenda.
Tra intrallazzi illegali, untuosità di corpi e anime, bestiali desideri carnali, stupri palesemente suggeriti, interessi materiali della chiesa e scene sanguinarie, Fulci immerge le mani nella corruzione quasi in ogni inquadratura. Non lo motiva l’assunzione di Beatrice a eroina innocente da parte del popolo, né lo esalta più di tanto l’amore assoluto per la donna provato dal servo Olimpio (un misurato Tomas Milian): ciò che lui desidera è centrifugare il racconto ed estrarne i lati oscuri e abietti. Per realizzare l’intento si serve di una narrazione che viaggia avanti e indietro nei fatti, ma soprattutto sfrutta al massimo le truci facce a sua disposizione, su tutte quella di un laido e demoniaco Georges Wilson (nel ruolo del padre/padrone), impressionante per animalesca fisicità.
Inoltre, Fulci mette in gioco un aspetto sovente sottovalutato del suo cinema: l’invidiabile qualità tecnica. Alcuni momenti, come la processione degli incappucciati nel momento in cui vanno in cella a prelevare Beatrice prima del conclusivo atto di (in)giustizia, lo scambio di sguardi/non sguardi nell’ultimo incontro tra lei e Olimpio, il dettaglio delle gocce di sudore che cadono dal volto di Francesco Cenci sulla pancia di Beatrice un attimo prima dell’ignobile abuso familiare, sono di altissima perizia. Lampi di accecante bravura, utili per dimostrare già allora come Fulci fosse prima di tutto un regista di clamorosa abilità.
Film spartiacque, si diceva. Rivedendolo adesso, e confrontandolo con il seguito dell’opera fulciana, si ha la netta impressione che in Beatrice Cenci l’autore abbia iniziato a piantare i semi di quella poetica che sarebbe compiutamente deflagrata nei vent’anni successivi. Qui si aprono i prodromi del cinema della crudeltà, della spasmodica ricerca dell’estremo, dello shock. Elementi necessari per modellare il senso e la forma virulenta a cui Fulci aveva evidentemente bisogno di dedicarsi, al fine di esorcizzare i propri fantasmi interiori e al contempo sfidare convenzioni, ingerenze e incomprensioni.
Torture con ruote, corde e ferri roventi; spalle spezzate, petti bruciati; uomini sbranati da cani, chiodi conficcati negli occhi: Fulci sparge indizi del futuro che sarà e inizia a comprendere dove realmente dirigere il suo cinema. Non soltanto con scene sadiche e truculente, bensì con un impianto generale che devia da ogni deriva consolatoria per schiaffeggiare lo spettatore con il ritratto spietato dell’umana abiezione.
Non è un caso che Beatrice Cenci (conosciuto anche come The Conspiracy of Torture) fosse particolarmente amato dallo stesso Fulci. Non è nemmeno un caso che al botteghino sia stato un flop, tanto da essere schernito sin dalle prime proiezioni e definito dal regista un film maledetto. E ancora, non crediamo accidentale che la poco espressiva protagonista Adrienne La Russa, imposta dalla produzione e detestata dal regista, appaia in scena, a montaggio ultimato, con minutaggio inferiore rispetto a quanto forse ci si aspetterebbe. Sono tutte parti uguali e contrarie dell’universo di un uomo ribelle e sfrontato, iconoclasta e ostinato, venerato e rigettato.
A noi, comunque, resta la brillantezza e la forza di un lavoro che convince e colpisce (evitando la versione distribuita in America, tagliata di diversi minuti), di cui godere singolarmente o da utilizzare come succulento punto di avvio per una corposa retrospettiva privata insaporita da tanti ottimi titoli diretti dall’autore che sapeva attraversare il mare delle tenebre, e ciò che in esso vi è di esplorabile.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Revival
Scheda tecnica
Anno: 1969
Durata: 90’
Regia: Lucio Fulci
Sceneggiatura: Roberto Gianviti, Lucio Fulci
Fotografia: Erico Menczer
Montaggio: Antonietta Zita
Musiche: Angelo Francesco Lavagnino, Silvano Spadaccino
Attori: Adrienne La Russa, Tomas Milian, Georges Wilson, Mavie Bardanzellu, Antonio Casagrande