Il carton prégénérique con cui si apre L’armée des ombres (1) – elemento significante che ricorre più volte nella filmografia melvilliana – precisa, da subito, che si è in presenza di un’opera personale, venata di malinconia e di frammenti di memoria. Le componenti storiche, cronachistiche, belliche, politiche vengono lasciate sullo sfondo, o addirittura dimenticate, per fare spazio a un doloroso racconto intimista, nel quale i protagonisti non sono epici eroi – il titolo italiano, oltre che fuorviante, è anche ridicolmente fuori asse rispetto agli intenti del regista – bensì semplici uomini costretti alla lotta e soli di fronte all’incombere del Fato, che nello specifico è rappresentato dalla dominazione nazista in Francia durante la seconda guerra mondiale.
Al conflitto il regista transalpino prese parte per davvero, dapprima come militare regolare e col suo nome originario, Jean-Pierre Grumbach, poi come partigiano, ed è in quest’ultima veste che assume il nom de guerre di Melville (in onore dello scrittore americano Herman Melville), che porterà con sé per il resto della carriera e della vita. Più di vent’anni dopo, nel 1969, egli “ritorna” idealmente – solo come tramite il cinema è concesso – a quel periodo della giovinezza così intenso e doloroso (2).
1) Ispirato all’omonimo romanzo di Joseph Kessel, scritto nel 1943.
2) Un’immersione filmica nell’epoca della seconda guerra mondiale Melville la compie già nel 1961, con Leon Morin, prêtre, un’opera intensa, ma distante per molti versi rispetto a quelle successive, che lo avrebbero consacrato come maestro del polar. Del resto, anche in questo lavoro del ’61 di guerra non ce n’è molta, ma risalta la solitudine dei personaggi, com’è consueto nel suo cinema, accanto alle schermaglie esistenziali, in questo caso con risvolti sentimentali, filosofici e religiosi.
L’armée des ombres, fin dall’inizio, è scandito da un senso amaro di sconfitta e desolazione: il film si apre con la marcia orgogliosa di un plotone di soldati della Wehrmacht nei pressi dell’Arco di Trionfo a Parigi. Siamo nel 1942 e la guerra sarà ancora lunga per la Francia, così come per il resto del mondo. Per tutta la sua durata, la pellicola non lascia mai presagire la possibilità di un riscatto o di una rivincita per i protagonisti né, in senso più esteso, per il popolo francese, tanto da rendere viva l’impressione che la guerra sia già terminata e che a vincerla siano stati i tedeschi.
L’incombere di un orizzonte definitivamente senza speranza né redenzione avvicina L’armée des ombres ai lavori più cupi e intensi del regista, assieme a molti altri elementi che lasciano intravedere una strettissima prossimità o, meglio, una vera e propria corrispondenza, fra questo fosco dramma bellico e i suoi precedenti noir/polar. La sequenza successiva introduce il personaggio di Philippe Gerbier (Lino Ventura), che, ammanettato all’interno di un cellulare della polizia e con un flic di guardia, viene scortato in un campo di prigionia. Non vi sono segni visuali pertinenti che rimandino alla situazione storica né al contesto specifico: una faccia nota del cinema nero francese siede di fronte a uno sbirro in divisa e tutto sembra ancorato alle dinamiche dei film melvilliani di “guardie e ladri”, come li definiva autoironicamente il regista. Solo in seguito, al momento dell’arrivo al campo, si chiarisce l’identità di Gerbier e il suo appartenere alla Resistenza anti-nazista.
In effetti, molti sono i tratti che L’armée des ombres ha in comune con film come Bob le flambeur, Le doulos, Le deuxième souffle, Le samouraï, nei quali Melville condusse il genere di cui fu maestro a livelli di eccellenza assoluta. Le vicende che vedono protagonisti Gerbier, il grande capo della Resistenza Luc Jardie (Paul Meurisse), il fratello di questi Jean-François Jardie (Jean-Pierre Cassel), Félix Lepercq (Paul Crauchet) e Mathilde (Simone Signoret) appaiono un labirinto senza via d’uscita. Ogni azione risulta titanica e impotente nello stesso tempo, in quanto pre-indirizzata dall’incombere del Fato, che viene però sfidato, nonostante l’imminenza della catastrofe e la chiarezza della sua ineluttabilità. Ulteriore elemento di contiguità con il genere d’elezione di Melville risulta dal conflitto fra il sottomondo dei partigiani e quello istituzionale dei nazisti, un conflitto che riecheggia quello ormai classico fra gangster e sbirri, con in più quel senso di tragedia diffusa, che non riguarda solo il milieu, bensì l’intera nazione. È a partire da questi elementi che si innesca lo sviluppo dell’intreccio, l’incalzare degli eventi, il procedere inesorabile della rovina.
L’orizzonte che si viene a delineare risulta perciò ancorato alle dinamiche dello scontro fra due mondi agli antipodi, che risultano vieppiù distanti (a differenza dei film precedenti, nei quali gli antagonisti, cioè i flic, presentavano a tratti una loro dignità sia di ruolo, all’interno del racconto, sia nello spessore umano mostrato), perché la demarcazione fra Bene e Male qui è netta, non sfumata: i nazisti non sono l’altra faccia della stessa medaglia, ma appartengono a una dimensione esistenziale sideralmente distante da quella degli esseri umani che opprimono; non giocano come opponenti nel medesimo campo da gioco, ma disputano una partita a sé, nella quale l’unica regola è quella del sopruso e della sopraffazione.
Di fatto, però, a Melville non interessa la dimensione emersa dei dominatori tedeschi, la loro psicologia, le loro motivazioni o aberrazioni – il tutto rimane perlopiù incombente dal fuoricampo o, tutt’al più, dallo sfondo – bensì quella sommersa dei maquisard, un microcosmo di silenzi, sguardi, rinunce, di poche regole ferree e mortali, di lealtà, oblio della propria individualità e sacrificio di sé. I partigiani di Melville sono dei guerrieri solitari e senza nome, dei ronin, più che dei samurai, il cui unico punto di riferimento è la lotta per la sopravvivenza del proprio gruppo, più che di se stessi, e (di quel che resta) della propria nazione (3). La Resistenza diviene mera esistenza di esseri umani vuotati della propria scintilla vitale, privati della propria libertà di azione e di pensiero, costretti a dimenticare il passato, essendo gettati nella misera condizione di un presente perpetuo e senza sbocchi, di un vivere alla giornata senza nemmeno sapere se sarà loro concesso di terminarla.
3) In realtà un punto di riferimento fermo, anche se appena sfiorato, è rappresentato dalla figura di de Gaulle, presente in una breve sequenza. E certamente il gruppo di partigiani attorno ai quali il racconto si sviluppa è composto di gollisti, anche se, come detto, l’aspetto politico è pressoché assente, in quanto interessa poco o nulla al regista. Nonostante questo, all’uscita del film, molte delle critiche negative che gli piovvero addosso nacquero proprio dall’accenno a de Gaulle; geremiadi puramente ideologiche.
Tale ristrettezza di possibilità, ennesima eco accorata dei racconti del milieu, fissa i personaggi, una volta di più nella filmografia melvilliana, nei loro ruoli e funzioni rispetto all’ambiente in cui sono forzati a operare, senza per questo far loro perdere un briciolo di spessore e umanità. Non sono quindi i personaggi ad attenersi ai ruoli (individuali, sociali, storici, culturali) che gli competono o che essi possono permettersi di scegliere – anche perché nessuna scelta è possibile là dove regna il Fato – bensì sono i loro ruoli/funzioni nel microcosmo in cui agiscono a collocarli come esseri umani, ad attribuire loro una posizione nella dinamica del racconto. In altre parole, il personaggio incarna un ruolo pre-destinato, vivificandolo però dall’interno, umanizzandolo, conferendogli una psicologia, un umore, ma sempre nel rispetto della coerenza esistenziale del ruolo stesso. La dignità e la grandezza del cinema di Melville, in fondo, sono tutte qui, nella capacità di evocare i sentimenti, gli stati d’animo, i conflitti interiori attraverso la semplicità e l’eloquenza dello stile, che solo i migliori possiedono.
Ecco, allora, che Gerbier e Lepercq dovranno giustiziare un giovane traditore (interpretato da un giovanissimo Alain Libolt) – in una delle sequenze più memorabili e terribili del film – col viso dolce di chi ha appena superato l’innocenza della fanciullezza, ma anche terrorizzato dalla morte imminente: il ruolo imporrà loro di eseguire la consegna senza remore, ma saranno i volti, gli sguardi, i silenzi, le posture a individuare la pena latente, a rendere il loro spessore di personaggi e di esseri umani. Allo stesso modo, quando verrà il momento di eliminare la leale e fiera compagna di lotta, Mathilde – un personaggio femminile tanto memorabile quanto raro nella filmografia di Jean-Pierre Melville – in quanto scoperta e ricattata dalle SS, per via della giovane figlia anch’ella in mano ai nazisti, nessuno esiterà nello svolgimento dell’infelice compito.
Mathilde per prima sa cosa l’attende e quando, per strada, vedrà avvicinarsi la macchina coi compagni d’un tempo pronti a ucciderla, non fuggirà. Solo lo sgomento e l’umana paura, per l’approssimarsi di un momento degno d’una tragedia d’altri tempi, segnano lo sguardo intenso della Signoret, uno sguardo che simboleggia tutta la poetica di Melville: in un mondo senza Grazia e speranza, in cui tutti gli esseri umani, fin dalla nascita, sono segnati dal loro essere-per-la-morte, da un destino irreversibilmente votato alla sconfitta, si può soltanto provare a (soprav)vivere, pur sapendolo impossibile. Quindi, una volta consapevoli di tale impossibilità, non rimane altro che correre incontro alla propria fine, senza sorriderle e senza esserne atterriti, ma semplicemente, come degli uomini.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Revival 60/70/80
Scheda tecnica
Titolo originale: L'armée des ombres
Anno: 1969
Durata: 139’
Regia e sceneggiatura: Jean-Pierre Melville
Soggetto: Joseph Kessel
Fotografia: Pierre Lhomme
Montaggio: Françoise Bonnot
Musiche: Éric Demarsan
Attori: Lino Ventura, Simone Signoret, Paul Meurisse, Jean-Pierre Cassel