Le immagini di Necropolis sono delle prigioni angoscianti, delle gabbie in cui il vuoto di senso produce nello spettatore la sensazione opprimente di uno straniamento che lo prende alle spalle e finisce col lasciarlo senza scampo, passo dopo passo, happening dopo happening. L’esplosione totale di qualsiasi forma di realtà accettabile ha lasciato campo libero all’improvvisazione di una tragedia in forma di farsa lugubre e prosaica, in cui lo stesso attore può ripetere all’infinito ciò che ha da dire spezzettando ogni singola parola in sillabe e mettendo a dura prova la resistenza di chi guarda (e ascolta).
Un film come Necropolis dovrebbe essere il manifesto dell’arte della penuria, e invece è proprio questo uno dei principali aspetti sul quale il film di Brocani spiazza: rinunciando al pauperismo un po’ obbligato di un cinema delirante e anticommerciale, il regista filma in 35mm e con una troupe vera, lasciando che si forgi sotto il suo sguardo solo sulla carta inconsapevole un titanico omaggio, magniloquente anche dal punto di vista produttivo, alla natura seducente, ambigua e perfino satanica delle immagini più mistificatorie che si possano immaginare, alla pagana ritualità delle loro menzogne e al modo sotterraneo in cui le epifanie fanno capolino al loro interno e loro malgrado.
Nella frontalità sovraesposta dei suoi personaggi c’è una dichiarazione di inadeguatezza dell’icona cinematografica che appare palese fin da subito: essa è messa a disagio e temprata da vessazioni oniriche oltre l’immaginabile, costretta dentro un tritacarne labirintico dal quale non c’è alcuna possibilità di venir fuori indenni. Brocani gioca a evidenziare a lettere di fuoco il lato oscuro del warholismo: il suo è un découpage cinematografico che potrebbe essere accostato ad alcuni esperimenti di resistenza portati a termine nei suoi film dal cineasta e artista pop americano (su tutti, Chelsea Girls), dei quali egli intende esasperare la componente nera e sottilmente tragica. L’arte di Brocani, dopotutto, è un’urna funeraria non rasserenata, come un cadavere non celebrato dagli onori di una sepoltura regolare, un cinema nato morto e costretto toto corde ad avventurarsi nei territori bui e selvatici dell’ossessione.
Liberamente fassbinderiano nella disintegrazione di un immaginario umanista che sembra aver conosciuto il colore della vita per poi disfarsene del tutto e abbracciare così una forma nuova di mélo crudo e autolesionista, Necropolis, proprio come il recente Sacro Gra, parla di Roma e non ne parla, lasciandola ai margini del suo discorso filmico, non donando alla Città Eterna una chiave di ingresso per far breccia nel proprio mondo. Rinnegata ed esterna per ricercato e voluto paradosso, a dispetto della sua natura accentratrice di caput mundi e intersezione di qualsivoglia via percorribile.
Una scelta che nasce da un anticlassicismo militante dell’autore, da intendere come ansia bulimica di modernità, una tensione in cui “non c’è tradizione ma solo polluzione”, per citare una delle battute più anticonformiste e sgangherate di tutto il film. Un’opera che si permette di evocare Kenneth Anger, Mick Jagger, Charles Manson e Sharon Tate nella stessa scena e di accostare uno di costoro (e non il più scontato) direttamente a Satana (il diavolo del film, in realtà, è uno straordinario Carmelo Bene).
Siamo insomma di fronte al testamento assoluto di un regista negato (ricordando Trapianto, consunzione e morte di Franco Brocani di Mario Schifano), che come diceva il suo più caro amico non ha mai scattato una fotografia, non ha mai imbracciato (davvero) una macchina da presa. È l’antitesi del poeta laureato, è un lirico ruvido, un intellettuale che non è più autorevole, privato di qualsiasi corona d’alloro o cattedra. Un artista non organico che non obbedisce a nessun signore, che non potrebbe sopportare il benché minimo proposito di canonizzazione entro i margini restringenti delle istituzioni. In Necropolis, la parola è svuotata di ogni valore comunicativo piano e lineare e vista in definitiva come cancro, nevrosi, malattia, sintomo malefico, andando incontro, beckettianamente, alla sconnessione dal gesto: un veicolo impazzito e sacrilego, da censurare in via preventiva onde evitare ritorsioni sulla propria pelle.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Extra
Scheda tecnica
Regia: Franco Brocani
Sceneggiatura: Franco Brocani (da Mary Shelley, Bram Stoker, Ovidio e i fatti di Erzsébet Báthory)
Attori: Nicoletta Machiavelli, Tina Aumont, Carmelo Bene, Pierre Clémenti, Viva Auder
Musiche: Gavin Bryars
Fotografia: Franco Lecca, Ivan Stoinov
Montaggio: Ludovica Barbani
Anno: 1970
Durata: 124'