La commissione composta da Nicola Borrelli, Martha Capello, Liliana Cavani, Tilde Corsi, Caterina D'Amico, Piera Detassis, Andrea Occhipinti e Giulio Scarpati ha scelto il candidato palesemente più forte e accreditato per rientrare nella cinquina finale (l’Italia manca dal 2003, quando a spuntarla fu La bestia nel cuore di Cristina Comencini), acclamato da uno stuolo di recensioni entusiaste nel Regno Unito e molto apprezzato anche oltreoceano, dove il New York Times l’ha elevato a simbolo della decadenza italiana anche se tirando in ballo la metafora non troppo illuminata e originale della Concordia (con riferimento, tra l’altro, a una scena in particolare del film in cui Servillo/Jep Gambardella osserva il relitto).
La ricezione del film in Italia, naturalmente, non poteva che essere ben più controversa. Perché La Grande Bellezza parla del presente di una nazione regredita al totale svuotamento di senso del gesto e dell’azione, dove tutto è apparenza, medietà diffusa se non mediocrità imperante, abisso di inerzia e paralisi, con la cultura ridotta a scheletro sgretolato in nome dei fari luccicanti e distorti della patina esteriore. Naturale dunque che l’irritazione, il rifiuto, la repulsione montante in qualcuno abbiano superato il livello di guardia dando vita ad una selva di detrattori fitta almeno quanto quella degli entusiasti tout-court. Arrivando ad attribuire al film gli stessi vizi (sopraindicati) della realtà che vorrebbe ritrarre.
Il film di Sorrentino non può davvero fare a meno di innescare una connivenza tra se stesso e l’oggetto del suo vagare, verrebbe da dire, più che narrare. È la sua controversia più grande, forse anche il suo potere maggiore. È un film peregrino, dandy fuori tempo massimo, bigger than life, anacronistico e necrofilo perché parla di un paese e di un passato ormai morti, dove c’è tutto e allo stesso tempo non c’è nulla proprio come a Roma, città che più di ogni altra è metafora del Belpaese perché sembra non avere spalle abbastanza larghe per sopportare il peso della sua grandezza.
Il film invece ce le ha, anche nell’ipertrofismo e nei dolly di troppo. Avrà i suoi difetti, compiacimenti, montaggi malfermi di scrittura (e di montaggio), ma è un film che innalza il linguaggio cinematografico e i suoi strumenti, anche artificiali, soprattutto retorici. La sua forza sinestetica dispiacerà a chi fa dei voti di castità estetica una ragione morale ed etica sempre e comunque, ma è indubbiamente potente. E merita il riconoscimento ottenuto fino in fondo (a giudizio di chi scrive), non fosse altro per l’ambizione e la portata del suo sguardo.
Dando uno sguardo ai candidati degli altri paesi finora annunciati (qui sotto la lista), l’impresa non sembra proibitiva, nonostante l’ovvia presenza di tanti film di sicuro valore e importanza. In questi casi, molto spesso la differenza può farla il livello della campagna promozionale negli States. Il 16 Gennaio sapremo.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: News
FRANCIA Renoir di Gilles Bourdos.
REGNO UNITO Metro Manila di Sean Ellis.
SPAGNA SHORTLIST: Alacrán enamorado di Santiago A. Zannou; 15 anos y un día di Gracia Querejeta; La gran familia espanola di Daniel Sanchez Arévalo; Cani¬bal di Manuel Martín Cuenca.
GERMANIA Two lives di Georg Maas.
POLONIA Walesa. Man of Hope di Andrzej Wajda.
BELGIO The Broken Circle Breakdown di Felix Van Groeningen.
PORTOGALLO Lines of Wellington di Valeria Sarmiento.
SVEZIA Eat Sleep Die di Gabriela Pichler.
DANIMARCA SHORTLIST: Il sospetto di Thomas Vinterberg; Northwest di Michael Noer; The Act of Killing di Joshua Oppenheimer.
NORVEGIA SHORTIST: It's Only Make Believe di Arild Astin Ommundsen; I Am Yours di Iram Haq; Pioneer di Erik Skjoldbjærg.
FINLANDIA A Disciple di Ulrika Bengts.
ROMANIA Il caso Kerenes di Calin Peter Netzer.
UNGHERIA The Notebook di Janos Szasz.
BULGARIA The Color of the Chameleon di Emil Hristov.
LETTONIA Mother, I Love You di Janis Nords.
GIAPPONE The Great Passage di Yuya Ishii (preferito a sorpresa al favorito Like Father, Like Son di Hirokazu Kore-Eda)
SLOVENIA: Class Enemy di Rok Biček (visto alla Settimana della Critica di Venezia 70)