Innanzitutto, perché utilizzare proprio il Don Giovanni mozartiano per elaborare quelli che, come si vedrà fra breve, risultano essere alcuni fra i temi prediletti del regista statunitense? La risposta può essere trovata nelle parole di Søren Kierkegaard, che non solo ha molto amato l’opera di Mozart, ma le ha addirittura dedicato un intero saggio (Don Giovanni – La musica di Mozart e l’eros), oltre a costruire attorno alla figura del licenzioso nobile uno degli archetipi di riferimento del proprio sistema filosofico: “[…] il Don Giovanni, dato il carattere astratto dell’idea, vivrà eterno in tutti i tempi, e voler comporre un Don Giovanni dopo Mozart sarà sempre come un’Iliade post Homerum, e in senso assai più profondo che per Omero.”
Losey sembra riconoscere la saggezza delle parole di Kierkegaard e, di conseguenza, il rischio e l’inanità di una rivisitazione capace di prescindere dal modello mozartiano, quindi propone un lavoro estremamente fedele al testo musicale e letterario di Mozart e Da Ponte. In questa “fedeltà” è possibile, paradossalmente, riscontrare uno dei motivi che rendono il progetto attuato da Losey un’opera di cinema a pieno titolo, anziché un semplice e decorativo esperimento di teatro filmato.
1) Come recita la locandina della prima rappresentazione del Don Giovanni a Praga, il 29 ottobre del 1787: Don Giovanni ossia il Dissoluto punito.
Losey mantiene quindi intatta l’essenza e la lettera del capolavoro mozartiano – la musica e la musicalità, la poeticità geniale e intrigante del testo di Da Ponte, la caratterizzazione e il ruolo dei personaggi – rielaborando la struttura scenica (per gli esterni vengono scelte due note isole veneziane, Murano e Torcello, la campagna veneta e alcuni importanti edifici palladiani, come la “Rotonda” o la Basilica Palladiana, mentre per gli interni vengono esaltate le straordinarie possibilità offerte dai medesimi edifici, fra cui risalta in tutta la sua magnificenza il Teatro Olimpico di Vicenza) e riuscendo a creare una tensione incessante sia nei rapporti fra i personaggi, sia fra i personaggi stessi e l’ambiente circostante, tale da far emergere pienamente il suo stile registico, nonché le tematiche che connotano la sua poetica e la sua visione del mondo.
Le immagini risultano tutt’altro che pacificate o meramente funzionali allo sviluppo narrativo, ma delineano con costante intensità un conflitto persistente e mai del tutto risolto, che coinvolge non soltanto i personaggi, ma anche la forma stessa del visivo. È l’immagine dialettica a regnare, frutto non solo dell’originalità dello stile di Losey, ma anche dei contatti che il regista statunitense intrattenne con Ejzenštejn nella metà degli anni ‘30. Tale immagine cattura l’immanente conflitto del mondo, un conflitto originario e preesistente a ogni forma di vita individuale e associata. Essa esprime la forza trainante interna della realtà e della storia, che talora muove e fa evolvere le cose o, non di rado, risultando inappropriata per generare un salto qualitativo in grado di spazzare definitivamente l’obsolescenza del vecchio, innesca cortocircuiti incapaci di produrre il nuovo. Di qui la frase di Gramsci in calce nei titoli di testa del film: “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere: e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” L’immagine dialettica percorre e agita il film dal principio alla fine, in molti modi e sotto svariate forme, per poi giungere alla conclusione che, a conti fatti, la dipartita di Don Giovanni non costituisce l’avvento di una nuova era, ma semplicemente la restaurazione dell’ordine originario.
Innumerevoli sono le opposizioni che pervadono il film, conferendogli ritmo e dinamismo, in un movimento che, lungi dall’essere lineare, si caratterizza invece per la propria spiccata circolarità: un’iterazione continua di segni, situazioni e ritorni, che mai sembra trovare un effettivo superamento, salvo forse nell’arrembante (pre)finale.
Innanzitutto va notato come, a livello meta-testuale, si situino almeno due coppie di duali. La prima concerne il confronto fra le convenzioni cinematografiche e quelle teatrali. La fedeltà al testo e alle convenzioni del teatro lirico (i pensieri dei personaggi che divengono elocuzione cantata, i recitativi, l’ovvia assenza di dialoghi parlati e così via) unitamente al linguaggio tipicamente cinematografico (il montaggio, i movimenti di macchina, gli esterni “reali”) creano un senso di estraniamento nello spettatore, che si ritrova catapultato al confine fra regimi indiscutibilmente distanti della rappresentazione. La seconda coppia riguarda invece l’epoca di realizzazione dell’opera e la sua ambientazione. L’opera di Mozart viene concepita verso la fine del ‘700 ed è collocata temporalmente nella prima metà del ‘600; il film di Losey cala invece l’ambientazione nel tardo ‘700.
Il fuoco (la fucina dei maestri vetrai, che funge da sfondo a svariate sequenze cruciali) e l’acqua (i canali che conducono le imbarcazioni dei personaggi da un luogo all’altro, in una specie di labirinto topografico voluto dal regista, che evita qualsiasi tipo di corrispondenza fra luoghi reali e luoghi diegetici) aprono invece le danze dell’opera, istituendo il primo confronto di duali relativi all’ambito testuale vero e proprio. La fiamma della passione sensuale, ma anche dello straripante desiderio di rivalsa femminile nei confronti del libertino, si trasformerà, nel finale, nel bruciore cupo e sordo della dannazione infernale. L’acqua, superficie illusoriamente uniforme, ma ingannevole e torbida – come le oscure pulsioni che animano, in un modo o nell’altro, tutti i personaggi – o scrosciante pioggia, potrà essere veicolo di morte (la sequenza dell’uccisione del Commendatore) o di vendetta (le tre Maschere, cioè Don Ottavio, Donna Anna e Donna Elvira, che arrivano alla festa di Don Giovanni in barca, o Don Giovanni stesso, che di notte, dopo lo scambio di abiti e di identità col servo Leporello, giunge anch’egli in barca al cimitero dove riposa il Commendatore, la cui voce acusmatica è presagio della prossima fine del protagonista).
L’architettura palladiana (edifici e giardini ordinati, lineari, perfettamente prospettici e geometrici, un’architettura indifferente, che, proprio a causa di tale indifferenza, crea tensione nel conflitto con la potenza degli istinti), si contrappone invece al disordine del desiderio – erotico o di vendetta – e soprattutto alla tipologia di pulsione che Losey ha sovente cercato di evocare nei suoi film: la pulsione di servilità. (2)
2) Per approfondire il tema della “pulsione di servilità” nel cinema di Losey si veda il capitolo 8 di Cinema 1 – L’immagine-movimento di Gilles Deleuze.
È il regista stesso a tracciare le coordinate di questa particolarissima forma di impulso, in un’intervista relativa a uno dei suoi capolavori, Il Servo (1963): “Per me il film è solo un film sulla servilità, servilità della nostra società, servilità del padrone, servilità del servo e servilità nell’atteggiamento di ogni specie di persona che rappresenta classi e situazioni diverse […]. È una società della paura, e nella maggior parte dei casi la reazione davanti alla paura non è la resistenza o la lotta, ma la servilità, e la servilità è uno stato dello spirito.” Questo impulso percorre tutto il film in ogni senso e direzione, pervadendo personaggi e classi sociali. Servile è naturalmente l’atteggiamento di Leporello nei confronti del padrone, ma servili sono altresì le figure femminili nei confronti del superuomo Don Giovanni, così come quest’ultimo lo è nei loro, e tutto perché ciascuno dei personaggi teme di perdere o di non ottenere ciò che desidera. In tal modo ciò che nasce come un atteggiamento indotto dalle circostanze diviene un habitus, una seconda natura.
Analogo discorso può essere condotto a proposito delle classi sociali, di cui i singoli personaggi sono rappresentazione. La servilità dei domestici è ovvia e fuori discussione; lo è invece un po’ meno quella del padrone “liberale” Don Giovanni nei confronti di Leporello, che, quando fa mostra di volersene andare definitivamente viene circuito con mille moine (e qualche moneta) dal suo signore, il quale, non appena ottiene ciò che vuole, riprende però a trattarlo come uno zerbino. Servili sono anche i contadini, irretiti dalla munificenza populista del nobiluomo che elargisce loro “cioccolata, caffè, vini, prosciutti” e un po’ di svago, così come lo è, almeno inizialmente, anche Masetto (“chino il capo e me ne vo”), che lascia andare via, solo con qualche timido accenno di protesta, la sua promessa sposa con Don Giovanni. Servile è altresì la nobiltà, nei confronti dell’ordine che essa stessa ha creato: regole, precetti e costumi che il letteralmente “scostumato” Don Giovanni continua a infrangere. Servile è anche, in ultima istanza, l’atteggiamento di un’intera epoca e di un’intera società, che fondamentalmente hanno paura di se stesse, risultando perciò incapaci di redimersi e rinnovarsi.
L’unico rapporto che, pur contemplando la vendetta (e senza alcun accenno di servilità), ne trascende l’aspetto meramente pulsionale è quello fra il Commendatore e Don Giovanni. Esso può essere interpretato sia psicanaliticamente, come contrapposizione fra Legge e Desiderio, fra Super-Io ed Es, fra padre e figlio (si tenga presente, a tal proposito, il problematico rapporto fra Mozart e la figura dell’autoritario genitore), ma anche e forse soprattutto come conflitto fra Vecchio e Nuovo, come già si accennava. Infatti, pur essendo Don Giovanni un nobile dispotico e demagogo, quindi tutt’altro che un simbolo di effettiva novità e trasformazione, l’unico che ne avrà ragione sarà un membro della vecchia nobiltà e del vecchio potere. Una volta sconfitto l’eversore, l’ordine preesistente potrà finalmente essere ristabilito.
Don Giovanni è, in ultima analisi, una figura di confine, a suo modo un rivoluzionario, un inattuale, prigioniero della libertà di esercitare impunemente e smodatamente i propri desideri, torbidi e sensuali a un tempo, un illuminista e un romantico, un folle, un anarchico ribelle, un egocentrico ed edonista ebbro di vita e di morte, non poi così distante da un illustre e sinistro “fratello di sangue”: Donatien-Alphonse-François De Sade. Le parole che quest’ultimo scrisse dal carcere alla moglie nel novembre del 1783 possono servire da epitaffio per entrambi: “Prepotente, collerico, violento, eccessivo in tutto, di una sregolatezza senza eguali nell’immaginazione erotica, ateo sino al fanatismo: eccomi in due parole; e ancora una cosa, ammazzatemi o prendetemi come sono, perché io non cambierò.”
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Revival 60/70/80
Scheda tecnica
Regia: Joseph Losey
Anno: 1979
Durata: 176’
Soggetto e sceneggiatura: Joseph Losey, Rolf Liebermann, Patricia Losey, Frantz Salieri (dal libretto di Lorenzo Da Ponte)
Fotografia: Angelo Filippini, Gerry Fisher
Montaggio: Reginald Beck, Emma Menenti
Musiche: Wolfgang Amadeus Mozart
Interpreti: Ruggero Raimondi, John Macurdy, Edda Moser, Kiri Te Kanawa, José Van Dam, Teresa Berganza, Malcolm King, Kenneth Riegel, Eric Adjani
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