Triangolo passionale, raro inserto amoroso nella filmografia di un autore di solito non avvezzo a questi temi, o piuttosto sterile danza manierista, campionario estenuante di patinate bomboniere ottocentesche? Quando si parla de L’età dell’innocenza il più delle volte si scade proprio in simili definizioni restrittive, o in rifiuti sprezzanti, pressoché abissali. Un destino che ha accompagnato e continua ad accompagnare la ricezione di un film di sicuro poco compreso e non nobilitato dal tempo come spesso accade a opere che in verità lo meritano assai meno, che all’apparenza potrebbe sembrare avulso dalle corde scorsesiane ma in realtà non lo è affatto.
Chi conosce Martin Scorsese sa bene infatti che la sua passione per il melodramma in costume non è certo seconda a quella per il gangster movie: un amore antico e radicato nel tempo, fin da quando il nonno gli mostrò il suo adorato Gattopardo viscontiano in età giovanile, una visione fondamentale nella formazione televisiva del giovane Martin cinéphile. E in questo film, che a quel cantuccio cinefilo è omaggio e asservito atto d’amore, Scorsese si dimostra ancora una volta ben lungi dall’essere un illustratore esangue, qui esattamente come nei lavori più celebri, conclamati e facilmente riconducibili ai suoi risaputi stilemi. Definire L’età dell’innocenza un film non scorsesiano sarebbe dunque come tacciare Joe Cocker di non essere un valente musicista rock solo perché accanto alle schitarrate più affilate ha inframmezzato ogni tanto una ballata romantica meno convulsa e più suadente. In altre parole, una limitazione imperdonabile.
L’affresco del film con cui Scorsese spiazzò anche buona parte dei suoi fan non è infatti mai composto e irrigidito ma ancora una volta esondante di passione. La cura certosina e forsennata del décor è solo un’apparente mutazione formale in chiave ottocentesca e in costume rispetto alle mean streets e alle storture sanguinolente del crimine metropolitano tanto care a Zio Marty: l’ossessione per le regole cristallizzate di un mondo cieco e violento, governato da diktat inviolabili e biechi, non è poi tanto lontana dall’epica rovesciata di Quei bravi ragazzi, com’è facilmente osservabile da un immediato confronto sinottico tra i due film.
Scorsese, come Visconti, Matarazzo, Powell & Pressburger e in forme relativamente meno roboanti ma più sottili e meta-linguistiche anche De Palma e Tarantino, è infatti uno di quegli autori in cui l’ossessione per la forma è essa stessa sostanza, compiuta, significante e in sé perfetta. La passione divorante per le immagini è sempre la stessa, saettante e insanguinata, insaziabile e vorace. Una fame che qui vive di carrellate, di una rapacità mai paga per l’iconografia del XIX secolo che va a comporre un arazzo torrenziale e magniloquente, estatico e avvolgente, sensuale e bellissimo. E’ il valzer ballato con una donna matura, consapevole e ricca di sfaccettature, curata al millimetro fin nel più intarsiato merletto. Senza nulla togliere all’ancheggiare forsennato con una diciottenne a una festa del college, naturalmente, ma qui siamo proprio in un’altra galassia.
Con uno scrupolo raffinatissimo e inesauribile l'autore ha realizzato uno dei più grandi film in costume degli anni ’80, una ricognizione storicizzata nel passato sepolto delle sue origini newyorkesi che fa il paio con Gangs of New York, film che di fatto si pone rispetto a L’età dell’innocenza come una speculare altra faccia della medaglia, in quel caso più classicamente scorsesiana, polverosa e dalle pupille arrossate, odorosa di zolfo e sgorgante di sangue a fiumi zampillanti. Questo, a suo modo, è perfino il più bel film di Scorsese: il più bello a guardarsi, naturalmente, da un punto di vista di esclusivo intarsio estetico, non in assoluto. Ed è di fatto impossibile non lasciarsi travolgere da quella macchina da presa voluttuosa e bramosa, che fluttua scovando ora sguardi in soggettiva ora quadri sublimi, sconfinando in piani sequenza in grado di ridefinire il concetto di magnifico viscontiano, annegando con melliflua, debordante eleganza in un mare di suggestioni palpitanti.
L’età dell’innocenza è la quintessenza della bellezza cinematografica a cielo aperto, una gioia per le cornee, un pianoforte mai pago di note di colore differenti, di gradazioni che si fanno sempre più sfaccettate e sfumate a ogni visione. Il sonoro schiaffo di Scorsese a una tonnellata infinita di film in costume assai più raggelati, assolutamente incapaci, nella loro perfettibilità algida, di restituire simili zaffate di sinfonica, frastornante magia. E, per colmo d’amore, vorresti quasi che in un film così ci fosse perfino qualche carrello in più.
Davide Eustachio Stanzione
In onda su Sky Cinema Passion, lunedì 29 aprile, ore 21.00
Sezione di riferimento: Dvd & Tv