1) G. Deleuze, Cinema1 - L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, 5^ ed. 2002, pp. 174-175.
Il western classico, cioè il racconto epico, ha narrato, almeno fino agli anni ’50, l’epopea dei pionieri e della conquista del West, l’occupazione/civilizzazione di un territorio aspro e selvaggio ad opera di un popolo nascente, ma già ricco di intraprendenza e volontà, e dei suoi eroi. Già negli anni ’30 e ’40, prima col gangster poi col noir, si è venuto a delineare anche un controcanto tragico al mito della Frontiera, in cui i protagonisti sono degli antieroi: criminali perversi, ambiziosi avventurieri, duri e disincantati detective privati, dark ladies; il tutto sotto il segno ineluttabile del destino funesto e della fatalità. In quest’ultimo caso vi è un preciso elemento morale/moralistico, che riunifica sotto lo stesso orizzonte culturale e teorico queste diverse forme del racconto: l’elemento sanzionatorio.
Mentre la comunità delineata nel western è la forma originaria di quella attuale (dell’armonico melting pot di culture, razze, religioni diverse, che tuttora costituisce il principio fondativo e portante del sogno americano), capace di esprimere e supportare gli eroi che la difenderanno dalle minacce interne ed esterne, quella delineata nel gangster e nel noir è il microcosmo marcio e malato, che tenta di intaccare l’integrità di tale comunità. Laddove il macrocosmo sano agisce sinergicamente in funzione dei bisogni collettivi, il microcosmo criminale è mosso da pulsioni individuali e private, spesso inconfessabili; di qui i tradimenti, i sotterfugi, gli inganni e l’inevitabile rovina dei suoi protagonisti: la sanzione, appunto. L’evoluzione del racconto filmico americano, la nascita e lo sviluppo di nuove forme narrative porteranno però a un rimescolamento e a una rielaborazione delle categorie espressive, morali e alle convenzioni di genere tradizionali (2), tali da minare alla base le coordinate di senso su cui si fonda l’American Dream.
2) Si pensi, a tal proposito, solo a titolo d’esempio, ai western più maturi di Ford, alle originalissime declinazioni del genere operate da Anthony Mann, Monte Hellman, Arthur Penn, Sam Peckinpah, al cinema Off Hollywood o alla nascita del New Horror alla fine degli anni ’60 e per tutti i ’70.
L’anno del dragone si inserisce pienamente in questo solco concettuale e, anziché costituire un mero ritorno in tono minore dell’epica di Michael Cimino – un’epica che, inevitabilmente, si riallaccia alla tradizione del grande racconto della nazione americana – dopo il fallimento commerciale de I cancelli del cielo (1980), ne delinea invece un’avvenuta maturazione ed evoluzione a livello sia tematico che narrativo.
Il cacciatore (1978) evidenziava una concezione per molti versi ancora classica della società statunitense, in cui le varie comunità particolari – quella russa della cittadina di Clairton in Pennsylvania, nello specifico – potevano, nel contempo, sia mantenere i propri usi, costumi, tradizioni e rituali, sia aderire all’American Way of Life, credere nella bandiera a stelle e strisce e offrire i propri eroi per la guerra (del Vietnam, in questo contesto) contro i nemici esterni. Il tema portante era, in questo caso, l’incommensurabilità fra la dimensione vitale dell’esistenza quotidiana e quella da incubo del conflitto. Era inoltre presente una notevolissima riflessione sul tema dell’istituzionalizzazione della violenza (la caccia al cervo), nonché sulle sue derive e sulle sue implicazioni etiche (i modi dei diversi personaggi di rapportarsi alla preda e all’utilizzo delle armi). I cancelli del cielo esamina invece le origini, tutt’altro che pacifiche e civili, che hanno condotto alla nascita della nazione americana. Il film torna indietro di un secolo circa rispetto a Il cacciatore e racconta il massacro di una comunità di immigrati europei dell’Est nel Wyoming di fine ‘800, ad opera dei grandi latifondisti locali e col beneplacito del governo. Le radici del sogno americano, in questo caso, affogano nel sangue e di qui, probabilmente, nasce il clamoroso flop nelle sale del film stesso (3).
3) Il tracollo commerciale del film portò, come è noto, al fallimento della United Artists e ad un brusco stop della carriera di Cimino.
L’anno del dragone indaga invece le dinamiche che sembrerebbero consentire alla nazione americana di imbrigliare i molti elementi eterogenei e i particolarismi per giungere a incarnare il sogno dell’unità non solo politica, ma anche spirituale del paese, e ne trae la conclusione che alla base di tutto non c’è un sogno, ma un patto. Un patto criminale. A confrontarsi, nel film, sono la grande comunità cinese di Chinatown, a New York, e le istituzioni cittadine. L’impermeabilità e la chiusura di una cultura millenaria e unica come quella cinese a qualsivoglia tentativo di colonizzazione culturale e giuridica conduce a un apparente paradosso: per coesistere in pace, anziché ricorrere alla categoria moraleggiante dell’integrazione – ancor oggi abusata, senza riuscire a intravederne il portato imperialista e colonialista – è necessario mantenere invece le distanze, le differenze, le alterità.
Il problema vero, però, non riguarda la micro-comunità cinese nel suo rapporto col tessuto cittadino, ma il tacito accordo di non ingerenza reciproca fra le autorità cittadine e quelle cinesi, rappresentate dai vecchi capifamiglia delle triadi, associazioni criminali di antichissima origine. La popolazione di Chinatown non segue il corso della vita e della giustizia statunitensi, ma è costretta (e, per certi versi, propensa) a mantenere il ritmo dei propri cicli temporali ed esistenziali. Questo significa anche, però, sottostare all’autorità dei propri capi e supportare, in molti casi, le loro attività delittuose, che vanno dal gioco d’azzardo al traffico della droga al riciclaggio di denaro, con gli effetti, tutt’altro che collaterali, del sopruso e dell’omicidio.
A rendere ancora più fosco un orizzonte già di suo scevro di polarità positive o possibilità di scelta alternative, provvedono in modo sostanziale i due antagonisti: lo sbirro bianco Stanley White (Mickey Rourke) e il potente boss cinese Joey Tai (John Lone). Entrambi si fanno portatori di istanze di rinnovamento, che, lungi dal condurre all’auspicato, ambizioso e personalissimo nuovo ordine, genereranno caos, violenza, distruzione.
Stanley è un reduce (ancora una volta) dal Vietnam, diventato poliziotto, a cui viene affidata la zona di Chinatown. Il suo compito di tutore dell’ordine costituito si trasforma ben presto in una crociata ottusa e personale contro il nemico “giallo” (cinese o vietnamita, per lui, non fa differenza). Il suo scopo diviene allora quello di rompere il patto perverso fra cinesi e occidentali per imporre la legge dello stato, di cui egli si autoproclama l’unico autentico detentore. Compito lodevole solo in apparenza, visto che, oltretutto, richiama alla mente, neanche tanto alla lontana, i molti tentativi passati e presenti di imposizione della pax americana in ogni angolo del globo.
Joey è invece un sacerdote e un missionario del crimine, votato unicamente al raggiungimento della sommità della piramide del potere e determinato a eliminare uno ad uno tutti gli anziani capi, che si frappongono fra lui e i suoi scopi. Lo scontro fra i due risulta quindi inevitabile, in un crescendo di violenze e vendette reciproche, in cui gli avversari finiscono col mettere in gioco tutto ciò che hanno, sovrapponendosi specularmente e finendo con l’annullarsi a vicenda. La hýbris che pervade entrambi li condurrà a perdere di vista i loro obiettivi primari, per dedicarsi totalmente all’annullamento dell’avversario, muovendosi fianco a fianco verso la vicendevole distruzione. Un gioco di morte, in cui non potranno esservi vincitori. Joey perderà il proprio potere, la ricchezza e la vita, mentre Stanley perderà la propria personale battaglia con Chinatown e vedrà uccidere, davanti ai propri occhi, anche la moglie Connie (Caroline Kava) e il giovane cadetto infiltrato Herbert Wong (Dennis Dun), mentre l’amante Tracy Tzu (4) (Ariane Koizumi) verrà violentata dagli uomini di Joey. Il duello finale fra i due è una corsa verso l’annientamento reciproco, anche se a morire sarà solo Joey.
4) Si noti che sia Herbert che Tracy sono, di fatto, degli apolidi, utilizzati da Stanley come leve per sollevare la coltre che ricopre il marciume di Chinatown. Due giovani cinesi che tentano di essere, a pieno titolo, cittadini americani, rimanendo però pur sempre altri, sia agli occhi degli americani bianchi che a quelli dei loro connazionali di Chinatown.
La sequenza conclusiva, edulcorata dal produttore De Laurentiis, ma tutt’altro che consolatoria, a ben guardare, pur restituendo uno Stanley spossato e ferito, ma vivo, a braccetto con Tracy che lo consola, mentre si svolgono i funerali di Joey a Chinatown, ci riporta, circolarmente, a quella iniziale, dove un altro funerale ritmava ritualmente lo svolgersi calmo della quotidianità nella comunità cinese. Tutto sembra essere tornato al punto di partenza, il nastro pare essere stato riavvolto. Stanley viene esautorato dalla sua carica e tutto ritorna all’origine, ancorché a prezzo di lutti e rovina. Comunque fosse finita, a trionfare non sarebbero state (e, quindi, non saranno) la pace e la giustizia. Questa volta la circolarità della concezione orientale del tempo e della storia ha avuto la meglio sulla concezione lineare ed evolutiva occidentale. Ora tutto può ripresentarsi come è sempre stato e il pactum sceleris può essere rinnovato.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Revival 60/70/80
Scheda tecnica
Titolo originale: Year of the Dragon
Anno: 1985
Durata: 129’
Regia: Michael Cimino
Sceneggiatura: Michael Cimino, Oliver Stone
Fotografia: Alex Thomson
Musiche: David Mansfield
Montaggio: Noëlle Boisson, Françoise Bonnot
Interpreti: Mickey Rourke, John Lone, Ariane Koizumi, Caroline Kava, Dennis Dun, Raymond J. Barry