“Perché vuoi girare un film su di me? Forse perché la mia vita è noiosa e non ho mai vissuto; tu, invece, sei una parte della storia di questo Paese”.
Destini che si incrociano e vite che scorrono in parallelo, mentre sullo sfondo si alternano, tra realtà e finzione, le immagini di una Thailandia animata da lotte politiche e raccontata attraverso il suo vivere quotidiano, tra tradizioni culturali e religiose. In concorso alla sessantanovesima edizione del Festival di Locarno arriva Dao Khanong (By the Time It Gets Dark), della regista thailandese Anocha Suwichakornpong, opera tanto suggestiva quanto lisergica e straniante, ma di una bellezza che assume i toni di una lirica struggente, inscenata tra simbologie e metafore surrealiste, atmosfere oniriche catapultate tra le lotte politiche studentesche e il cinema nel suo divenire.
Una giovane regista lavora alla sceneggiatura del suo prossimo film, incentrato sulla figura di un’attivista politica, affascinata dalla personalità magnetica della donna, per la tenacia e la forza con cui questa ha caratterizzato la storia del suo Paese, lottando sin da studentessa per i diritti e la libertà del suo popolo; la regista si smarrisce, e cercando di raccontare l’altra, rincorre se stessa.
Insoddisfatta della sua vita, mai vissuta pienamente e priva della passione che invece ha caratterizzato l’esistenza della sua musa, in un delirio onirico, forse amplificato da un'ingestione di funghi, si ritrova in una foresta a inseguire un bambino, stranamente vestito da giovane leone, ma in uno strano gioco di campi e controcampi, di immagini quasi specchiate e ribaltate, scopre che la preda così ambita non è altri che se stessa. Le metafore si susseguono in un dialogo serrato tra immagini irreali e kafkiane, sospese tra il sogno e la realtà. Un fungo blu, luminoso e sfavillante, trovato nella radura alla fine dell’estenuante corsa, forse simboleggia la morte e la rinascita della giovane donna, della sua nuova consapevolezza di se stessa. Da soggetto narrante della vita dell’altra, la regista diventa essa stessa oggetto della narrazione, iniziando ad essere.
Anocha Suwichakornpong costruisce il suo lavoro come una matrioska, un film in un film, metacinema in conversazione con lo spettatore, che, inconsapevolmente, osserva il processo creativo cinematografico. Dall’idea di cinema e dalla stesura di una sceneggiatura si passa all’opera, il film con i suoi interpreti e i suoi soggetti: gli attori, ritratti nelle loro vite quotidiane e sulla scena.
Il film pensato dalla giovane regista prende vita con i suoi interpreti nella stessa finzione cinematografica. L’autrice thailandese ritrae, con lirismi altissimi, la quotidianità del cinema anche fuori dalla scena; si affida ai dettagli per raccontare l’erotismo di una mano che trattiene una sigaretta, tra i ghirigori disegnati dal fumo, la carnalità di una bocca socchiusa, le labbra tumide e gli occhi ardenti di un attore che guida verso il set; e poi la sensualità di un risveglio dopo una notte d’amore, un uomo nudo, l’attore, privo della sua maschera e del costume di scena, in compagnia della sua donna. “Mi piacciono i tuoi occhi, mi piace la tua bocca”: lei, vestita, lo accarezza e gli sussurra parole dolci, stesi in un letto mentre il giorno inizia.
Vita e cinema, quotidiano e set, scambi continui di linfa, vita che si muta in cinema e il cinema che si racconta nelle sue fasi, in repentini cambiamenti di registro, che se da un lato confondono lo sguardo dello spettatore, dall’altro fondono due realtà così vicine e comunicanti tra loro. L’esistenza è raccontata dalla mdp, che da sempre osserva e trasforma il reale. “Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà”: un’osmosi continua, come Godard affermava in un’intervista di qualche tempo fa.
Anche la morte entra nella macchina cinematografica, non bloccando i suoi ingranaggi; quando l’attore, così amabilmente dipinto da Suwichakornpong, viene strappato alla vita, il congegno magico del cinema non si ferma. Tutto è in movimento, le fasi di produzione inevitabilmente devono andare avanti, montaggio ed editing, ma la bellezza viene sublimata dall’eternità, il dono più grande che si possa ricevere, la finzione dell’immortalità, o forse sarebbe più corretto dire, l’immortalità della finzione. Intorno all’illusione filmica la società, con le sue abitudini e i suoi riti, alimenta il quotidiano: la gente comune affascinata dallo sfavillio delle star, le persone che lavorano tra i ritmi frenetici della metropoli thailandese.
Dao Khanong si rivela non solo un gesto artistico di grande impatto visivo e di una potenza folgorante, ma anche un audace tentativo di dare corpo alla materia filmica nel suo processo di elaborazione, il cinema raccontato dal cinema, attraverso affascinanti suggestioni poetiche che raccontano il reale con l’uso simbolico della metafora, le allusioni delle immagini e del non detto; il giovane leone che osserva nella foresta, smarritosi o solo forse in attesa di essere trovato, è la rappresentazione di una giovane potenza, di un mutarsi dell’essere che rinasce a nuova vita, realtà, sogno o finzione? Forse è la rilettura di una simbologia appartenente al buddismo, così come i funghi e le muffe presenti nella prima parte del film, che come raccontano i sacri testi di Pali, sono tra gli artefici della morte di Buddha.
Nella digressione finale, l’attore e la sua donna incedono lentamente, fianco a fianco; le loro mani si sfiorano, la realtà e l’illusione; poi l’assordante ritmo della musica tecno, una ragazza balla travolta dalla musica, lo schermo si riempie di pixel e di colori acidi, illusori; lo sguardo è condotto lentamente alla realtà, dalla bellezza artificiale alla bellezza della natura, perché bisogna nutrire gli occhi per sognare, e come afferma Paul Verlaine in Kaleidoscope, “sarà come quando pare d'aver già vissuto”.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Locarno 69
Scheda tecnica
Regia: Anocha Suwichakornpong
Attori: Arak Amornsupasiri, Atchara Suwan, Visra Vichit-Vadakan, Inthira Charoenpura, Rassami Paoluengtong
Fotografia: Ming Kai Leung
Musiche: Wuttipong Leetrakul
Sceneggiatura: Anocha Suwichakornpong
Montaggio: Lee Chatametikool, Machima Ungsriwong
Anno: 2016
Durata: 105'
Destini che si incrociano e vite che scorrono in parallelo, mentre sullo sfondo si alternano, tra realtà e finzione, le immagini di una Thailandia animata da lotte politiche e raccontata attraverso il suo vivere quotidiano, tra tradizioni culturali e religiose. In concorso alla sessantanovesima edizione del Festival di Locarno arriva Dao Khanong (By the Time It Gets Dark), della regista thailandese Anocha Suwichakornpong, opera tanto suggestiva quanto lisergica e straniante, ma di una bellezza che assume i toni di una lirica struggente, inscenata tra simbologie e metafore surrealiste, atmosfere oniriche catapultate tra le lotte politiche studentesche e il cinema nel suo divenire.
Una giovane regista lavora alla sceneggiatura del suo prossimo film, incentrato sulla figura di un’attivista politica, affascinata dalla personalità magnetica della donna, per la tenacia e la forza con cui questa ha caratterizzato la storia del suo Paese, lottando sin da studentessa per i diritti e la libertà del suo popolo; la regista si smarrisce, e cercando di raccontare l’altra, rincorre se stessa.
Insoddisfatta della sua vita, mai vissuta pienamente e priva della passione che invece ha caratterizzato l’esistenza della sua musa, in un delirio onirico, forse amplificato da un'ingestione di funghi, si ritrova in una foresta a inseguire un bambino, stranamente vestito da giovane leone, ma in uno strano gioco di campi e controcampi, di immagini quasi specchiate e ribaltate, scopre che la preda così ambita non è altri che se stessa. Le metafore si susseguono in un dialogo serrato tra immagini irreali e kafkiane, sospese tra il sogno e la realtà. Un fungo blu, luminoso e sfavillante, trovato nella radura alla fine dell’estenuante corsa, forse simboleggia la morte e la rinascita della giovane donna, della sua nuova consapevolezza di se stessa. Da soggetto narrante della vita dell’altra, la regista diventa essa stessa oggetto della narrazione, iniziando ad essere.
Anocha Suwichakornpong costruisce il suo lavoro come una matrioska, un film in un film, metacinema in conversazione con lo spettatore, che, inconsapevolmente, osserva il processo creativo cinematografico. Dall’idea di cinema e dalla stesura di una sceneggiatura si passa all’opera, il film con i suoi interpreti e i suoi soggetti: gli attori, ritratti nelle loro vite quotidiane e sulla scena.
Il film pensato dalla giovane regista prende vita con i suoi interpreti nella stessa finzione cinematografica. L’autrice thailandese ritrae, con lirismi altissimi, la quotidianità del cinema anche fuori dalla scena; si affida ai dettagli per raccontare l’erotismo di una mano che trattiene una sigaretta, tra i ghirigori disegnati dal fumo, la carnalità di una bocca socchiusa, le labbra tumide e gli occhi ardenti di un attore che guida verso il set; e poi la sensualità di un risveglio dopo una notte d’amore, un uomo nudo, l’attore, privo della sua maschera e del costume di scena, in compagnia della sua donna. “Mi piacciono i tuoi occhi, mi piace la tua bocca”: lei, vestita, lo accarezza e gli sussurra parole dolci, stesi in un letto mentre il giorno inizia.
Vita e cinema, quotidiano e set, scambi continui di linfa, vita che si muta in cinema e il cinema che si racconta nelle sue fasi, in repentini cambiamenti di registro, che se da un lato confondono lo sguardo dello spettatore, dall’altro fondono due realtà così vicine e comunicanti tra loro. L’esistenza è raccontata dalla mdp, che da sempre osserva e trasforma il reale. “Ora ho delle idee sulla realtà, mentre quando ho cominciato avevo delle idee sul cinema. Prima vedevo la realtà attraverso il cinema, e oggi vedo il cinema nella realtà”: un’osmosi continua, come Godard affermava in un’intervista di qualche tempo fa.
Anche la morte entra nella macchina cinematografica, non bloccando i suoi ingranaggi; quando l’attore, così amabilmente dipinto da Suwichakornpong, viene strappato alla vita, il congegno magico del cinema non si ferma. Tutto è in movimento, le fasi di produzione inevitabilmente devono andare avanti, montaggio ed editing, ma la bellezza viene sublimata dall’eternità, il dono più grande che si possa ricevere, la finzione dell’immortalità, o forse sarebbe più corretto dire, l’immortalità della finzione. Intorno all’illusione filmica la società, con le sue abitudini e i suoi riti, alimenta il quotidiano: la gente comune affascinata dallo sfavillio delle star, le persone che lavorano tra i ritmi frenetici della metropoli thailandese.
Dao Khanong si rivela non solo un gesto artistico di grande impatto visivo e di una potenza folgorante, ma anche un audace tentativo di dare corpo alla materia filmica nel suo processo di elaborazione, il cinema raccontato dal cinema, attraverso affascinanti suggestioni poetiche che raccontano il reale con l’uso simbolico della metafora, le allusioni delle immagini e del non detto; il giovane leone che osserva nella foresta, smarritosi o solo forse in attesa di essere trovato, è la rappresentazione di una giovane potenza, di un mutarsi dell’essere che rinasce a nuova vita, realtà, sogno o finzione? Forse è la rilettura di una simbologia appartenente al buddismo, così come i funghi e le muffe presenti nella prima parte del film, che come raccontano i sacri testi di Pali, sono tra gli artefici della morte di Buddha.
Nella digressione finale, l’attore e la sua donna incedono lentamente, fianco a fianco; le loro mani si sfiorano, la realtà e l’illusione; poi l’assordante ritmo della musica tecno, una ragazza balla travolta dalla musica, lo schermo si riempie di pixel e di colori acidi, illusori; lo sguardo è condotto lentamente alla realtà, dalla bellezza artificiale alla bellezza della natura, perché bisogna nutrire gli occhi per sognare, e come afferma Paul Verlaine in Kaleidoscope, “sarà come quando pare d'aver già vissuto”.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Locarno 69
Scheda tecnica
Regia: Anocha Suwichakornpong
Attori: Arak Amornsupasiri, Atchara Suwan, Visra Vichit-Vadakan, Inthira Charoenpura, Rassami Paoluengtong
Fotografia: Ming Kai Leung
Musiche: Wuttipong Leetrakul
Sceneggiatura: Anocha Suwichakornpong
Montaggio: Lee Chatametikool, Machima Ungsriwong
Anno: 2016
Durata: 105'