Se nel primo caso si rinviene il sofista, colui che non necessariamente è più sapiente degli altri uomini, ma possiede il dono insinuante della capacità oratoria, nel secondo si rinviene invece il filosofo, cioè colui che, attraverso il dia-logos, ricerca incessantemente la verità delle cose, insieme al suo uditorio. Il sofista è perennemente su un palco, un teatrante, un illusionista – secondo la definizione platonica – che crea mondi fittizi in sostituzione di quello reale, i quali, grazie al potere affabulatorio della parola, assumono i contorni di una realtà più vera del vero, mondi opachi nei quali è facile (e talvolta piacevole) smarrirsi; il filosofo, dal canto suo, tende a determinare una problematica corrispondenza fra i propri logoi e le cose, avendo come obiettivo supremo il rinvenimento di quell’unità di senso capace di porsi come sintesi ultima ed esaustiva del reale.
Sia nel caso del sofista sia in quello del filosofo, l’obiettivo ultimo è dominare la realtà tramite i propri discorsi e, in senso esteso, le proprie rappresentazioni. Da un certo punto di vista è possibile individuare, però, nel sofista/teatrante il vero poeta dell’essere, prestigiatore smaliziato ed eterno fanciullo che gioca senza tregua con le asperità del reale, con le sue inesplicabili contraddizioni e con l’impossibilità per l’uomo di abbracciarne definitivamente l’orizzonte: tanto vale baloccarcisi, col reale, vellicarne le giunture malferme, prendersi gioco delle sue molte variabili, a patto di non illudersi, in tal modo, di averne esorcizzato l’influsso, di aver conquistato la statura e il potere di un dio, perché la rovina è sempre a un passo e prima o poi esigerà il suo tributo.
Il cinema di Joseph Mankiewicz fonda, fin dagli esordi con Il castello di Dragonwyck (1946), il proprio equilibrio sugli invisibili fili della menzogna – o, meglio, di un racconto della realtà che risulta tanto più convincente e verosimile quanto più è ben congegnato e lontano da essa – tessuti dai molti personaggi doppi e ambigui che lo costellano, dopo che quello esile della verità è stato facilmente spezzato o, più di frequente, reso aggrovigliato e indiscernibile, con il sovrapporsi ad esso di molteplici fibre, che appartengono ad altre ed estranee matasse. Un cinema venato da una forte impronta teatrale (e non potrebbe essere diversamente, visto il grande amore del regista per il teatro elisabettiano e per Shakespeare in particolare) nello spirito, ma anche da un’impeccabile costruzione filmica, tanto semplice nei suoi esiti visibili quanto articolata nella sua elaborazione narrativa, nella scrittura, grazie all’essenzialità e all’efficacia del linguaggio specificamente cinematografico utilizzato, classico e modernissimo a un tempo. Una costruzione in cui l’elemento differenziale è costituito dalla parola, vero e proprio motore della progressione del racconto e del delinearsi dei personaggi principali.
Se, come dice Deleuze, il cinema narrativo americano risulta fondato sull’immagine-azione e si esprime come duale/duello fra personaggi contrapposti, in alcuni casi, specie nella sophisticated comedy o nella screwball comedy, esso trova il proprio perno nella parola-azione, vale a dire in una costruzione non più basata sul meccanismo azione/reazione, bensì su quello parola-azione/parola-reazione. Gli eventi si innescano non più a partire da un’azione scatenante, che modifica il contesto in cui si muovono i personaggi, bensì da un discorso, che, più che trasformare tale contesto, ne crea ex nihilo uno del tutto nuovo, nel quale le coordinate di senso dell’inizio mutano fino a risultare irriconoscibili.
Mankiewicz è il maestro incontrastato di tale processo, più di Lubitsch, Wilder, Hawks o Preston Sturges, in quanto, nella sua opera, ogni elemento significante è legato alla parola e alla sua inafferrabilità. Signori della retorica, intelligenze malefiche e sublimi, votate alla sopraffazione e alla prevaricazione, i personaggi di Mankiewicz si sfidano senza tregua attraverso l’inganno, il raggiro, la doppiezza, il sottile soffio della perfidia, il sempiterno ricorso alla falsificazione, alla dissimulazione. Il suo cinema non è altro che una continua e raffinatissima auto-rappresentazione che ciascuno dei personaggi principali fa di se stesso, il cui scopo è l’annichilimento dell’avversario in funzione della più allettante delle poste: l’affermazione incontrastata del proprio ego smisurato. Tutti gli altri obiettivi sono solo transitori, dei mezzi per raggiungere questa (im)mortale e bruciante sensazione di potere.
In questo sublime Kammerspiel non ci sarà bisogno di molteplici figure, come nei film precedenti, per accrescere le ambiguità e i punti di osservazione o per intensificare l’instabilità del reale, ma basteranno due soli personaggi, capaci di sdoppiarsi, mimetizzarsi, camuffarsi per far proliferare gli snodi, i cul-de-sac, le false piste del racconto e per far esplodere un duello (reale e finzionale) di impareggiabile maestria recitativa fra il grande “vecchio” Laurence Olivier (Wyke) e il giovane rampante Michael Caine (Tindell).
Ecco allora che l’anziano aristocratico Andrew Wyke e il giovane parvenu Milo Tindle – un tempo Tindolini – non sono semplicemente due (2) personaggi, ma un’intera compagnia di teatranti, che dà vita a una matrioska inestricabile di trame e sotto-trame, con continui scambi di posto e di ruolo, repentini mutamenti di identità o atteggiamento, momentanei e sempre parziali successi sull’avversario.
Il terzo vero personaggio aggiunto è l’abitazione di Wyke, funzionale sia all’unità di matrice classica del racconto (3) sia soprattutto al dispiegarsi di quest’ultimo. Esternamente protetta da un labirinto, senz’altro metaforico e simbolico, ma anche e soprattutto fattuale, essa all’interno si rivela almeno altrettanto enigmatica: ampia, arredata in modo ipertrofico – almeno nell’ala della casa che funge da oscuro e augusto regno di Wyke, mentre l’area dedicata alla moglie Marguerite (il personaggio sempre fuoricampo, che risulta il motivo apparente della contesa fra Wyke e Tindell) (4) si rivela luminosa ed elegantemente asettica, come se nessuno ci vivesse – e abbellita da una serie pressoché infinita di astrusi rompicapo esotici e di splendidi automi meccanici, vero pubblico “in scena” delle vicende narrate.
1) Senza dimenticare l’apporto in sede di sceneggiatura del grande Anthony Shaffer.
2) Nel cast figurano altri quattro nomi, fittizi, di attori/personaggi inesistenti (fra cui è da notarsi una “Eve Channing”, rimando neanche tanto velato e scherzosamente “doppio” al film di maggior successo del repertorio di Mankiewicz, cioè Eva contro Eva, del 1950); un modo ulteriore di mischiare le carte e prendersi gioco, con eleganza, dello spettatore.
3) Gli insospettabili rispetta l’unità di luogo aristotelica e, sostanzialmente, anche quella di tempo, visto che la narrazione abbraccia l’arco di un fine settimana.
4) Tindell, agiato e apprezzato parrucchiere per signora, è l’amante di Marguerite, moglie di Wyke. Quest’ultimo invita Tindell nella propria dimora in campagna con un pretesto per umiliarlo – in modo letteralmente mortale, facendogli credere di volerlo uccidere – non solo come avversario di circostanza, ma soprattutto in quanto nuovo ricco di origine oltretutto straniera e in quanto giovane “stalloncino”, capace di privarlo di uno dei suoi possessi, nel caso, la moglie. Tindell soccomberà, inizialmente, ma poi riuscirà a prendersi la propria rivincita e i ruoli continueranno a capovolgersi, fino al finale inevitabilmente tragico.
Il gioco, nei suoi aspetti più inventivi e legati alla creatività dell’intelligenza, è l’unico autentico passatempo delle “menti nobili”, come pensa Wyke e, tutt’altro che in subordine, anche Mankiewicz. Ecco, il fulcro di tutta la vicenda è proprio il gioco, il conflitto, scandito da regole diverse rispetto alla vita reale e capace di deviarne il flusso, fra avversari per i quali, alla lunga, le varie e pretestuose motivazioni che li hanno portati a confrontarsi cadono, per lasciare spazio esclusivo all’interminabile partita che li vede protagonisti. Solo che non si tratta di prevalente amore per il gioco in quanto tale, bensì della possibilità che esso offre di sopraffare l’avversario, dopo averlo dapprima deriso, annichilito, annullato, e di quello di ascoltarsi parlare, in una realizzazione del sé che transita sempre attraverso la magia del suono delle proprie parole e la potenza creatrice (di mondi e significati) che esse sprigionano: Dico/loquor ergo sum.
Ecco quindi l’unica vera regola del gioco: l’aspetto ludico dà piacere solo in caso di vittoria, solo quando l’opponente viene sorpreso dalla tattica messa in atto dal master of puppets (ce n’è quasi sempre uno in scena, o presente in qualche modo, nel cinema di Mankiewicz), solo quando l’invenzione dell’ingegno, sempre supportata dalla parola, quindi dalla recitazione/rappresentazione di sé, ha il potere di aprire le maglie del contendente, per riuscire meglio ad impadronirsi della sua persona e della sua anima, per farlo diventare un pubblico rapito dalle proprie istrioniche capacità recitative, un burattino docile nelle proprie mani.
In un continuo slittamento delle leggi del gioco di ruolo, ne Gli insospettabili i ruoli-funzione dei personaggi si scambiano di continuo, vedendo nella parte di master of puppets dapprima Wyke, poi Doppler/Tindell, poi solo Tindell e, infine, nuovamente Wyke, anche se l’ultima parola Mankiewicz la conserva per sé, costruendo il finale come ultimo sberleffo per i suoi personaggi e per lo spettatore. Dopo aver ribaltato i piani del confronto, conducendo Tindell a rivelarsi inaspettatamente come un giocatore di talento e inventiva pari almeno a quella del “maestro” Wyke, Mankiewicz costringe i suoi personaggi alla rovinosa fine che è inscritta nel loro fato, con la conclusione anche dei loro ingegnosi trabocchetti, dei loro sottili marchingegni, attraverso l’introduzione di un tocco di realtà nel loro castello di finzioni: Wyke sparerà per davvero a Tindell, uccidendolo e chiudendo così il cerchio del gioco da lui stesso iniziato, così come la polizia giungerà sul serio a indagare su Wyke (anche se non entrerà effettivamente in scena, venendo evocata dalla sineddoche/metonimia del lampeggiante dell’auto, inquadrato brevemente prima del frenetico finale), dopo la splendida finzione “poliziesca” messa in atto da Tindell, vestito dei panni del solido ispettore Doppler, campagnolo tutto sostanza e buon senso, che indaga sulla scomparsa di… se stesso.
Tutti i temi cari a Mankiewicz trovano spazio nel gioco al massacro de Gli insospettabili: dal conflitto di classe a quello fra sessi (quest’ultimo solo evocato, vista l’assenza di personaggi femminili in scena), dalla rappresentazione di sé, come estrema espressione della perfida intelligenza umana, al suo utilizzo in funzione della prevaricazione sull’avversario di turno, dal teatro, come luogo privilegiato di tale rappresentazione e di tale conflitto, al cinema come spazio super-umano, in grado di svelare non solo il proscenio bensì anche il dietro le quinte delle miserie e delle grandezze umane.
Il tutto viene reso attraverso una messa in scena impeccabile, capace, almeno alla prima visione, di sorprendere sempre anche lo spettatore più attento e di dislocarlo senza interruzioni in una posizione scivolosa, sia nei rapporti coi personaggi sia nei confronti dello sviluppo del racconto. Lo spettatore diviene allora un vero e proprio pubblico assente, costretto ad applaudire fuoricampo e silenziosamente l’ultima grandiosa prova del maestro americano, mentre, in scena, gli automi impazziti si fanno beffe fragorosamente e senza più alcuna remora dei due giocatori sconfitti, giacché la situazione è tragica, ma non seria. Del resto, si è trattato di un gioco.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Revival 60/70/80
Scheda tecnica
Tirolo originale: Sleuth
Anno: 1972
Durata: 138’
Regia: Joseph L. Mankiewicz
Soggetto e sceneggiatura: Anthony Shaffer
Fotografia: Oswald Morris
Montaggio: Richard Marden
Musica: John Addison
Scenografia: Ken Adam, Peter Lamont, John Jarvis
Cast: Laurence Olivier, Michael Caine