Il pennino nero per colui che lo legge traccia nel margine bianco della vulva mostro: essere Tu essendo Io, essere altri: senza bisogno di essere io! Parole scambiate tra la china che scrive e la china lettore, star nudo a sognare ossessogni e star. (Julio Bressane)
Un uomo e una donna in un cammino ubriaco e cieco; passi sconnessi ed incerti lungo una strada, prima in salita poi in discesa; è una curva stretta quella in cui i due si muovono, si sfiorano, ma non si toccano, non si vedono. I loro sguardi sono dirottati altrove, un altrove lontano e perso, forse mai trovato. I loro occhi si cercano ma non si trovano, mai. Lo sguardo si sposta, catapultato in un set, dalla realtà si passa alla finzione cinematografica; i protagonisti sono sempre loro, l’uomo e la donna, la coppia, l’impossibilità di comunicare e l’assenza di linguaggio tra i due, che parlano lingue diverse; le loro parole sono convogliate in monologhi solipsistici, anche i loro discorsi non si incontrano; per dirla alla Bene, “è lacerazione ossessiva e inconsolabile rimpianto d’unità originaria”.
Beduino è la più recente opera di Julio Bressane, presentata nel corso dell’ultima edizione del Festival del film Locarno, in Signs of Life, sezione che si propone di indagare i territori di frontiera e la sperimentazione in campo cinematografico; il regista brasiliano, attraverso una mise en scene raffinata ed elegante, con interni rubati a Balthus, porta in scena l’incomunicabilità della coppia, un saggio sull’amore e sulla sua mancanza di parola, ma alla costante ricerca del desiderio.
Testo intriso di sfacciato erotismo e di una sensualità densa e carnale, sin dalle sue prime battute il film si fa materico, accendendosi su corpi, uomo e donna, vissuti, barocchi e dalle forme esuberanti. Lei è l’incarnazione del desiderio, le labbra carnose e socchiuse che avidamente si dissetano di liquidi, forse assenzio, e si immergono in una liquidità corporale, un’estasi sensuale e voluttuosa, per non perdere nemmeno una goccia dell’altro. In un gioco di orgasmi simulati, desiderati, cercati e metaforicamente inscenati, il viso della donna viene inondato, la sua voce lenta e profonda ha un ritmo cadenzato, come un canto ammaliante, una sirena che attira a sé l’essere agognato. Enfatica, esagerata, volutamente ridondante, proprio come è la passione, ma condita da un pizzico di ironia: così la costruzione filmica conduce l’opera a deviare su una contorsione narrativa sopra le righe.
Le prime parole pronunciate, quelle che aprono il film, sono mutuate da un componimento di Oswald de Andrade, la poesia Amour, il cui testo è affidato a un unico verbo, Humour; in questo sillogismo sintattico va letto, con molta probabilità, lo snodo narrativo del film di Bressane. L’enfasi del riso, la leggerezza del desiderio che supplisce ad un’incomunicabilità dovuta a nature distanti e contrastanti, come nel binomio uomo/donna, è necessario, forse fondamentale. Dopo un inizio frammentato, dal piano sequenza iniziale su una scena in costruzione, un fuori set fa deragliare la realtà nella finzione, la vita nell’immaginario; lo sguardo è illuminato da una presa di coscienza subitanea: l’artificio del metacinema svela i due protagonisti nei loro ruoli, attori nelle vesti di una coppia che recita la finzione dell’amore.
Bressane impreziosisce la sua opera con una maniacale cura estetica per l’immagine, adottando un registro visivo che è ipnosi per gli occhi e al quale ha abituato il suo più fedelissimo spettatore: “l’immagine cinematografica raccoglie l’essenziale delle altre arti, ne è l’erede, è quasi il modo d’impiego delle altre immagini che converte in potenza quel che era soltanto possibilità” (1). Il corpo, mostrato, accarezzato, sognato nella sua prorompenza, inspessisce le immagini; le ombre si fanno materiche, emerge da lenzuola bianche che velano seni, fianchi e il volto di Surm, che nella sua ritmica portoghese dà voce e forma all’erotismo, in una frammentazione visiva, pari a quella del linguaggio adottato, in cui la realtà si confonde con il sogno, si scivola in enunciati onirici e a parlare è il desiderio.
Trenini fallici e bolle di sapone, campi di battaglia, coccodrilli, fucilate e cannonate, sono le metafore cui il regista affida la descrizione della lotta tra l’uomo e la donna; l’impossibilità di comunicare, la morte del linguaggio, non possono essere narrate che da immagini frammentarie. Il regista “ricorre alla scomposizione dell’immagine perché la mette in atto come tale nella continuità della rappresentazione, ferita in se stessa dall’impossibilità dei corpi a riunirsi” (2) .
1) Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, pag. 175.
2) Raymond Bellour, Fra le immagini, Bruno Mondadori, Milano - Torino, 2007.
Ai sensi viene conferita voce e forma, le fantasie erotiche prendono vita in un mondo onirico che vuole tramutarsi in realtà aggirando il conflitto bellico uomo/donna, enfatizzato anche dalle scene di Memorie di uno Strangolatore di Bionde. Bressane esalta la sensualità della sua ultima opera anche grazie a una fotografia caratterizzata da colori caldi, con tonalità che virano sul seppia avvolgendo gli ambienti interni in cui si muovono i due, in campi stretti che sembrano soffocare la coppia; la mdp si avvicina talmente ai corpi che sembra quasi simulare un rapporto sessuale, anch’essa alla ricerca del piacere, un piacere legato allo sguardo in una sublimazione orgasmica totalizzante.
L'occhio subisce il fascino di un linguaggio estetico e narrativo impreziosito da sperimentazioni, sospensioni del tempo e silenzi, dove tutto è presente e assente. In una costruzione quasi circolare, Beduino finisce là dove era iniziato, in un riavvolgersi continuo intorno ai sensi e al desiderio di un’unione impossibile, di una diversità incolmabile, ma dove la carnalità riesce a colmare gli spazi tra le anime e a dare vita agli ossessogni di uno scopritore di stelle.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Locarno 69
Scheda tecnica
Regista: Júlio Bressane
Interpreti: Alessandra Negrini , Fernando Eiras
Fotografia: Pepe Schettino, Pablo Baião
Musiche: Júlio Bressane
Sceneggiatura: Júlio Bressane, Rosa Dias
Anno: 2016
Durata: 75'
Un uomo e una donna in un cammino ubriaco e cieco; passi sconnessi ed incerti lungo una strada, prima in salita poi in discesa; è una curva stretta quella in cui i due si muovono, si sfiorano, ma non si toccano, non si vedono. I loro sguardi sono dirottati altrove, un altrove lontano e perso, forse mai trovato. I loro occhi si cercano ma non si trovano, mai. Lo sguardo si sposta, catapultato in un set, dalla realtà si passa alla finzione cinematografica; i protagonisti sono sempre loro, l’uomo e la donna, la coppia, l’impossibilità di comunicare e l’assenza di linguaggio tra i due, che parlano lingue diverse; le loro parole sono convogliate in monologhi solipsistici, anche i loro discorsi non si incontrano; per dirla alla Bene, “è lacerazione ossessiva e inconsolabile rimpianto d’unità originaria”.
Beduino è la più recente opera di Julio Bressane, presentata nel corso dell’ultima edizione del Festival del film Locarno, in Signs of Life, sezione che si propone di indagare i territori di frontiera e la sperimentazione in campo cinematografico; il regista brasiliano, attraverso una mise en scene raffinata ed elegante, con interni rubati a Balthus, porta in scena l’incomunicabilità della coppia, un saggio sull’amore e sulla sua mancanza di parola, ma alla costante ricerca del desiderio.
Testo intriso di sfacciato erotismo e di una sensualità densa e carnale, sin dalle sue prime battute il film si fa materico, accendendosi su corpi, uomo e donna, vissuti, barocchi e dalle forme esuberanti. Lei è l’incarnazione del desiderio, le labbra carnose e socchiuse che avidamente si dissetano di liquidi, forse assenzio, e si immergono in una liquidità corporale, un’estasi sensuale e voluttuosa, per non perdere nemmeno una goccia dell’altro. In un gioco di orgasmi simulati, desiderati, cercati e metaforicamente inscenati, il viso della donna viene inondato, la sua voce lenta e profonda ha un ritmo cadenzato, come un canto ammaliante, una sirena che attira a sé l’essere agognato. Enfatica, esagerata, volutamente ridondante, proprio come è la passione, ma condita da un pizzico di ironia: così la costruzione filmica conduce l’opera a deviare su una contorsione narrativa sopra le righe.
Le prime parole pronunciate, quelle che aprono il film, sono mutuate da un componimento di Oswald de Andrade, la poesia Amour, il cui testo è affidato a un unico verbo, Humour; in questo sillogismo sintattico va letto, con molta probabilità, lo snodo narrativo del film di Bressane. L’enfasi del riso, la leggerezza del desiderio che supplisce ad un’incomunicabilità dovuta a nature distanti e contrastanti, come nel binomio uomo/donna, è necessario, forse fondamentale. Dopo un inizio frammentato, dal piano sequenza iniziale su una scena in costruzione, un fuori set fa deragliare la realtà nella finzione, la vita nell’immaginario; lo sguardo è illuminato da una presa di coscienza subitanea: l’artificio del metacinema svela i due protagonisti nei loro ruoli, attori nelle vesti di una coppia che recita la finzione dell’amore.
Bressane impreziosisce la sua opera con una maniacale cura estetica per l’immagine, adottando un registro visivo che è ipnosi per gli occhi e al quale ha abituato il suo più fedelissimo spettatore: “l’immagine cinematografica raccoglie l’essenziale delle altre arti, ne è l’erede, è quasi il modo d’impiego delle altre immagini che converte in potenza quel che era soltanto possibilità” (1). Il corpo, mostrato, accarezzato, sognato nella sua prorompenza, inspessisce le immagini; le ombre si fanno materiche, emerge da lenzuola bianche che velano seni, fianchi e il volto di Surm, che nella sua ritmica portoghese dà voce e forma all’erotismo, in una frammentazione visiva, pari a quella del linguaggio adottato, in cui la realtà si confonde con il sogno, si scivola in enunciati onirici e a parlare è il desiderio.
Trenini fallici e bolle di sapone, campi di battaglia, coccodrilli, fucilate e cannonate, sono le metafore cui il regista affida la descrizione della lotta tra l’uomo e la donna; l’impossibilità di comunicare, la morte del linguaggio, non possono essere narrate che da immagini frammentarie. Il regista “ricorre alla scomposizione dell’immagine perché la mette in atto come tale nella continuità della rappresentazione, ferita in se stessa dall’impossibilità dei corpi a riunirsi” (2) .
1) Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, pag. 175.
2) Raymond Bellour, Fra le immagini, Bruno Mondadori, Milano - Torino, 2007.
Ai sensi viene conferita voce e forma, le fantasie erotiche prendono vita in un mondo onirico che vuole tramutarsi in realtà aggirando il conflitto bellico uomo/donna, enfatizzato anche dalle scene di Memorie di uno Strangolatore di Bionde. Bressane esalta la sensualità della sua ultima opera anche grazie a una fotografia caratterizzata da colori caldi, con tonalità che virano sul seppia avvolgendo gli ambienti interni in cui si muovono i due, in campi stretti che sembrano soffocare la coppia; la mdp si avvicina talmente ai corpi che sembra quasi simulare un rapporto sessuale, anch’essa alla ricerca del piacere, un piacere legato allo sguardo in una sublimazione orgasmica totalizzante.
L'occhio subisce il fascino di un linguaggio estetico e narrativo impreziosito da sperimentazioni, sospensioni del tempo e silenzi, dove tutto è presente e assente. In una costruzione quasi circolare, Beduino finisce là dove era iniziato, in un riavvolgersi continuo intorno ai sensi e al desiderio di un’unione impossibile, di una diversità incolmabile, ma dove la carnalità riesce a colmare gli spazi tra le anime e a dare vita agli ossessogni di uno scopritore di stelle.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Locarno 69
Scheda tecnica
Regista: Júlio Bressane
Interpreti: Alessandra Negrini , Fernando Eiras
Fotografia: Pepe Schettino, Pablo Baião
Musiche: Júlio Bressane
Sceneggiatura: Júlio Bressane, Rosa Dias
Anno: 2016
Durata: 75'