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LOCARNO 69 - Beduino, di Julio Bressane

18/8/2016

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​Il pennino nero per colui che lo legge traccia nel margine bianco della vulva mostro: essere Tu essendo Io, essere altri: senza bisogno di essere io! Parole scambiate tra la china che scrive e la china lettore, star nudo a sognare ossessogni e star. (Julio Bressane)

Un uomo e una donna in un cammino ubriaco e cieco; passi sconnessi ed incerti lungo una strada, prima in salita poi in discesa; è una curva stretta quella in cui i due si muovono, si sfiorano, ma non si toccano, non si vedono. I loro sguardi sono dirottati altrove, un altrove lontano e perso, forse mai trovato. I loro occhi si cercano ma non si trovano, mai. Lo sguardo si sposta, catapultato in un set, dalla realtà si passa alla finzione cinematografica; i protagonisti sono sempre loro, l’uomo e la donna, la coppia, l’impossibilità di comunicare e l’assenza di linguaggio tra i due, che parlano lingue diverse; le loro parole sono convogliate in monologhi solipsistici, anche i loro discorsi non si incontrano; per dirla alla Bene, “è lacerazione ossessiva e inconsolabile rimpianto d’unità originaria”. 

Beduino è la più recente opera di Julio Bressane, presentata nel corso dell’ultima edizione del Festival del film Locarno, in Signs of Life, sezione che si propone di indagare i territori di frontiera e la sperimentazione in campo cinematografico; il regista brasiliano, attraverso una mise en scene raffinata ed elegante, con interni rubati a Balthus, porta in scena l’incomunicabilità della coppia, un saggio sull’amore e sulla sua mancanza di parola, ma alla costante ricerca del desiderio. 
Testo intriso di sfacciato erotismo e di una sensualità densa e carnale, sin dalle sue prime battute il film si fa materico, accendendosi su corpi, uomo e donna, vissuti, barocchi e dalle forme esuberanti. Lei è l’incarnazione del desiderio, le labbra carnose e socchiuse che avidamente si dissetano di liquidi, forse assenzio, e si immergono in una liquidità corporale, un’estasi sensuale e voluttuosa, per non perdere nemmeno una goccia dell’altro. In un gioco di orgasmi simulati, desiderati, cercati e metaforicamente inscenati, il viso della donna viene inondato, la sua voce lenta e profonda ha un ritmo cadenzato, come un canto ammaliante, una sirena che attira a sé l’essere agognato. Enfatica, esagerata, volutamente ridondante, proprio come è la passione, ma condita da un pizzico di ironia: così la costruzione filmica conduce l’opera a deviare su una contorsione narrativa sopra le righe. 
Le prime parole pronunciate, quelle che aprono il film, sono mutuate da un componimento di Oswald de Andrade, la poesia Amour, il cui testo è affidato a un unico verbo, Humour; in questo sillogismo sintattico va letto, con molta probabilità, lo snodo narrativo del film di Bressane. L’enfasi del riso, la leggerezza del desiderio che supplisce ad un’incomunicabilità dovuta a nature distanti e contrastanti, come nel binomio uomo/donna, è necessario, forse fondamentale. Dopo un inizio frammentato, dal piano sequenza iniziale su una scena in costruzione, un fuori set fa deragliare la realtà nella finzione, la vita nell’immaginario; lo sguardo è illuminato da una presa di coscienza subitanea: l’artificio del metacinema svela i due protagonisti nei loro ruoli, attori nelle vesti di una coppia che recita la finzione dell’amore. 
Bressane impreziosisce la sua opera con una maniacale cura estetica per l’immagine, adottando un registro visivo che è ipnosi per gli occhi e al quale ha abituato il suo più fedelissimo spettatore: “l’immagine cinematografica raccoglie l’essenziale delle altre arti, ne è l’erede, è quasi il modo d’impiego delle altre immagini che converte in potenza quel che era soltanto possibilità” (1). Il corpo, mostrato, accarezzato, sognato nella sua prorompenza, inspessisce le immagini; le ombre si fanno materiche, emerge da lenzuola bianche che velano seni, fianchi e il volto di Surm, che nella sua ritmica portoghese dà voce e forma all’erotismo, in una frammentazione visiva, pari a quella del linguaggio adottato, in cui la realtà si confonde con il sogno, si scivola in enunciati onirici e a parlare è il desiderio.
​Trenini fallici e bolle di sapone, campi di battaglia, coccodrilli, fucilate e cannonate, sono le metafore cui il regista affida la descrizione della lotta tra l’uomo e la donna; l’impossibilità di comunicare, la morte del linguaggio, non possono essere narrate che da immagini frammentarie. Il regista “ricorre alla scomposizione dell’immagine perché la mette in atto come tale nella continuità della rappresentazione, ferita in se stessa dall’impossibilità dei corpi a riunirsi” (2) .

1) Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, pag. 175.
2) Raymond Bellour, Fra le immagini, Bruno Mondadori, Milano - Torino, 2007.

Ai sensi viene conferita voce e forma, le fantasie erotiche prendono vita in un mondo onirico che vuole tramutarsi in realtà aggirando il conflitto bellico uomo/donna, enfatizzato anche dalle scene di Memorie di uno Strangolatore di Bionde. Bressane esalta la sensualità della sua ultima opera anche grazie a una fotografia caratterizzata da colori caldi, con tonalità che virano sul seppia avvolgendo gli ambienti interni in cui si muovono i due, in campi stretti che sembrano soffocare la coppia; la mdp si avvicina talmente ai corpi che sembra quasi simulare un rapporto sessuale, anch’essa alla ricerca del piacere, un piacere legato allo sguardo in una sublimazione orgasmica totalizzante. 
L'occhio subisce il fascino di un linguaggio estetico e narrativo impreziosito da sperimentazioni, sospensioni del tempo e silenzi, dove tutto è presente e assente. In una costruzione quasi circolare, Beduino finisce là dove era iniziato, in un riavvolgersi continuo intorno ai sensi e al desiderio di un’unione impossibile, di una diversità incolmabile, ma dove la carnalità riesce a colmare gli spazi tra le anime e a dare vita agli ossessogni di uno scopritore di stelle.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Locarno 69


Scheda tecnica
​
Regista: Júlio Bressane
Interpreti: Alessandra Negrini , Fernando Eiras
Fotografia: Pepe Schettino, Pablo Baião
Musiche: Júlio Bressane
Sceneggiatura: Júlio Bressane, Rosa Dias
Anno: 2016
Durata: 75'

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LOCARNO 69 - El futuro perfecto, di Nele Wohlatz

16/8/2016

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​Da poco stabilitasi a vivere all'interno di una Buenos Aires caotica e multiculturale, dopo aver raggiunto la famiglia che vi gestisce una lavanderia-tintoria da qualche anno, la diciassettenne Xaobin (Zhang Xiaobin) si immerge in un altro mondo, visivamente ma soprattutto linguisticamente sconosciuto. Questa è la maggior difficoltà pratica che incontra nel suo nuovo vivere. Dall'ordinare al ristorante, al parlare con Vijai (Saroj Kumar Malik), ragazzo indiano socialmente già meglio inserito che inizia a frequentare, al doversi integrare nel lavoro all'interno di un supermercato senza conoscere minimamente i termini che indicano la merce che deve vendere, tutto diventa un ostacolo, un muro da scavalcare. 
Xiaobin decide di pagarsi un corso per imparare lo spagnolo, di nascosto dai genitori, perché la loro mentalità non prevede interferenze “inutili” con altre culture, né frequentazioni con persone di etnia diversa dalla loro. Il punto di vista della narrazione, secondo un meccanismo consapevolmente pianificato e soppesato per ogni singola inquadratura, ci porta di volta in volta da un contesto ambientale a un altro, seguendo i passi della ragazza, che scoprendo la città trova anche nuove possibilità, e allarga la sua visuale mentale mano a mano che riesce a comprendere maggiormente la lingua.

Presentato a Locarno nella sezione Cineasti del Presente, e premiato come migliore opera prima, El futuro perfecto si è rivelato come una delle piacevoli sorprese riservate dal festival. Un lavoro fresco, originale, ma al contempo anche ironico e divertente, che trova la sua forza in una scelta stilistica di espressione della forma e dei contenuti coraggiosa e di non facile effettuazione. La regista e sceneggiatrice Nele Wohlatz infatti mette sul piatto una finzione filmica in cui una trama all'apparenza semplice è rielaborata e arricchita da sfaccettature che danno ampio spessore e profondità al tema trattato, attribuendogli però un tono di gradevole leggerezza.     
Uno dei meriti del film della Wholatz è proprio trattare un tema dalle sfumature sociali e politiche potenzialmente pesanti, quello dell'immigrazione e delle relative difficoltà d'integrazione, con sorrisi e ironia, e in seconda lettura anche con occhio fiducioso, aperto e positivo verso il futuro, ponendo in antitesi l'atteggiamento mentale dei genitori e della comunità cinese con quello di Xiaobin, che sceglie di spezzare le tradizioni di chiusura e auto-isolamento tipiche della cultura a cui appartiene, per aprirsi invece a un mondo di infinite possibilità, quelle della vita.
È interessante notare come siano presenti più livelli e piani di prospettiva, incastrati perfettamente nella costruzione del lavoro: accanto a Xiaobin scorrono le vite delle migliaia di persone che abitano la città, a fare da sfondo; su un piano ravvicinato, ma comunque di contorno, esiste la comunità cinese, chiusa e impermeabile alle influenze esterne, di cui lei stessa e i genitori fanno parte; poi c'è il punto di vista centrale della protagonista, che a tratti trasla rapidamente (con una semplicità disarmante ma più complessa rispetto a ciò che risulta alla percezione) dalla realtà concreta a una, anzi più, realtà virtuali, catapultando lo spettatore in possibili finali e circostanze che nascono dall'immaginazione della stessa Xiaobin, intervistata dalla sua insegnante di lingue durante il corso di spagnolo. 
Attraverso un gioco che è come un caleidoscopio di colori e situazioni variegate, vediamo così la ragazza raggiungere la consapevolezza che è lei stessa a scegliere la sua vita, imparando la nuova lingua e catturando quella realtà che diventerà il suo futuro.

Amanda Crevola

Sezione di riferimento: Locarno 69


Scheda Tecnica

Titolo originale: El futuro perfecto
Regista: Nele Wohlatz
Attori: Zhang Xiaobin, Saroj Kumar Malik, Jiang Mian, Wang Dong Xi, Nahuel Pérez Biscayart
Fotografia: Roman Kasseroller, Agustina San Martin 
Montaggio: Ana Godoy
Anno: 2016
Durata: 65'

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LOCARNO 69 - Il palmarès: Pardo d'Oro al bulgaro Godless

13/8/2016

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Iniziamo a credere di avere una certa affinità elettiva nei confronti del festival di Locarno. Se infatti già lo scorso anno l'esito del concorso aveva accolto i nostri favori, con il Pardo d'Oro vinto dal bellissimo Right Now Wrong Then di Hong Sang-soo e il premio per la regia assegnato allo sconquassante Cosmos di Zulawski, quest'anno la giuria capitanata da Arturo Ripstein ha ancora maggiormente condiviso le nostre aspettative.
​Il Pardo d'Oro è andato infatti al potentissimo e devastante Godless, di Ralitza Petrova, opera di altissimo spessore che da adesso potrà percorrere una lunga e felice strada, con una probabile candidatura all'Oscar per la Bulgaria e la viva speranza che qualcuno anche in Italia si degni di distribuirlo nelle sale. Al trionfo di Godless, premiato anche per la migliore attrice, aggiungiamo la soddisfazione per i riconoscimenti destinati al polacco The Last Family (migliore attore) e all'italo-austriaco Mister Universo (menzione speciale). Segnaliamo inoltre il premio come migliore opera prima, vinto dall'interessantissimo film argentino El Futuro Perfecto, e il Variety Piazza Grande Award, assegnato al notevole Moka di Frédéric Mermoud.
​Come e più dell'anno scorso, dunque, un palmarès che ci regala molta gioia, cosa che molto spesso non accade nei grandi festival internazionali, ma che a Locarno pare ormai essere diventata una (lietissima) consuetudine. 

Qui sotto l'elenco completo dei premiati. Cliccando sui titoli sopra evidenziati potete ovviamente leggere le nostre recensioni dei film in oggetto.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno 69

​
Concorso internazionale
​
Pardo d’oro
GODLESS di Ralitza Petrova, Bulgaria/Danimarca/Francia
Premio speciale della giuria
INIMI CICATRIZATE (Scarred Hearts) di Radu Jude, Romania/Germania
Pardo per la miglior regia
JOÃO PEDRO RODRIGUES per O ORNITÓLOGO, Portogallo/Francia/Brasile
Pardo per la miglior interpretazione femminile
IRENA IVANOVA per GODLESS di Ralitza Petrova, Bulgaria/Danimarca/Francia
Pardo per la miglior interpretazione maschile
ANDRZEJ SEWERYN per OSTATNIA RODZINA (The Last Family) di Jan P. Matuszyński, Polonia
Menzione speciale
MISTER UNIVERSO di Tizza Covi, Rainer Frimmel Austria/Italia

Concorso Cineasti del presente

Pardo d’oro Cineasti del presente – Premio Nescens
EL AUGE DEL HUMANO di Eduardo Williams, Argentina/Brasile/Portogallo
Premio speciale della giuria Ciné+ Cineasti del presente
THE CHALLENGE di Yuri Ancarani, Italia/Francia/Svizzera
Premio per il miglior regista emergente
MARIKO TETSUYA per DESTRUCTION BABIES, Giappone
Menzione Speciale
VIEJO CALAVERA di Kiro Russo, Bolivia/Qatar

First Feature

Swatch First Feature Award (Premio per la migliore opera prima)
EL FUTURO PERFECTO di Nele Wohlatz, Argentina
Swatch Art Peace Hotel Award
MAUD ALPI per GORGE CŒUR VENTRE, Francia
Menzione speciale 
EL AUGE DEL HUMANO di Eduardo Williams, Argentina/Brasile/Portogallo

Pardi di domani

Concorso internazionale
Pardino d’oro per il miglior cortometraggio internazionale – Premio SRG SSR
L’IMMENSE RETOUR (ROMANCE) di Manon Coubia, Belgio/Francia
Pardino d’argento SRG SSR per il Concorso internazionale
CILAOS di Camilo Restrepo, Francia 
Nomination di Locarno agli European Film Awards – Premio Pianifica
L’IMMENSE RETOUR (ROMANCE) di Manon Coubia, Belgio/Francia
Premio Film und Video Untertitelung
VALPARAISO di Carlo Sironi, Italia 
Menzione speciale
NON CASTUS di Andrea Castillo, Cile
Concorso nazionale
Pardino d’oro per il miglior cortometraggio svizzero – Premio Swiss Life
DIE BRÜCKE ÜBER DEN FLUSS di Jadwiga Kowalska, Svizzera
Pardino d’argento Swiss Life per il Concorso nazionale
GENESIS di Lucien Monot, Svizzera
Best Swiss Newcomer Award 
LA SÈVE di Manon Goupil, Svizzera

Prix du Public UBS
I, DANIEL BLAKE di Ken Loach, Gran Bretagna/Francia/Belgio 

Variety Piazza Grande Award
MOKA di Frédéric Mermoud, Francia/Svizzera 
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LOCARNO 69 - Mister Universo, di Tizza Covi e Rainer Frimmel

13/8/2016

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​Tairo è un domatore di leoni. Viene da una famiglia che ha una lunga tradizione nel mondo del circo, e anche lui da tempo lavora nel medesimo ambiente. Il ragazzo subisce un momento non facile: uno degli animali con cui ha fatto il suo numero per tanto tempo è appena morto, un altro è ormai anziano e malato. Un giorno sparisce dalla sua roulotte un portafortuna a cui era molto affezionato: un pezzo di ferro che tanti anni prima era stato piegato apposta per lui dall'erculeo Arthur Robin, vincitore del premio di Mister Universo. Triste e deluso, Tairo decide di prendersi qualche giorno di pausa dagli spettacoli e intraprende un viaggio per l'Italia alla ricerca di Robin, senza peraltro sapere se l'uomo sia ancora vivo, con l'obiettivo di farsi dare un nuovo pezzo di ferro da usare come amuleto. 

Unico titolo italiano selezionato per il concorso di Locarno, anche se in realtà di produzione italo-austriaca, Mister Universo è l'ultimo lavoro diretto dalla coppia formata da Tizza Covi e Rainer Frimmel, duo che già in passato aveva realizzato film ambientati nel mondo del circo, in particolare La pivellina (2009) e Der Glanz des Tages (2012), quest'ultimo premiato proprio a Locarno. Gli autori, lei bolzanina lui austriaco, tornano in competizione in Svizzera con un'interessante opera che segue una tendenza sempre più costante in questi ultimi anni, ovvero la commistione tra finzione e documentario, una sorta di nuova moda che non sempre regala risultati di rilievo, ma che in questo caso riesce a trovare un sorprendente e ottimo equilibrio.
Frimmel e la Covi decidono di mettere in scena l'ambiente circense fotografandolo dal basso, cioè concentrandosi su compagnie piccole, che lavorano nei paesi di provincia e ogni sera vanno in scena per un pubblico limitato, talvolta quasi inesistente. Il circo appare subito come una vera e propria famiglia, un mondo in miniatura governato in fondo dalle stesse leggi che guidano ogni tipo di struttura collettiva, con i suoi sinceri affetti ma anche con i rancori, le invidie, le superstizioni, le incompatibili differenze caratteriali, le incomprensioni, i dispetti, gli scatti di rabbia. Metafora della vita, il circo diventa così un luogo dove cercare se stessi, inseguire la propria felicità, ripensare al passato, governare il presente e sognare un futuro migliore. 
Partendo da queste basi, il viaggio del domatore di leoni Tairo alla ricerca di Arthur Robin, suo idolo d'infanzia, si tramuta in un percorso iniziatico destinato alla ricerca di una pace interiore ormai traballante; lungo la via Tairo incontra parenti e amici, condividendo ricordi e speranze, aiutato a distanza dal casto ma intenso sentimento di chi vorrebbe stargli più vicino (la contorsionista che lavora con lui) e spinto dal desiderio di riabbracciare la propria giovinezza e trovare al contempo nuova linfa con cui ridare slancio a un entusiasmo sepolto sotto le incombenze di una quotidianità, quella circense, molto meno sfavillante di quanto dall'esterno si potrebbe credere. 
Mister Universo è un'opera più che apprezzabile per come riesce a unire i due percorsi stilistici sopra citati, la finzione e il documentario, lasciandoli correre in sincrono senza che uno prenda mai il sopravvento sull'altro, sino a fonderli in un oggetto filmico originale che non offre chissà quali (inutili) sensazionalismi, ma sa donare una narrazione sincera, intima e appassionante, che scorre con incantevole fluidità facendoci comprendere appieno sia le dinamiche precipue dell'ambiente circense, sia i sentimenti del suo protagonista, bravo, come tutti gli altri “attori”, a recitare la parte di se stesso senza alcun apparente sforzo. 
Nella sua impeccabile compattezza stilistica Mister Universo, dedicato “a tutte le persone che hanno perso il lavoro a causa della digitalizzazione del cinema”, risulta un film allo stesso tempo empatico e nostalgico, vero e coinvolgente, in qualche tratto anche emozionante. Un'agrodolce fiaba in movimento con cui entrare in punta di piedi negli occhi di un leone anziano ormai stanco di esibirsi, nella disperazione per la perdita di un indispensabile pezzo di ferro, nelle affascinanti storie che accompagnano clown, ballerine e giocolieri, nella serena malinconia di un ex “uomo più forte del mondo” che ormai non ricorda quasi più nessuno, nella fatica con cui smontare e rimontare ogni volta il tendone e le attrezzature per trasferirsi in un altro paese ed esibirsi magari davanti a dieci persone. 
È l'altra faccia delle luci della ribalta, quella che non si vede ma che spesso fonda su di sé la mutevole essenza di tutta una vita da artista.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno 69


Scheda tecnica

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel
Attori: Tairo Caroli, Wendy Weber, Arthur Robin, Lilly Robin
Fotografia: Rainer Frimmel
Sceneggiatura: Tizza Covi
Montaggio: Tizza Covi
Anno: 2016
Durata: 90'

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LOCARNO 69 - Dao Khanong (By the Time It Gets Dark), di A. Suwichakornpong

12/8/2016

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​“Perché vuoi girare un film su di me? Forse perché la mia vita è noiosa e non ho mai vissuto; tu, invece, sei una parte della storia di questo Paese”. 
​
Destini che si incrociano e vite che scorrono in parallelo, mentre sullo sfondo si alternano, tra realtà e finzione, le immagini di una Thailandia animata da lotte politiche e raccontata attraverso il suo vivere quotidiano, tra tradizioni culturali e religiose. In concorso alla sessantanovesima edizione del Festival di Locarno arriva Dao Khanong (By the Time It Gets Dark), della regista thailandese Anocha Suwichakornpong, opera tanto suggestiva quanto lisergica e straniante, ma di una bellezza che assume i toni di una lirica struggente, inscenata tra simbologie e metafore surrealiste, atmosfere oniriche catapultate tra le lotte politiche studentesche e il cinema nel suo divenire. 

Una giovane regista lavora alla sceneggiatura del suo prossimo film, incentrato sulla figura di un’attivista politica, affascinata dalla personalità magnetica della donna, per la tenacia e la forza con cui questa ha caratterizzato la storia del suo Paese, lottando sin da studentessa per i diritti e la libertà del suo popolo; la regista si smarrisce, e cercando di raccontare l’altra, rincorre se stessa.
Insoddisfatta della sua vita, mai vissuta pienamente e priva della passione che invece ha caratterizzato l’esistenza della sua musa, in un delirio onirico, forse amplificato da un'ingestione di funghi, si ritrova in una foresta a inseguire un bambino, stranamente vestito da giovane leone, ma in uno strano gioco di campi e controcampi, di immagini quasi specchiate e ribaltate, scopre che la preda così ambita non è altri che se stessa. Le metafore si susseguono in un dialogo serrato tra immagini irreali e kafkiane, sospese tra il sogno e la realtà. Un fungo blu, luminoso e sfavillante, trovato nella radura alla fine dell’estenuante corsa, forse simboleggia la morte e la rinascita della giovane donna, della sua nuova consapevolezza di se stessa. Da soggetto narrante della vita dell’altra, la regista diventa essa stessa oggetto della narrazione, iniziando ad essere. 
​
Anocha Suwichakornpong costruisce il suo lavoro come una matrioska, un film in un film, metacinema in conversazione con lo spettatore, che, inconsapevolmente, osserva il processo creativo cinematografico. Dall’idea di cinema e dalla stesura di una sceneggiatura si passa all’opera, il film con i suoi interpreti e i suoi soggetti: gli attori, ritratti nelle loro vite quotidiane e sulla scena. 
Il film pensato dalla giovane regista prende vita con i suoi interpreti nella stessa finzione cinematografica. L’autrice thailandese ritrae, con lirismi altissimi, la quotidianità del cinema anche fuori dalla scena; si affida ai dettagli per raccontare l’erotismo di una mano che trattiene una sigaretta, tra i ghirigori disegnati dal fumo, la carnalità di una bocca socchiusa, le labbra tumide e gli occhi ardenti di un attore che guida verso il set; e poi la sensualità di un risveglio dopo una notte d’amore, un uomo nudo, l’attore, privo della sua maschera e del costume di scena, in compagnia della sua donna. “Mi piacciono i tuoi occhi, mi piace la tua bocca”: lei, vestita, lo accarezza e gli sussurra parole dolci, stesi in un letto mentre il giorno inizia. 
Vita e cinema, quotidiano e set, scambi continui di linfa, vita che si muta in cinema e il cinema che si racconta nelle sue fasi, in repentini cambiamenti di registro, che se da un lato confondono lo sguardo dello spettatore, dall’altro fondono due realtà così vicine e comunicanti tra loro. L’esistenza è raccontata dalla mdp, che da sempre osserva e trasforma il reale. “Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà”: un’osmosi continua, come Godard affermava in un’intervista di qualche tempo fa. 
Anche la morte entra nella macchina cinematografica, non bloccando i suoi ingranaggi; quando l’attore, così amabilmente dipinto da Suwichakornpong, viene strappato alla vita, il congegno magico del cinema non si ferma. Tutto è in movimento, le fasi di produzione inevitabilmente devono andare avanti, montaggio ed editing, ma la bellezza viene sublimata dall’eternità, il dono più grande che si possa ricevere, la finzione dell’immortalità, o forse sarebbe più corretto dire, l’immortalità della finzione. Intorno all’illusione filmica la società, con le sue abitudini e i suoi riti, alimenta il quotidiano: la gente comune affascinata dallo sfavillio delle star, le persone che lavorano tra i ritmi frenetici della metropoli thailandese. 
​
Dao Khanong si rivela non solo un gesto artistico di grande impatto visivo e di una potenza folgorante, ma anche un audace tentativo di dare corpo alla materia filmica nel suo processo di elaborazione, il cinema raccontato dal cinema, attraverso affascinanti suggestioni poetiche che raccontano il reale con l’uso simbolico della metafora, le allusioni delle immagini e del non detto; il giovane leone che osserva nella foresta, smarritosi o solo forse in attesa di essere trovato, è la rappresentazione di una giovane potenza, di un mutarsi dell’essere che rinasce a nuova vita, realtà, sogno o finzione? Forse è la rilettura di una simbologia appartenente al buddismo, così come i funghi e le muffe presenti nella prima parte del film, che come raccontano i sacri testi di Pali, sono tra gli artefici della morte di Buddha. 
Nella digressione finale, l’attore e la sua donna incedono lentamente, fianco a fianco; le loro mani si sfiorano, la realtà e l’illusione; poi l’assordante ritmo della musica tecno, una ragazza balla travolta dalla musica, lo schermo si riempie di pixel e di colori acidi, illusori; lo sguardo è condotto lentamente alla realtà, dalla bellezza artificiale alla bellezza della natura, perché bisogna nutrire gli occhi per sognare, e come afferma Paul Verlaine in Kaleidoscope, “sarà come quando pare d'aver già vissuto”.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Locarno 69


Scheda tecnica
 
Regia: Anocha Suwichakornpong
Attori: Arak Amornsupasiri, Atchara Suwan, Visra Vichit-Vadakan, Inthira Charoenpura, Rassami Paoluengtong
Fotografia: Ming Kai Leung
Musiche: Wuttipong Leetrakul
Sceneggiatura: Anocha Suwichakornpong
Montaggio: Lee Chatametikool, Machima Ungsriwong
Anno: 2016
Durata: 105'

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LOCARNO 69 - Godless, di Ralitza Petrova

12/8/2016

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​Nel momento in cui era stato annunciato il programma di Locarno 69, aveva destato una certa curiosità il fatto che nel concorso internazionale fossero state inserite ben due opere provenienti dalla Bulgaria, nazione la cui presenza nei grandi festival non è così usuale. A manifestazione ormai conclusa, diventa ancora più sorprendente notare come proprio i due film bulgari si siano rivelati, in assoluto, i titoli migliori della selezione. 
Dopo il bellissimo Slava, della coppia Grozeva/Valchanov, ha infatti entusiasmato anche Godless, primo lungometraggio della regista Ralitza Petrova, supportato in fase produttiva da Torino Film Lab e in grado, con la stessa forza devastante dell'altra pellicola citata, di fotografare le macerie di un paese in cui l'amoralità e l'assenza di giustizia guidano le sorti di un popolo sfibrato e ormai quasi totalmente privo di sogni e speranze.

Gana è un'infermiera che si occupa dell'assistenza a domicilio ad anziani malati di demenza senile. Contemporaneamente, la ragazza partecipa a un losco traffico di carte d'identità per il mercato nero. Ogni avvenimento pare scorrerle addosso senza provocare alcuna evidente reazione, ivi compreso l'assassinio, da lei indirettamente causato, di una donna che rischiava di rivelare i suoi affari illeciti. La fitta nebbia che ricopre l'esistenza di Gana si dirada lievemente solo quando conosce Yoan, ex soldato che ora dirige un coro; il suo canto soave la distoglie per qualche momento dallo spleen della quotidianità, almeno fino a quando lo stesso Yoan, perseguitato dalla polizia per frode, viene trovato morto nel suo appartamento. Colpita dall'evento Gana decide di porre fine al lato oscuro della propria esistenza, scelta che porterà a conseguenze non certo accomodanti.

Girato in 4:3, per pedinare in modo più ravvicinato gli interpreti della vicenda, Godless ingabbia lo spettatore in una narrazione tetra e soffocante, acuita da toni cromatici grigi che ne sottolineano la durezza emotiva. Gana (Irena Ivanova, attrice non professionista, poetessa nella vita reale) transita lungo quasi tutti gli avvenimenti della vicenda in perenne stato semi-catatonico, lasciandosi scivolare sulla pelle ogni evento. A qualsiasi domanda, considerazione o rimostranza dei pazienti lei risponde sempre e solo “è il mio lavoro”, come fosse un dato di fatto inalienabile e immodificabile, e nell'abulia del suo sguardo si racchiude la condizione generale di una comunità che pare non avere più alcuna voglia di ribellarsi alla catalessi di una nazione incrostata da ruggine, povertà e dolore. 
I personaggi di Godless sfidano a più riprese la legge senza sensi di colpa nell'infrangerla, si mettono al riparo dall'espiazione delle proprie colpe grazie a favori e connivenze, cenano con zuppe di verdure prive di sostanza e sapore, utilizzano il sesso come puro strumento di sfogo animale, lasciano andare in rovina lapidi dedicate alla memoria delle vittime del Comunismo; nel freddo eterno che li avviluppa essi deambulano senza mai alcuna voglia di sorridere: esemplificativo, a tal proposito, il passaggio in cui uno dei protagonisti afferma “quando mi sveglio la mattina, tengo gli occhi chiusi; non ho voglia di essere vivo”, o ancora la toccante scena in cui Gana, dipendente dalla morfina e infelice metà di un rapporto sentimentale privo di ardore, confida alla madre “vorrei amare, ma non posso. E tu neanche. Hai delle pillole per questo?”, salvo subito dopo abbracciarla, in una delle poche esternazioni di affetto ancora possibili. 
Il mondo di Godless, fotografato con concretezza e stile maturo e compiuto, è tenebroso, irrespirabile, perfino strangolante, tanto che dopo i titoli di coda, all'uscita della sala, risulta sconcertante notare come possa ancora splendere un sole sopra le nostre teste. Un'opera rigorosa, cinematograficamente impeccabile, dove le inquadrature ravvicinate lasciano sovente fuori campo la visione d'insieme dei luoghi in cui si svolge il racconto, acuendo così la fusione tra la finzione scenica e la fruizione del pubblico, e dove l'ampio utilizzo di soavi canti tradizionali ci trasporta in una sofferta liturgia da cui bere, volenti o nolenti, l'amaro nettare della rassegnazione.
In conferenza stampa a Locarno, e nel successivo e frizzante incontro con gli spettatori, Ralitza Petrova ha dichiarato che l'estrema cupezza del film vorrebbe, per paradosso, porsi come possibile strumento con cui contribuire alla nascita di una nuova speranza per il suo paese. Possiamo solo auspicare che ciò accada davvero, perché la Bulgaria ben rappresentata da Slava e da Godless è oggi una nazione in cui tante vite altro non sono se non prolungati inni funebri, designati ad accompagnare una lenta e inesorabile processione lungo il cammino della notte infinita.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno 69


Scheda tecnica

Regista: Ralitza Petrova
Attori: Irena Ivanova, Ivan Nalbantov, Ventzislav Konstantinov, Alexandr Triffonov, Dimitar Petkov
Fotografia: Krum Rodriguez, Chayse Irvin
Sceneggiatura: Ralitza Petrova
Montaggio: Donka Ivanova, Ralitza Petrova
Anno: 2016
Durata: 99'

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 LOCARNO 69 - Une jeune fille de 90 ans, di V. Bruni Tedeschi e Y. Coridian

9/8/2016

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Francia, ospedale geriatrico Charles Foix d'Ivry. La vita dei malati di Alzheimer del centro viene scandita da ritmi abitudinari e costanti, e variata da attività con cui il personale cerca di intrattenerli. Un uomo varca la soglia del reparto, si accosta ai pazienti in punta di piedi e a passi leggeri, di danza, sulle note di una musica ancora inudibile ma che colpisce subito dritto al cuore.
​Gestualità, linguaggio del corpo, sguardi carichi di una grande forza e presenza empatica, protesi in ricezione di una risposta e di sintonia: ogni movimento si imprime con pienezza prorompente e spontanea nella sensibilità e nella memoria (quella dell'anima e non soltanto della mente) di chi di fronte a lui, come dall'altra parte dello schermo, osserva e si fa coinvolgere dal crearsi di un incanto, che mette in scena una magia di emozioni.
È questo il modo in cui Thierry Thieu Niang, coreografo di fama mondiale, dà vita ai suoi atelier, utilizzando l'improvvisazione artistica e il calore umano per fare, della danza e della musica, strumenti e mezzi privilegiati di comunicazione e relazione profonda con “l'altro”, sfruttandone i valori sempre eterni di linguaggio universale. In questo senso, più che come Arte-terapia, questo concetto è tradotto come un risveglio alla vita, di esseri umani ossidati dal tempo, dalle ruggini dei ricordi in oblio e dalle ragnatele che avvolgono la mente. Persone per certi versi dimenticate e che si sono loro malgrado dimenticate di se stesse; persone che, per come è loro possibile a causa della ragguardevole età e dei problemi fisici, mentre danzano con Thierry si lasciano trasportare (sia in senso corporeo che emozionale) con sguardo rapito e reso ingenuo dalla malattia, ma felice di vivere quei momenti, quasi a poterlo raffrontare con quello di un bambino. 
La grande forza alla base dei laboratori del coreografo vietnamita-francese è proprio una  delicata e straordinaria capacità di interscambio e comunicazione, presa nella sua accezione più nuda ed essenziale: comunicare, dal latino communicare, cioé “mettere in comune”. Sentimenti, idee, ricordi, ideali, intenti: attraverso una fortissima empatia le emozioni passano dagli occhi di Thierry a quelli degli anziani pazienti, e viceversa, annullando i confini dell'individualismo e dell'identificazione solo con se stessi. 
Quegli occhi sono accoglienti nidi in cui perdersi, per poi ritrovarsi e riconoscersi. È ciò che succede a Blanche, una novantaduenne che durante le sessioni si innamora di lui.  Il suo amore, reso “puro” dalla malattia, più che per una persona fisica può essere visto come amore per la vita, e per ciò che l'agire del coreografo rappresenta idealmente. 
L'opera di Valeria Bruni Tedeschi (alle prese con un documentario per la prima volta) e Yann Coridian, presentata in anteprima mondiale fuori concorso a Locarno e accolta da grandi applausi, scorre limpida e scivola fluida, senza intoppi, lasciando spazio alle immagini, ai volti dei protagonisti e alle palpitazioni che trapelano dai loro sguardi, facendo sì che esse parlino da sole, senza dare necessariamente delle spiegazioni a riprese delicate, malinconiche e commoventi.
Seguendo i passi di Thierry, entriamo in un mondo di ricordi. La sua arte è come una metafora, una danza che fa ballare il corpo e cantare l'anima, di una gioia senza senso ma innata e insita dello spirito. Per sentirsi vivi, di nuovo, ora. Perché l'emozione non ha età.

Amanda Crevola

Sezione di riferimento: Locarno 69


Scheda tecnica

Regia: Valeria Bruni Tedeschi, Yann Coridian
Produzione: Marie Balducchi
Fotografia: Hélène Louvart
Montaggio: Anne Weil
Suono: Francois Waledisch
Durata: 85'
Anno: 2016

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LOCARNO 69 - Moka, di Frédéric Mermoud

7/8/2016

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​Diane è una madre disperata. Da qualche mese ha perso il proprio figlio adolescente, investito e ucciso a Evian da una macchina i cui proprietari sono fuggiti scomparendo nel nulla. La polizia non riesce a risalire agli autori del misfatto, così Diane, per scovare i colpevoli, decide di muoversi in autonomia e assolda un investigatore privato. L'indagine di quest'ultimo fornisce dati importanti: l'automobile era un modello anni '70 color Moka, e al suo interno un testimone ha visto un uomo e una donna bionda. Con queste tracce Diane riesce apparentemente a risolvere il caso, rintracciando un istruttore di fitness che vive a Losanna insieme alla sua compagna, profumiera, meno giovane di lui. I due personaggi sembrano aderire perfettamente agli indizi. Convinta di aver trovato i responsabili della morte del figlio, Diane si insinua gradualmente nelle loro vite, senza rivelare nulla riguardo alla propria identità; il suo piano è conquistare l'amicizia e la fiducia dei due (presunti) assassini, per poi assestare un'ambita vendetta.

Presentato in prima mondiale a Locarno in Piazza Grande, Moka (uscito in Italia a novembre con il titolo Per mio figlio) è il secondo lungometraggio di Frédéric Mermoud, anche regista di alcuni episodi della prima stagione della serie Les Revenants. Protagonista del suo debutto per il grande schermo (Complices, 2008) era stata Emmanuelle Devos, non a caso nuovamente cercata da Mermoud, il quale ha dichiarato di aver concepito il film in modo che l'attrice fosse presente sulla scena in ogni momento.
Il proposito è stato raggiunto: la Devos, nei panni di Diane, appare infatti davanti alla macchina da presa praticamente in ogni inquadratura, dall'inizio alla fine, trainando su di sé ogni connotazione narrativa di un lavoro che abbraccia le tematiche basilari del revenge movie, proponendo uno stile classicheggiante, vagamente chabroliano, in cui la trama dipana le sue coordinate con fare calmo e riflessivo. La sceneggiatura di Moka non offre guizzi scioccanti, né accelerazioni inattese: il piano tattico di Mermoud accompagna lo spettatore con sguardo sinuoso e composto, affiancandolo dolcemente intorno alla faticosa elaborazione del lutto di una madre che, nel fremente desiderio di rivalsa, trova l'unica via con cui combattere la devastazione emotiva che ne accompagna il presente. 
Diane, che cambia il proprio nome in Hélène nel momento in cui si trasferisce a Losanna per pedinare i due sospetti, comunica con le proprie prede usando l'arma del sorriso, respingendo la furia cieca che la accompagna; cerca di essere gentile e accomodante, partecipa a una lezione di ginnastica d'acqua con lui e si fa fare trucco e pedicure da lei. Nel contempo si fa dare una pistola da un contrabbandiere svizzero, aspettando il momento buono per rivelarsi e portare a termine la propria personale rivincita, pur consapevole che nessuna vendetta potrà mai restituirle il figlio perduto. 
​
Il film si snoda prendendosi i tempi necessari, senza facili svolte o soluzioni estemporanee capaci di far sobbalzare il pubblico; il desiderio di Mermoud è indagare la psiche di Diane, estrarre gli spasmi di un cuore infranto, mettere a nudo il dramma di una donna e soprattutto di una madre a cui il fato ha donato la più grande delle ingiustizie e la più insopportabile delle tragedie. In questo senso l'aspetto dedicato alle linee guida del mistery/thriller diviene secondario, perfino marginale, anche se verso la fine non può mancare un obbligatorio twist, non comunque così prorompente né così sorprendente. Ma, lo ribadiamo, la sostanza di Moka risiede nell'interiorità del personaggio principale, nel confronto solo parzialmente consapevole tra inseguitrice e carnefici, nelle nebbie che accomunano l'anima della protagonista e le sponde del lago di Ginevra, cartolina scenografica di notevole impatto.
Dopo il passaggio locarnese in proiezione stampa, alcune critiche hanno seguito il film: si parla di un lavoro lento e troppo convenzionale, definizioni forse attinenti, ma non per forza equivalenti a difetti. Nella sua compostezza tipicamente francese, dunque (per fortuna) lontanissima da tante schizofreniche pellicole similari di stampo americano, Moka è un'opera efficace per come, con poco, sa creare un'atmosfera plumbea e ovattata, sfruttando i silenzi e le suddette “lentezze” attraverso un'architettura d'insieme non memorabile, certo, ma solida e adeguata. 
Va da sé, poi, che un film così si debba basare, e molto, anche sulla qualità dei propri interpreti; da questo punto di vista Mermoud non poteva chiedere di meglio: Emmanuelle Devos, da tanti anni assoluto punto di riferimento attoriale per il cinema francese ed europeo, sforna un'ennesima prova di eccezionale livello, condivisa da una altrettanto magnifica (e magnetica) Nathalie Baye, tutta smancerie e trucco perfetto. Per entrambe sarebbe d'obbligo almeno una nomination ai prossimi premi César.
La prima mondiale di Moka, in Piazza Grande, è stata accolta da condizioni meteorologiche a dir poco avverse: la pioggia è infatti arrivata proprio mentre il cast era sul palco a presentare il film, e ha accompagnato gli spettatori lungo tutti i 90 minuti di durata, con tanto di tuoni e fulmini. Molti ovviamente hanno abbandonato il campo, ma alcuni coraggiosi sono rimasti fino alla fine, terminando la visione inzuppati d'acqua. L'amore per il cinema è anche questo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno 69, Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Frédéric Mermoud
Soggetto: tratto da un romanzo di Tatiana De Rosnay
Attori: Emmanuelle Devos, Nathalie Baye, Diane Rouxel, Samuel Labarthe, David Clavel
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Sarah Anderson
Anno: 2016
Durata: 89'
​Uscita italiana: 17 novembre 2016

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LOCARNO 69 - Ostatnia  Rodzina (The Last Family), di Jan P. Matuszynski

7/8/2016

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​Immagini mostruose uscite dai peggiori incubi concepiti dall'inferno; paesaggi dagli scenari gotici e inquietanti, innaturali e misteriosi; creature deformate, macabre e irreali, in alcuni casi raffigurate con allusioni a sfondo sessuale sadomaso o comunque estremo, spesso sotto forma di entità scheletriche, a popolare mondi paralleli e spaventosi. Questa è l'opera di Zdzislaw Beksinski, dall'impatto a forte intensità emotiva su chiunque ne fruisca e si affacci con lo sguardo verso uno dei suoi circa 260 dipinti, lasciando aperta la propria immaginazione come su una finestra spalancata sull'Abisso. Quello dell'inconscio e dei mostri che abitano dentro di sé.

Beksinski nasce il 24 febbraio del 1929, a Sanok, piccola cittadina nel sud della Polonia. La sua vita viene fin da subito segnata da un destino avverso e ostile: durante l'occupazione tedesca è infatti costretto a diplomarsi in un liceo clandestino, e dopo la liberazione della Polonia avvenuta nel 1947 si iscrive alla facoltà di architettura presso l'Università di Cracovia, più per volere del padre che per reale vocazione. Dopo la laurea diventa supervisore di cantieri, mestiere che odia profondamente, e che infatti abbandona da lì a poco tempo dopo. Nello stesso anno, il  1951, sposa Zofia Stankiewicz, la donna che gli resterà accanto tutta la vita, e nel 1958 nasce Tomasz, suo unico figlio. 
La vera vocazione di Beksinski è l'arte. A partire dal 1958 inizia a scattare fotografie, e già si contraddistingue per lo stile particolare e innovativo che si ritroverà poi nei suoi dipinti, cosa non semplice sopratutto nella rigida Polonia comunista. Fotografa bambole mutilate, paesaggi desolati, persone senza volto oppure con il viso bendato o deturpato, effetti ottenuti grazie alle tecniche del fotomontaggio. Negli stessi anni si dedica anche alla scultura, prediligendo come materiali la plastica e il metallo. Questo periodo viene definito da lui stesso come “Barocco”. In seguito si concentra sulla pittura ad olio su tavole di masonite. Mentre i suoi primi dipinti erano di arte astratta, presto la sua ispirazione surrealista diventa molto più visibile. Nei tardi anni '60 Beksinski entra nel suo periodo “Fantastico”, o “Gotico”, che durerà fino alla metà degli anni '80. È questa la fase più conosciuta, durante la quale crea immagini post-apocalittiche, scene di decadenza e di morte, paesaggi abitati da scheletri, deserti, figure deformate. 

L'opera diretta da Jan P. Matuszynski, presentata in concorso a Locarno, crea un affresco sulla vita familiare dell'artista polacco (interpretato da Andrzej Seweryn, già attore anche per Spielberg e Wajda) proprio durante questo lasso di tempo, e porta lo spettatore all'interno della sua vita intima e privata, contornata da personaggi unici e singolari, ognuno per diverse peculiarità: il figlio Tomasz (Dawid Ogrodnik), la moglie Zofia (Aleksandra Konieczna), l'anziana mamma e la suocera, negli anni che trascorrono insieme prima che la famiglia vada in disgregazione. 
Prendono così vita, ricalcando la realtà, protagonisti dai tratti distintivi forti e indimenticabili, a partire ovviamente da Zdzislaw, uomo dal forte senso dell'umorismo, legatissimo alla madre malata, grandissimo artista autodidatta che dipinge solo con un sottofondo di musica classica e che non dà mai titoli alle sue opere, perché “l'Arte basta a se stessa”. Un uomo con la fobia per i ragni e la mania di filmare continuamente scene di vita quotidiana, spinto da un'esigenza emotiva ed intellettuale/artistica a riprendere la Vita in ogni sua parte e debolezza, nei momenti di gioia, di normalità, fino a quelli di casi eccezionali e di doloroso passaggio e addio senza ritorno, come la morte della mamma prima, e della suocera poi. Accanto a lui la moglie Zofia, che attraverso la sua silenziosa, umile ma incrollabile e fondamentale forza e presenza lascia indelebile il ricordo di una donna che con la sua comprensione e dolcezza è riuscita a sorreggere e illuminare le sorti della famiglia, giocando un ruolo insostituibile nel tenerla insieme. E poi Tomasz, loro unico figlio, appassionato di musica e dall'indole nevrotica, con tendenze a sbalzi di umore, sfoghi improvvisi di rabbia e tendenze suicide, ma supportato in tutto e per tutto dai genitori preoccupati a evitare che si possa fare del male.

Nell'insieme The Last Family, lontano dalla forma classica del documentario ma al contempo non catalogabile nella pura fiction, risulta diretto con mano ferma, appassionante e ben riuscito, anche se vi si denota qualche mancanza, come quella di aver scarsamente sviluppato le ragioni per le quali Beksinski è approdato a concepire una simile arte, e attraverso quale processo di formazione interiore è arrivato a dipingere nella sua peculiare e personalissima maniera.
Qui bisogna far presente che le ragioni ufficiali riportate biograficamente sul pittore, a motivazione della maturazione della sua arte macabra, sconfinano nell'ufficioso e nella leggenda. Nel 1970 Beksinski ebbe infatti uno spaventoso incidente con la sua auto, investita in pieno da un treno in un passaggio a livello incustodito. Dopo tre settimane di coma e lunghi mesi di riabilitazione, Zdzislaw ritornò a essere quello di prima, anche grazie all'affetto e al sostegno della famiglia. Ma raccontò di aver visto l'inferno durante le settimane di incoscienza, e di doverlo rappresentare per trovare un modo di esorcizzarlo. 
Da quel momento la sua arte cambiò radicalmente. Anche se a prima vista le immagini dei suoi dipinti sembrano avere semplicemente un significato intrinseco cupo e tenebroso, in realtà si tratta di combattere la morte e i mostri personali dell'inconscio, trasformandoli in luce attraverso il processo artistico, visto come una terapia. La rappresentazione della morte nasconde una ricerca assetata di vita, il metter su tela e dar forma e immagini agli incubi è per avere pace, forse solo temporaneamente, e per occuparsi dell'essere vivi.
In Beksinski emergono forti come non mai le dicotomie Arte/Morte, Luce/Buio, Amore/Morte, anche se quest'ultima scandita dalle sfumature a tinte eccentriche e spinte del sesso estremo e sadomaso. 

La sua vita è stata segnata dalla sfortuna fino all'ultimo. Per comprendere quanto oltretutto l'artista polacco sia stato incompreso e poco considerato anche in patria, basti pensare che solo nel 2016 le sue opere hanno trovato casa in un museo a Cracovia, dopo che una parte del jet-set locale si era rifiutato di esporle valutandole kitsch e non apprezzandole come i capolavori che sono.
Nel 1998 si spegne Zofia, stroncata da un aneurisma. Mancando la figura legante e portante della famiglia, il nucleo si sfalda, seguendo il corso fatale e funereo del destino. La vigilia di Natale dell'anno successivo il figlio Tomasz, celebre conduttore radiofonico di Polskie Radio e traduttore in polacco dei film dei Monty Python, si toglie la vita dopo l'ennesimo tentativo, l'ultimo. In seguito a questi lutti, già segnato nell'anima dalla sua tragica esistenza, Beksinski cade in una profonda depressione e si chiude in se stesso, nonostante riesca ancora a trovare espressione dedicandosi alla computer grafica e dipingendo alcune copertine degli album dei Legendary Pink Dots, gruppo musicale di cui il figlio era appassionato. 
In antitesi e simultaneamente a questo devastante periodo nero, comincia ad arrivare il successo nel mondo dell'arte contemporanea, in paesi come gli Stati Uniti e soprattutto in Giappone, dove le sue opere vengono inserite nelle prestigiose collezioni dell'Osaka Art Museum. Viene trovato morto nel suo appartamento il 21 febbraio del 2005, assassinato dal figlio del suo maggiordomo a cui aveva rifiutato un prestito di un centinaio di zloty, l'equivalente di circa cento dollari. Diciassette coltellate portano a termine la parabola di uno dei più grandi artisti surrealisti, innovatori e visionari del Novecento, immeritatamente poco conosciuto e per troppo tempo sottovalutato.

“Vorrei dipingere come se fotografassi sogni”, affermò Beksinski durante il quindicennio più fecondo e creativo della sua produzione, il periodo Gotico. E i sogni, con le sembianze di incubi di morte, ma pur sempre anche pregni di vita (i rimandi all'immaginario di sesso estremo e sadomaso che incarnano una spinta vitale), hanno preso forma sulla tela come uno spaccato dell'Inferno, realistico e fantastico al tempo stesso: incombente di un orrore cupo e funesto da un lato, ma meraviglioso e sublime, mai comune, dall'altro, descritto e raffigurato nella sua essenza con immediatezza visiva come solo pochi altri, o forse nessuno, ha saputo afferrare e cogliere nel panorama artistico mondiale. 
La sua opera continua a rimanere carica di quell'enigmaticità indissolubilmente legata a una visione propria e irripetibile dell'animo umano, come lui stesso l'aveva concepita: continuando a bastare a se stessa. Un Inferno soggettivo e personale, quello di Beksinski. E forse simbolico di quello che ognuno di noi cerca di esorcizzare, portandolo in sé e rinvenendo Luce dentro alle Tenebre.

Amanda Crevola

Sezione di riferimento: Locarno 69

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Scheda tecnica

Titolo originale: Ostatnia rodzina
Regista: Jan P. Matuszyński
Attori: Andrzej Seweryn, Dawid Ogrodnik, Aleksandra Konieczna, Andrzej Chyra
Fotografia: Kacper Fertacz
Sceneggiatura: Robert Bolesto
Montaggio: Przemysław Chruścielewski
Anno: 2016
Durata: 124'

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LOCARNO 69 - Slava (Glory), di Kristina Grozeva e Petar Valchanov

6/8/2016

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​Bulgaria, oggi. Tsanko Petrov è un operaio delle ferrovie. Barbuto e solitario, vive in una piccola e disadorna casetta insieme ai suoi affezionati conigli. Soffre di balbuzie, problema che gli causa notevoli difficoltà nella comunicazione con le persone, anche se poi, a livello pratico, i suoi scambi dialettici sono comunque ridotti al minimo. Uno dei compiti principali di Tsanko, nella quotidiana vita lavorativa, è camminare lungo le rotaie per controllare il corretto avvitamento dei bulloni.
​Un giorno, durante una di queste ricognizioni, l'uomo trova un'ingente quantità di denaro, di provenienza sconosciuta, abbandonata sui binari. Intorno non c'è nessuno, nessuno potrebbe mai sapere nulla; Tsanko potrebbe tranquillamente intascare i soldi e far finta di niente. L'operaio invece chiama subito la polizia per segnalare il ritrovamento. Da quel momento, per l'opinione pubblica, Tsanko Petrov diventa un eroe; Julia Staikova, responsabile ufficio stampa del Ministero dei Trasporti, organizza subito una premiazione in pompa magna.
​Durante la cerimonia, però, per una serie di circostanze indipendenti dalla sua volontà, Tsanko smarrisce il suo vecchio orologio, ricordo del padre defunto e oggetto in assoluto più caro che egli possieda. Da lì inizia per lui una terribile battaglia contro la Staikova e contro l'indifferenza e il menefreghismo degli impiegati del Ministero; una lunga odissea volta al recupero dell'orologio smarrito e, al contempo, al ripristino della propria dignità di uomo.

Diretto da Kristina Grozeva e Petar Valchanov, al secondo lungometraggio insieme dopo The Lesson (finalista dell’ultima edizione del Premio LUX del Parlamento Europeo), Slava, insieme al polacco The Last Family, si è imposto senza dubbio come uno dei titoli più belli e significativi visti nel concorso internazionale di Locarno 69. 
Secondo capitolo della cosiddetta “trilogia dei ritagli di giornale”, ispirata a veri fatti di cronaca, Slava (Glory per il mercato internazionale) persegue un obiettivo comune a tanta attuale cinematografia dell'Est Europeo, ovvero la rappresentazione il più possibile concreta e veritiera di storie quotidiane in cui uomini semplici si trovano a dover combattere contro i poteri forti dello Stato, la corruzione dilagante e l'incuria delle istituzioni (basti pensare in tal senso al recentissimo e splendido Bacalaureat di Mungiu), uscendone quasi sempre bastonati e sconfitti. 
In questo panorama si inserisce perfettamente lo straziante racconto di un operaio tanto burbero all'apparenza quanto umile e onesto nella sostanza, un bravo cittadino catapultato suo malgrado nelle volte diaboliche di una spirale in cui il successo politico, l'arrivismo estremo e la salvaguardia delle apparenze gettano a mare ogni forma di rispetto nei confronti dell'essere umano in quanto tale. 
Tutto il film, scritto e diretto con invidiabile controllo, si sviluppa seguendo la dicotomia caratteriale che oppone il solingo Petrov (interpretato dal bravissimo Stefan Denolyubov), per il quale il vecchio orologio e i conigli valgono più di qualsiasi effimera comodità materiale, e la Staikova (Margita Gosheva, una delle più famose attrici bulgare), alle prese con il complesso avvio dell'iter necessario per portare a termine una gravidanza artificiale, ma soprattutto donna che concentra tutte le sue forze ed energie sul lavoro, al punto di rischiare più volte di mettere a repentaglio la gravidanza stessa. 
Tsanko non sa nemmeno usare un telefono cellulare, Julia ha nella borsa due telefoni che squillano ininterrottamente in qualsiasi istante e situazione; Tsanko non parla quasi mai con nessuno, Julia è inglobata ogni giorno in una sarabanda organizzativa che non le lascia nemmeno il tempo di farsi una puntura; Tsanko darebbe l'anima per riavere il suo orologio, Julia non ha neanche un secondo da perdere dietro a un tizio balbuziente e squinternato che la cerca in continuazione per avere notizie di un inutile oggetto perduto durante una cerimonia di premiazione. 
In questo confronto, talvolta ravvicinato ma più spesso schermato da segreterie, appelli ignorati e situazioni grottesche, si attua lo svolgimento di una rappresentazione filmica devastante, una tragi (molto) commedia (poco) in cui il protagonista viene sballottato in realtà a lui sconosciute, viene usato da Ministri e giornalisti di opposte fazioni per scopi che esulano totalmente dal vero obiettivo della sua ricerca, e viene soprattutto privato di ogni minima forma di onorabilità, subendo violenze psicologiche e fisiche per colpe che non gli appartengono.
Appassionante, beffardo, disperato, perfetto per tempi e registri utilizzati (compreso un finale da applausi), Slava (per fortuna acquistato da I Wonder Pictures per una futura distribuzione in Italia) è un lavoro di assoluto pregio, che scava nello spettatore e gli resta dentro, ed è il lucidissimo e spietato ritratto di un mondo becero in cui l'onestà e la semplicità sono diventati, purtroppo, debiti da pagare a una società dominata dallo zannuto mostro della sopraffazione.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Locarno 69

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Scheda tecnica

Titolo originale: Slava
Regia: Kristina Grozeva , Petar Valchanov
Attori: Stefan Denolyubov , Margita Gosheva
Musiche: Hristo Namliev
Sceneggiatura: Kristina Grozeva, Petar Valchanov, Decho Taralezhkov
Montaggio: Petar Valchanov
Anno: 2016
Durata: 101'

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